venerdì 30 ottobre 2009
Mio padre, John Lennon
Non ho mai conosciuto mio padre.
Se ne è andato troppo presto, quando io e Paulette avevamo solamente diciotto mesi. Non che agli fratelli sia andata meglio: avevano rispettivamente dieci e sette anni, nemmeno il tempo di ricordarselo, dopo.
Si è ammazzato di lavoro. Eppure il dottore glielo aveva detto piu' volte, di andarci piano, dopo il primo, leggero, infarto. Aveva compiuto cinquant'anni due settimane prima.
Quello che mi resta è un album di cuoio, ormai sdrucito, con i ricordi di una vita.
Una collezione di pallide fotografie in bianco e nero, sbiadite, e i documenti del periodo in cui fu partigiano nelle valli tra il Luretta e la Pietra Parcellara.
Il Capitan Bologna.
Medaglia d'argento al Valor Militare per la Resistenza.
(Talmente sentita, che hanno sbagliato persino il cognome, hanno scritto MANZANI)
C'è anche un trafiletto, poco piu' di sei righe, sul Dizionario dei Concittadini Illustri.
Bella roba.
Avrei preferito che avesse continuato a tenerci sulle ginocchia, mentre leggeva il giornale seduto a tavola.
Una bella mattina di ottobre.
Il sole è improvvisamente sbucato dalla fitta coltre di nubi che nei giorni scorsi ci ha impedito di guardare oltre il cielo.
E' il periodo giusto per mettere a dimora i crochi e i tulipani. Sandy ne ha presi un paio di sacchetti pieni. Ci sono anche due esemplari di aglio selvatico. L'anno scorso ne abbiamo piantato uno, e quella specie di patata spelacchiata è diventato un fusto alto piu' di un metro, con in cima un fiore lilla, grosso come un arancio.
Agnese mi aiuta a smistare i semi e i bulbi nelle varie buche che mi sono preparato, con l'ausilio di un badile e di un piccone.
Le piace aiutarmi, anche se poi si stufa subito.
E allora si mette a preparare la pappa per i suoi figli, stamattina ne ha addirittura quattro: due barbie, un altro bambolotto - un bambolotto inquietante, un umanoide cyber che muove le labbra e piange lacrime finte, e che se gli butti uno strano liquame grigiastro in bocca lui poi si caga addosso - e addirittura un orsachiotto di pezza.
Se vuoi puoi essere mio marito, mi dice mentre accarezza l'orsachiotto.
Se proprio insisti, abbozzo io. A dire il vero, quattro figli mi sembrano un pò troppi. Tutti in una volta, poi.
Quando rientriamo in casa ci mettiamo in cucina a disegnare con i pennarelli.
Dopo un pò mi dice: devo far vedere i miei disegni alla nonna Giulia.
Ok, rispondo io, e intanto mi alzo per prepararmi un caffe'. Quando viene a trovarci glieli facciamo vedere.
Poi mi chiede: ma la nonna non ha un marito?
Lo aveva, rispondo io. Adesso non c'è piu'.
Ah, fa lei. E come si chiamava?
Giovanni.
Ah.
Era mio padre, aggiungo io (lo sapete anche voi, i bambini faticano assai a entrare nel complesso meccanismo delle parentele. E Agnese non fa certo eccezione, anzi diciamo pure che gli alberi genealogici non sono il suo forte).
Lei resta lì, immobile, lo sguardo fisso su un punto qualunque della nuda parete d'intonaco.
Sembra perplessa.
D'altro canto, come non comprenderla: suo padre si chiama Giovanni, suo fratello si chiama Giovanni, e suo nonno come si chiamava? Giovanni. La Madonna che fantasia, potrebbe pensare. Un paio di Madonne le ha gia' tirate, infatti, fortunatamente senza aggettivi.
Ma poi si lascia distrarre dalla radio che gracchia una musica conosciuta.
Cerco di spostare l'antenna nella speranza di ricevere meglio il segnale, mentre lei canticchia sullo sfondo.
Torno fuori per stendere un pò di terriccio con il rastrello, e poi innaffio l'aiuola scura e polverosa.
Rientro in casa e accendo la televisione. Su Mtv c'è un programma sui Beatles. Deve essere un anniversario di qualche cosa, perchè per tutta la mattina mettono dei vecchi filmati, interviste e materiali d'archivio.
C'è anche un video nel quale quattro pupazzi - a immagine e somiglianza dei Fab Four - suonano Ticket to ride e A day in the life.
Agnese guarda il video rapita. Io nel frattempo le massaggio la pancia, dovreste provarla anche voi, è morbida come la pasta delle pizza dopo che è lievitata per un intero pomeriggio.
Chi sono?, mi chiede.
Dei musicisti, rispondo. Si chiamavano Beatles. In Italiano vuol dire: scarafaggi.
Che schifo.
Guarda, le dico, quello lì si chiamava Paul, sì, insomma, Paolo. Quello con i capelli piu' lunghi si chiamava Giorgio. Quello invece era Ringo. Ringo Starr. Suonava i tamburi. E quello là in fondo era John, Giovanni. Anche lui adesso non c'è piu'.
