domenica 23 ottobre 2011

Zanzavino, 02

Il campo dell'oratorio era allora - e lo è anche adesso - un piazzale di cemento pieno di buche e di pozzanghere, dalla forma piuttosto irregolare, vagamente trapezoidale.
Sul lato sinistro, il terreno di gioco era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla senza dover per questo interrompere il gioco, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo, questo almeno in teoria, perché la striscia di gesso era costantemente lavata dalle piogge invernali. Ci si accordava prima della partita: alle volte si decideva che era valido far rimbalzare la palla anche contro i muri in mattoni dell'alloggio del sacrestano, un uomo calvo e dal naso adunco che parlava sempre poco e camminava sempre di fretta.

Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato lì a fianco, bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Cazzo, c'era una donnetta zoppa che ci metteva un'eternità.
Le bestemmie che tiravamo.
Con buona pace del parroco, che faceva finta di non sentire.

Quando veniva buio, mandava fuori sua sorella - un'anziana e scorbutica zitella con due baffi neri così e un gigantesco neo purulento sulla punta del naso - che requisiva la palla malgrado i nostri schiamazzi.
Era quello, d'altra parte, l'unico modo per far terminare le nostre partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità, fino a che non si riusciva a vedere più nulla, fino a che non si poteva riconoscere la palla dalle scarpe di un avversario o addirittura dalle nostre stesse scarpe.
La maledivamo, quella vecchia strega.

Andassero affanculo, lei e quello stronzo del fratello prete, ci dicevamo mentre tornavamo a casa, sudati fradici e con i pantaloni nuovi sbucciati sulle ginocchia. E mica c’era il mercuriocromo: ci venivano delle croste che sembravano delle mappe geografiche.
Uno fa il prete, ci dicevamo, perché non ha voglia di fare un cazzo. O perché non è capace di fare un cazzo. Se fosse capace di fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, ci dicevamo, non sarebbe qui a dire la messa in latino per quattro babbione incartapecorite con un rosario di madreperla in mano, e a farsi insultare da un esercito agguerrito di ragazzini senza Dio.
Questo per dirvi che razza di piccoli bastardi maleducati e impertinenti eravamo.

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