Giovanni?, ripete stupita.
Sì, Giovanni.
Lei resta in silenzio, ma io mi accorgo che sta macchinando qualche idea strampalata in quella sua testolina di cazzo, e infatti dopo qualche istante mi chiede:
Ma era lui tuo papa'?
Io rido forte. Chi? John Lennon?
Anche lei ride, adesso.
No, non era lui, rispondo io accarezzandole i capelli, sottili e castani come i miei.
E intanto i quattro pupazzi, sullo schermo in 16:9, attaccano With a little help from my friends.
Verso sera, esco di nuovo per fare legna. Il sole è sparito all'orizzonte, e la temperatura è scesa improvvisamente. Meglio accendere il camino.
Sono lì che scelgo con cura i pezzi di carpino e robinia dalla catasta sotto il pergolato nascosto dal gelsomino, che poi è un falso gelsomino, qualsiasi cosa voglia dire, e intanto ripenso a John Lennon.
Cazzo, avrebbe potuto essere davvero mio padre.
In fondo era del '40.
Anche se non ce la vedo molto, la Giulia, con il vecchio John. E poi cosa cazzo è andata a fare a Liverpool?
Però.
Però non si sa mai.
Prendo la Scenìc e vado giu' in paese a comprare un pò di insetticida, anche se siamo un pò fuori stagione c'è un'invasione di formiche rosse.
Fuori dall'emporio, c'è un gippone parcheggiato con due ruote sul marciapiede. Si apre la portiera e scende un uomo di mezz'età, corporatura robusta e un principio di chierica sul cranio.
Mi guarda senza alcuna espressione particolare.
Io ricambio il suo sguardo ottuso e poi gli dico: John Lennon era mio padre.
E lui: chi, quell'hippy sciroccato che cantava tutte quelle cazzate sulla pace e sull'amore universale?
Immagina un mondo senza possessi/mi chiedo se ci riesci/senza necessità di avidità o fame/La fratellanza tra gli uomini/Immagina tutta le gente/condividere il mondo intero....
Stronzate.
Brutta bestia, l'invidia.
Mentre torno in macchina mi dico, 'fanculo, adesso chiamo McCartney.
Cazzo, Macca, gli dico, quand'è che mi mandi i diritti d'autore delle ultime compilation?
Lui balbetta qualcosa di incomprensibile. Deve essere ancora incazzato per la storia della dicitura "Lennon/McCartney" sui dischi. Secondo lui, andrebbe ribaltata, almeno per i pezzi che in realtà, così dice, ha scritto lui. Non gli hanno mai spiegato la proprietà commutativa.
Macca? Mi senti?
Devi chiedere a Yoko, mi risponde lui dopo una lunga pausa. Ho già datto tutto a Sean e a Julian.
Non fare il furbo con me, gli faccio, domattina voglio il bonifico.
Poi gli detto il codice IBAN:
I
T
6
0
R
...
Ma la cornetta adesso suona a vuoto.
Tuuu... tuu....
Ha messo giu', quel bastardo.
Che gran figlio di puttana.
Te l'avevo detto che non dovevi fidarti di lui, papà.
IMMAGINE DA:
http://www.robertoagostini.it/uploads/images/Ritratti/john%20lennon.jpg
giovedì 15 ottobre 2009
Un altro anno se ne e´andato via, ormai, e sino a ora non ci ha regalato grandi capolavori, anche se come sempre tanta buona musica.
Per questo motivo le aspettative sul nuovo, terzo album degli Editors - l´eventuale album della maturita´artistica - erano molto alte. A nostro giudizio, infatti, la band di Birmingham è una delle migliori, seppur poco originale, tra i tanti presunti "fenomeni" del revival wave britannico di questo scorcio di inizio secolo.
Per questo motivo, dunque, è lecito essere piuttosto delusi dalla deriva sinfonica di "In This Light And On This Evening", dove le consuete e cupe atmosfere dark-wave vengono innaffiate da un proluvio di tastiere e sintetizzatori anni '80 (Depeche Mode/Ultravox/Human League): come quando i Joy Division - dopo la morte di Ian Curtis – diventarono i New Order (noi, e´ovvio, preferiamo i primi).
Non sono molti i brani che vanno bene: "The Big Exit", che non sfigurerebbe in "Kid A" o in "Amnesiac", e soprattutto "The Boxer", il brano piu' ricco di pathos, che fa venire in mente l'espressionismo decadente del Bowie della trilogia berlinese. E poi la title-track, con una notevole coda elettronica, e la conclusiva, sobria, "Walk the fleet road", sulla quale tuttavia aleggia il fantasma dei Crime & City Solution.
Tutto il resto, soffre maledettamente, sotto un'inutile e monumentale - a volte persino stucchevole - sovrastruttura sintetica.
Grande è il rammarico, se si pensa a quello che avrebbe potuto essere.
La settimana scorsa abbiamo infatti avuto la fortuna di ascoltare un loro breve set acustico su RadioDue, durante il quale Tom Smith, con la sua voce piena e tenebrosa, ha entusiasmato il pubblico con alcune interpretazioni da brividi.
Persino "Papillon", il loro pur nuovo singolo – ballabilissimo e quindi battutissimo in radio - e´stata resa in una versione tesa e vibrante: sembrava Johnny Cash cantare, di nuovo, un pezzo dei Nine Inch Nails...
Per ora prendiamo quello che viene - cara di grazia - anche se speriamo che in futuro gli Editors si possano sottoporre a una cura dimagrante.
Restiamo, fiduciosi, in attesa del loro "Nebraska".
mercoledì 14 ottobre 2009
State bene voi
Sotto zero anche stamattina.
Ma almeno non c'è da spalare la neve, malgrado le previsioni catastrofiche di tutti quei fottuti metereologi. Sarà una precipitazione epocale, ci ripetevano da giorni. Una nevicata senza precedenti.
Invece niente.
Un pò me lo aspettavo, ieri notte ero sceso sino al fiume per una passeggiata con il cane, e il fragore assordante della piena rimbombava sotto un sipario stellato talmente ampio da sembrare finto.
Impiego del tempo per raschiare il ghiaccio dal parabrezza dell'auto.
Il motore si avvia al primo colpo.
La vecchia Renault non dimostra i suoi anni e le miglia percorse e, dopo aver avanzato a strappi solo all'inizio, si arrampica decisa sulla strada impervia e piena di buche.
In paese non c'è anima viva.
Le serrande delle botteghe sono ancora abbassate, e il benzinaio è nascosto nel suo bugigattolo in lamiera metallica, al caldo di una stufetta elettrica difettosa.
Incrocio lo Scuolabus sulla provinciale. Alzo un cenno di saluto all'autista, che poi è anche il cantoniere e persino il necroforo, nelle comunità piccole bisogna arrangiarsi, e il materiale umano a disposizione è quello che è.
Cerco una stazione decente, ma la radio gracchia a ripetizione.
Alla fine mi rassegno ad ascoltare - un'altra volta - l'ultimo dei Massive Attack.
Il sole si alza tardi e timidamente filtra tra i rami spogli delle fitte boscaglie alle pendici del passo appenninico.
Sullo sfondo, un jet squarcia con il suo vapore biancastro il cielo limpido e pulito.
Contro luce, la montagna mostra i suoi muscoli.
Invincibile.
Un altro paese.
L'insegna lampeggiante della farmacia indica la temperatura: meno quattro.
Una pattuglia dei Carabinieri resta immobile nel mezzo del piazzale di asfalto crepato. All'interno dell'abitacolo, un agente legge il giornale scaldandosi con il motore diesel acceso al minimo.
Gran lavoratore.
Abbandono l'auto sul marciapiede e scendo per acquistare due marche da bollo. La tabaccheria è un vero e proprio bazar: vendono funghi secchi, caciotte nostrane, riviste di costume, biancheria intima, giocattoli passati di moda. Come un drugstore della remota frontiera americana.
Mi avvicino al bancone.
C'è qualcuno?, chiedo senza ottenere risposta.
Ehi, c'è qualcuno?, ripeto alzando la voce.
Mentre osservo gli scaffali senza curiosità mi accorgo che nel negozio c'è un freddo bestiale. Improvvisamente, da dietro una porta dal vetro zigrinato di colore brunito compare una signora anziana che mi viene incontro malvolentieri. Indossa una buffa cuffia colorata, tre o quattro maglioni, uno sull'altro, e almeno tre paia di calzettoni di lana, oltre a un paio di pantofole di velluto a coste sottili.
Mi serve in silenzio, dopo un vago sorriso di benvenuto, e allora mi accommiato piu' rapidamente possibile.
Oltrepasso i campi innevati e gli orti addormentati, con le file di cavoli protette dal gelo con teli di plastica trasparente. Le cataste di fascine sono allineate lungo i filari di gelsi, freschi di potatura. Un gruppo di oche grasse e zoppicanti si avvicinano al bordo della strada.
Arrivo a destinazione che non sono nemmeno le dieci.
Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, individuo l'ufficio giusto, che si trova in fondo a un ballatoio sospeso nel vuoto. Le antiche lastre di pietra basaltina sono rese scivolose dal ghiaccio, e così avanzo a piccoli passi. Non bastasse, sulla balaustra in ferro battuto c'è un cartello con la scritta: vietato appoggiarsi alla ringhiera.
Devo consegnare una pratica per richiedere un'Autorizzazione al Vincolo Idrogeologico.
Una volta, un agente immmobiliare che doveva trascrivere una clausola su una bozza di compromesso che recitava, piu' o meno, che "l'atto di compravendita era vincolato all'approvazione, da parte delle autorità competenti, del Piano dell'Assetto Idrogeologico", scrisse invece "all'approvazione del Piano dell'Assetto Ideologico". Non so se fu colpa del correttore automatico di Word, avete presente quella graffetta del cazzo che compare all'improvviso e modifica le parole a suo piacimento, sta di fatto che rileggendo piu' volte l'atto, lui non ci trovava nulla da ridire.
Piano dell'Assetto Ideologico.
Non suona male.
Roba da far rabbrividire George Orwell.
Roba da dittature serie.
Era un tipo niente male, quel mediatore. L'unico che ho conosciuto che non portasse scarpe a punta di vernice nera. Era solito darti una pacca sulle spalle, e dirti: Allora, tutto bene, caro architetto? Eh, sì, sta bene lei, caro architetto. Diceva sempre così a tutti, stai bene tu, caro te, state bene voi, cari voi.
(Si racconta che una sera fu invitato a cena da una coppia di amici che viveva con la madre di lei in casa, costretta da oltre un decennio dentro un polmone d'acciaio, e che non appena pronunciò la fatidica frase fu buttato fuori di casa a metà pasto, senza esitazioni, anzi: a calci nel culo).
Il tecnico non c'è.
La mattina va a fare fisioterapia.
Sa, recentemente ha avuto problemi col ginocchio, gli dava continuamente fastidio e così ha dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico, mi spiega una sua collega, per nulla imbarazzata. La tipa non sospetta nemmeno che c'è qualcuno, come il sottoscritto, che deve fare un'ora e mezzo di strada per arrivare sino lì, in quel suo ufficio del cazzo, nel buco del culo del mondo, che alle pareti ci hanno persino attaccato anche la propaganda del candidato del centrodestra alle ultime elezioni provinciali, il che non mi aiuta a mantenere la calma e dunque a rapportarmi con lei con la dovuta educazione.
Sa, è un pò sovrappeso, e quindi le articolazioni sono sempre sotto sforzo.
Non so per quale ragione del cazzo, ma la tipa pensa che il quadro clinico di quel lardoso geometra possa in qualche modo suscitare il mio interesse.
Ah, beh, certo, rispondo io, cercando inultilmente di nascondere la mia irritazione.
E quando arriverebbe?, chiedo dopo una lunga pausa.
Verso le undici, risponde lei allontanandosi per andare a rispondere al telefono.
Non mi rimane che incamminarmi verso la piazza. Fa ancora freddo, e allora mi infilo in un bar qualsiasi. Presso il tavolino piu' vicino all'uscita, due avventori di mezz'età restano seduti a leggere la Gazzetta. Merda, altra brutta notizia. Devo controllare le formazioni, ho il match decisivo al Fantacalcio e non so ancora che Mourinho schiererà Balotelli e Thiago Motta.
Ordino un caffè e prendo posto su uno sgabello.
Dietro a un paravento decorato in modo floreale, un gruppo di donne discute del caso Morgan. Secondo me hanno fatto bene a lasciarlo a casa, dice la piu' giovane. A me sta antipatico, è arrogante e canta male, aggiunge, ma si vede benissimo che mente e che si farebbe scopare da lui, seduta stante, sui divanetti imbottiti del bar.
Un'altra ribatte che invece buttarlo fuori è ingiusto. Se si droga sono fatti suoi, proclama.
Scopro di non avere un'opinione al riguardo.
Mi viene in mente un titolo di Cuore, anno 1991 o 1992: I Beatles si drogavano. Mino Reitano no. Vogliamo parlarne?
Al bancone c'è una donna ancora giovane che continua a lamentarsi del tempo. Quest'anno non sono potuta andare via per via della malattia di mia madre, proclama piu' volte, ma l'anno prossimo scappo a novembre in una qualche isola caraibica e fino a marzo non torno. Ah, vi avverto, fino a marzo non mi vedete piu', ripete lei mentre la barista annuisce severamente.
Sembra quasi una minaccia.
Fosse per me, puoi stare via anche il resto dell'anno, sbuffa sarcastico uno dei due lettori della Gazzetta.
L'altro se la ride sotto i baffi.
Fratello, mi stai simpatico, sul serio, vorrei dirgli io, ma ti prego, lasciami leggere quella Gazzetta del cazzo, che devo vedere se gioca Balotelli.
sabato 10 ottobre 2009
Il mondo, alle volte, gira proprio alla rovescio.
Succede allora che il nuovo singolo dei Kings Of Convenience – strepitoso il loro nome, da catena di ipermercati di bassa marca - balzi in testa, nel giro di poche settimane, alla chart (“50 Songs”) di Radio Deejay, una delle emittenti piu’ danzereccie dell’etere nostrano: addirittura davanti a Muse, Robbie Williams e Madonna.
Però.
Al primo approccio, “Mrs Cold” non è che una delicata ballata minimal, com’è nelle loro corde. Provando a riascoltarla, questa sorta di groove al rallentatore inizia a entrarmi nelle orecchie, inesorabilmente. Al terzo ascolto non ne posso piu’ fare a meno: mi scopro a tamburellare le dita grassocce sul volante, mentre torno a casa, e attraverso lo specchietto osservo la bambina muovere ritmicamente la testa e canticchiare parole a casaccio.
Non a caso, per il duo di Bergen (Norvegia) si tratta de “il disco pop più ritmico che sia mai stato fatto senza percussioni né batteria”.
Strano destino, comunque, per questi due ragazzi assolutamente normali. Li ricordo, ormai diversi anni fa, sul palco del Fillmore di Cortemaggiore. Eirik Glambek Bøe, timido e riservato, suonare e cantare con lo sguardo fisso sul pavimento. E poi Erlend Øye, il prototipo dello sfigato, uno che Nick Hornsby inserirebbe senza esitazioni nella speciale classifica degli “Uomini Piu’ Patetici Del Mondo”, danzare sinuoso, sotto il palco, in uno strepitoso finale (inaspettatamente) elettronico.
“Declaration Of Dependance” è il loro terzo album da studio, dopo un lungo il periodo di inattività, durante il quale i due hanno dato libero spazio a progetti alternativi, e non delude certo le attese.
I pionieri del cosiddetto “New Acoustic Movement” ci regalano ancora una bellissima collezione di malinconiche ballate a là Simon&Garfunkel, in cui trovano spazio atmosfere pacate e intimiste, alcuni rimandi (“Renegade”, “Me In You”) alla scena cool londinese anni ’80 (Style Council, Everything But The Girl) e i consueti arrangiamenti scarni ed essenziali, sebbene qua e là compaiono viole e violoncelli (“Peacetime Resistance” e “Boat Behind”, ovvero il secondo singolo, scritta durante il concerto di Bari nel 2004).
Il tour promozionale toccherà anche in Italia per due date:
* mercoledì 28 ottobre all'Auditorium Conciliazione di Roma;
* giovedì 29 al Conservatorio di Milano.
venerdì 9 ottobre 2009
lunedì 5 ottobre 2009
QUASI COME KEROUAC, 10

July, 26th (TERZA PARTE)
A Chinle non c'è che un brutto fast food, ancora arredato con i divanetti in plastica colorata e un vecchio juke-box, come se da un momento all'altro dovessero saltare fuori Ralph e Fonzie.
Per il resto, le solite baracche prefabbricate, una pompa di benzina, uno steccato che si perde all'orizzonte. E un muro di intonaco scrostato, alla cui sommità qualcuno ha fissato del filo spinato.
Le due dopo mezzogiorno.
Silenzio assoluto.
Sembra di essere sospesi nel nulla.
Abbandoniamo la Toyota in uno spiazzo di terra polverosa nei pressi del Visitor Center e scendiamo lungo un sentiero scosceso.
Il Canyon de Chelly non è certo il Grand Canyon.
E' un canyon minore.
Monumento naturale e storico di grande importanza, è protetto dal 1931. Occupa una superficie di 336 chilometri quadrati, a un'altitudine di 1800 metri.
In ogni caso, non è frequentato da orde di turisti armati di videocamera, e per questo la sua visita è davvero sorprendente.
Ci inabissiamo tra pareti di roccia rossastra, che il fiume ha eroso, inesorabile, nel corso dei millenni. Davanti a noi si aprono scorci spettacolari.
All'improvviso, riusciamo a scorgere il fondovalle, inaspettatamente verde e rigoglioso, tutt'ora coltivato a mais e manioca dai (pochi) autoctoni superstiti. Sperdute in un letto di sabbia dorata, si stagliano le rovine di un antica città Navajo, forse di origine medievale, detta de "l'Antilope" per via del recente ritrovamento di graffiti raffiguranti quello e altri animali selvatici (l'alce, il cervo, il bisonte, l'orso), graffiti eseguiti con ogni probabilità nella prima metà del XIX Secolo.
Tra le vie tortuose del piccolo villaggio Anasazi, tra le abitazioni rupestri diroccate, vediamo aggirarsi alcuni nativi, sono conciati come i pellerossa nei peggiori film western dell'epoca d'oro di Hollywood, e sembrano dei fantasmi che hanno smarrito la propria strada e la propria storia.
Anche qui tutto è in vendita, persino l'orgoglio.
Tutt'attorno c'è una grande desolazione.
D'altro canto, eravamo preparati al peggiore dei possibili scenari. La nostra guida ci aveva avvertito: miseria e alcolismo sono le piaghe che affliggono queste antiche popolazioni. Tra tutte le minoranze etniche presenti negli Stati Uniti, restano quelli con la più bassa speranza di vita alla nascita, il più basso reddito pro capite, il più alto tasso di disoccupazione.
Un vecchio Navajo, coricato sulla sabbia che si scalda al sole, ci chiede l'elemosina.
All'ingresso del parco, un cartello consigliava ai turisti di non dare nulla ai questuanti e ai mendicanti.
Ci frughiamo nelle tasche e gli diamo quel pò di spiccioli che riusciamo a trovare.
Per la modica cifra di un dollaro, annuncia trionfalmente un altro lì accanto, è possibile fotografarlo.
Cazzo vuoi che sia un dollaro.
Se vogliamo riprendere anche sua moglie, che rimane seduta dietro a una bancarella di collanine colorate, lo sguardo assente a fissare il vuoto, dobbiamo pagare il doppio: due dollari in tutto.
La facciamo?
La facciamo.
Un'ora di crepuscolo
avvolta dal fuoco sacro
e in Te entrerò, Spirito delle Sabbie.
La tua notte rinfreschi il desiderio
di stare tra la mia gente, adesso.
(Nostalgia di casa, canto Navajo)
Fotografia: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Canyon_de_Chelly,_Navajo.jpg
venerdì 2 ottobre 2009
giovedì 1 ottobre 2009
domenica 27 settembre 2009
I Pearl Jam ai tempi di Obama

Il Nemico N.1 – George W. Bush: lui, le sue guerre e le sue bugie - non c’è piu’, ormai, e dunque gli ex-ragazzi di Seattle si vedono costretti, per una volta, ad abbandonare il consueto impegno politico e a virare verso toni meno accesi e vibranti.
Il loro nono lavoro di studio - per il quale è stato richiamato Brendan O'Brien, produttore di “Vs” e “Vitalogy”- ha sì un impatto diretto e immediato, senza fronzoli, ma testi piu’ sereni e ottimisti, anche se qua e là riaffiora una vena malinconica.
Il titolo (“Backspacer”) è ispirato all' omonimo tasto per macchine da scrivere - caduto in disuso negli anni '50 – con le quali Vedder è solito comporre i suoi pezzi, mentre per l’art-work è stato coinvolto il disegnatore “politico” Tom Tomorrow, conosciuto durante la campagna elettorale di Ralph Nader nel 2000.
Il disco – undici brani per poco piu’ di mezz’ora di durata - si apre alla grande con “Gonna see my friend”, un robusto garage-rock alla Stooges. “Got Some” rimane a galla con fatica, grazie a un sound ruvido e all’enorme mestiere della band, mentre “The Fixer” è un singolo spento e prevedibile. Inserita tra due episodi tutto sommato dimenticabili, “Just Breathe” è certamente il clou, una ballata da brividi – con un insolito accompagnamento d’archi - basata su un pezzo strumentale di Eddie Vedder da “Into the Wild", soundtrack dell’omonimo film diretto da Sean Penn. “Unthought Know” inizia bene, con un’unica variazione in costante aumento, “Supersonic” è il pezzo da “pogo” e dimostra - se davvero ce ne fosse il bisogno - la loro incredibile velocità d'esecuzione, e a seguire ci sono il pop sofisticato di “Speed of Sound” (che non è una cover dei Coldplay, anche se forse potrebbe esserlo…) e il pezzone grunge di “Force of Nature”. In chiusura, la soffertissima “The End”, con quel titolo talmente evocativo e impegnativo: avranno almeno chiesto il permesso a James Douglas Morrison, in arte Jim Morrison?
In sintesi, un album che difficilmente potrà passare alla storia, anche della storia della stessa band: in ultima analisi, davvero non si tratta di uno dei loro episodi migliori.
Tuttavia, Vedder e soci sembrano sinceri. Sembrano divertirsi ancora e metterci tutto il loro entusiasmo per fare un rock classico e tradizionale, solido ed emozionante, in una parola: onesto.
Insomma, come cantava Mick Jagger: “It’s only Rock’n’Roll, but I like it”.
giovedì 24 settembre 2009
Diciamo la verità, se non ci fosse Mr. Murdock, la tv ormai potremmo anche tenerla spenta.
L'oasi di Raitre è infatti in trepida attesa dell'Ennesima Grande Epurazione, in nome della libertà di stampa tanto sbandierata dai prezzolati dell'erotomane capo, e il resto del palinsesto via etere è - come dice il cugino Franz - merda pura.
Della quale la Marcuzzi, quella poveretta, che succhia i wurstel in prima serata su Italia Uno è certo uno dei punti piu' bassi mai raggiunti. L'unica soddisfazione è che da lì si può solo risalire.
Solo sul satellite, pur anch'esso dominato in gran parte da robaccia, è ancora possibile trovare qualcosa di buono.
L'altra notte, su Cult, mi sono imbattuto - per esempio - in uno strepitoso (e pluri-premiato) docu-film su uno scriteriato e folle equilibrista, tal Philippe Petit, francese, che nel 1974 camminò o meglio danzò, sospeso in aria, su una corda appositamente tesa tra le due torri gemelle.
Il video - intitolato "Man On The Wire", è del 2008 - mostra immagini bellissime di altre sue imprese storiche, tra cui la passeggiata di Notre Dame a Parigi e quella sul porto di Sidney, con la grandiosa Opera House di Utzon sullo sfondo.
Accompagnato, su Cult, da un'intervista a Paul Auster, visibilmente emozionato.
Imperdibili anche le dichiarazioni di Nixon in un vecchio schermo in bianco e nero, patetico nel suo dire: "Io non sono un imbroglione", di lì a qualche giorno fu costretto a dimettersi.
Cercate il Dvd, è imperdibile.
sabato 19 settembre 2009
Il mio tema

Il castello di Montichiaro è avvolto, spettrale, nella nebbia.
Uno spiraglio di luce, assai debole, filtra tra i boschi che costeggiano il fiume, boschi resi umidi dalla brina mattutina. Sono bastati pochi giorni di pioggia, e già si sono riaperte le frane, dappertutto la strada è invasa da pietre e terriccio: sembra quasi che la montagna non riesca piu’ a restare su, che abbia invece la volontà di cadere, di rotolare a valle.
Non bastassero le frane, un cinghiale ha attraversato la provinciale, l’altra notte, proprio mentre noi tornavamo dalla riunione organizzativa per la scuola. Un bell’esemplare, il pelo folto e grigiastro, le zanne affilate in evidenza. Immobile, illuminato dai fari della nostra auto, a lungo ci ha osservato incuriosito. Trovarselo davanti, così improvvisamente, al buio, dopo una curva, vi assicuro, un po’ vi cagate sotto.
Alla riunione ci dicono che Agnese ha avuto finalmente i suoi maestri unici, quattro maestri unici, per la precisione: la maestra unica di matematica, la maestra unica di italiano, la maestra unica di inglese, il maestro unico di religione.
Crepi l’avarizia.
I loro nomi si sono saputi soltanto nella notte, dopo una lunga e inutile attesa, dopo una serie concitata di fax e telefonate. Tuttavia, non si può sapere se saranno loro ad accompagnarla durante il suo primo anno di scuola: a fine ottobre, per via degli strani meccanismi che regolano la scuola primaria, verranno richiamate le ulteriori code di precari in lista d’attesa, che potrebbero optare per Travo, e dunque lo scenario potrebbe cambiare. Sostituzioni, trasferimenti, e poi i soliti riscorsi, le sentenze del TAR di turno, ecc, e quindi fino a Natale, boh. E’ come il calciomercato di qualche anno fa. Sempre aperto.
Cazzo, mica male come partenza.
Quella di italiano, essendo di ruolo, quella però non cambierà. Deve aver firmato un triennale. A meno che non si svincoli per via della Legge Bosman…
In compenso i tagli – da alcuni piuttosto comicamente definiti “Riforma” – hanno riguardato non solo i docenti ma anche i bidelli, o meglio “personale ATA” o "AFA", non ho capito bene. E’ solo grazie ad alcuni di loro che – pur non essendo a loro richiesto – volontariamente (chissà se Brunetta lo sa) scorrazzano in tutta la valle, da un “plesso” all’altro, se negli ultimi tempi riesco a tenere aperte le scuole qui in montagna, dice sconsolata la direttrice. Ha lo sguardo abbattuto ma un piglio ancora deciso, nonostante tutto.
Il primo giorno di scuola.
Agnese è tranquilla.
Nemmeno un po’ di commozione, nemmeno una lacrima.
Certo, è corsa ad abbracciare sua mamma, appena ha sentito la campanella. La campanella che segnala l’inizio di tutto, un brivido che corre lungo la schiena.
Lo zaino delle Winx è stracolmo di libri, libretti, quaderni e quadernoni. E’ già piu’ pesante di un divanoletto. In fondo allo zaino, ci sono una mela e un succo di pera. Una merenda frugale. Come Pinocchio. O come Vasco. Mica come io e Paulette, che tutte le mattine ci compravamo una focaccina tonda dal vecchio Fumi, che aveva il negozio di alimentari proprio sotto casa. Non a caso, eravamo grassi inquartati. Costava sessanta lire: me lo ricordo bene. Anche se sono passati trentacinque anni. Una vita fa.
L’aula di Agnese è come è sempre stata.
Nulla è cambiato.
Ma nulla davvero.
Ci sono ancora i banchetti con il ripiano di formica verde chiaro, le seggioline di legno curvato, la lavagna con i gessetti colorati e il cancellino a spirale, come quello che ci lanciavamo dietro la schiena appena la maestra si girava, la cattedra con la struttura metallica e il buco tra il top e il laterale, attraverso il quale spiavamo le gambe di quella supplente di matematica. Portava sempre le calze a rete, quella zoccola.
C’è persino la carta geopolitica dell’Europa.
E poi un bellissimo pavimento di graniglia, di quelli di una volta. Solo le vecchie finestre in legno sono state sostituite dalle nuove in PVC. Erano mezze marce e lasciavano passare gelidi spifferi.
E' come fare un viaggio indietro nel tempo.
Anche i nomi dei suoi compagni sembrano arrivare dal passato: Teresa, Edoardo, Letizia, Giorgia.
L'aula non grande, ma i bambini sono solo undici, per cui c'è spazio da buttare. Vi chiederete: così pochi? Da queste parti, trattasi di classe assai numerosa. Perlomeno, è stato scongiurato il rischio di una pluriclasse.
A dire il vero, qualcosa che non quadra c’è: un quadretto di Papa Woityla, sopra la cattedra. Pensavo ci dovessero mettere il presidente della Repubblica. Non che sia un bell’uomo, quello no. Ma insomma. D’altronde, quì, la scuola chiude al mercoledì pomeriggio, perché il parroco fa la dottrina.
Guarda sempre il lato positivo delle cose, CJ. Almeno non c’è il pastore tedesco. Se c’era Nazinger, allora sì, che erano cazzi.
Se c’era Nazinger, mi inversavo sul serio.
Ma, in fin dei conti, cosa ti aspettavi, CJ?
Divanetti in finta pelle? Una tappezzeria etnochic? Tavolini in polipropilene con gambe in acciaio inox, magari disegnati da Philippe Starck? Un maxischermo a cristalli liquidi al posto della lavagna?
Niente di tutto questo, per fortuna.
C’è ancora, nonostante tutto, nonostante i tagli, la cara e vecchia scuola, grazie al cielo.
Ancora qualcosa a cui aggrapparci.
Mentre torniamo a casa, io e Sandra ci chiediamo: cosa starà facendo adesso Agnese?
Pagheremmo per essere là dentro. Sul serio.
L’importante è che si comporti bene, ci diciamo. Che poi, io non lo so se mi comportavo bene, a scuola. Di sicuro, mi toglievo sempre le scarpe, almeno in prima lo facevo, e spesso mi sdraiavo sul pavimento per disegnare. Me lo ripete sempre la mia vecchia maestra, tutte le volte che la incrocio sul sagrato della chiesa. Anche a casa, mi piaceva stare sdraiato sul pavimento - freddo - di marmo del salotto. Un modo di agire non del tutto civile, adesso che ci penso. In compenso, sapevo già leggere e scrivere. Sfido io, con tutti quei temi che ci faceva fare la Manza. Quasi sempre sulla mela. Tema: la mela. Non svariava troppo nei titoli, quella iena.
La scuola di Agnese adesso è lontana, e noi corriamo già. Dobbiamo affrontare il nuovo giorno che avanza. Con meno voglia, stamattina.
Giusto un pensiero sul tempo che scorre troppo in fretta, inesorabilmente.
Ci pensi poco, magari perchè hai ancora pochi capelli bianchi, o perchè ancora hai voglia di fare un pò il cazzone con gli amici, quelli rimasti, quelli veri.
Però passa lo stesso.
Agnese, alla vigilia del suo primo giorno di scuola, mi ha regalato un piccolo cuoricino fucsia – anzi fuffian, come diceva lei quando era piu'piccola – e lo ha attaccato sullo schermo del mio i-Phone.
Così ti ricorderai sempre di me, mi ha detto.
Ok, ho risposto io.
Così ti ricordi me quando sei morto, ha aggiunto.
Le ho sorriso, un sorriso amaro.
Non so se lo prenderò su, sai. Probabilmente, laggiu’ non c’è campo.
E dirò di pietre consumate, di città finite, morte sensazioni,
racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni
e canterò soltanto il tempo...
mercoledì 16 settembre 2009
martedì 15 settembre 2009
Ecco che arrivano le prime piogge – qui a Travo stamattina c’è una nebbia che sembra di essere in novembre – e dunque i nostri ascolti necessariamente si adeguano al rinnovato clima brumoso e malinconico.
Per questo motivo PiacenzaSera ha scelto il nuovo e sesto album dei Mum, dal titolo surreale “Sings Along To Song You Don’t Know”. Realizzato tra la natìa Islanda, la Finlandia e l’Estonia – con il supporto del coro Estonian Suisapäisa Mixed Choir – e pubblicato da un’etichetta berlinese, esso propone una sapiente miscela tra il consueto elettro-ambient, istanze pop e rimandi alle tradizioni narrative popolari. Il climax giocoso e onirico di quest’opera segna un’inversione di rotta rispetto al passato, una reazione dei Mum ai recenti avvenimenti islandesi (una crisi economica senza precedenti ha causato le dimissioni del governo e ha mandato letteralmente in bancarotta la quasi totalità della popolazione) che hanno scosso la vita tranquilla di quella che è sempre stata considerata un’isola felice.
La successione dei brani scorre fluida, anzi liquida, senza soluzioni di continuità, pervasa ovunque da un caleidoscopio di suoni delicati e sognanti, ottenuto grazie a una strumentazione assai varia: viola, violoncello, pianoforte, organo, ukulele, marimba e altri, tipici della tradizione popolare.
In apertura, la filastrocca “If I Were A Fish” esalta il timbro soave della nuova vocalist Gisladottir (che presenta somiglianze con Lali Puna) e va a “ripescare” – mi si scusi lo scontato gioco di parole… - i suoni subacquei di “Fishrising” di Steve Hillage (ex Gong).
Con “Hullaballabalù” e “Kay-Ray-Ku-Ku-Ko-Kex”, bizzarre e bucoliche cantilene in lingua madre, dimostrano invece di avere mandato a memoria la lezione dei maestri Sigur Ros, “Sing Along” pare una cover degli Stereolab, l’ottima “The Smell Of Today…” recupera una base elettrodance da videogioco anni ‘80, mentre “Last Shapes Of Never” è un coro vagamente gotico a là Dead Can Dance.
Su tutti, “Illuminated”, punteggiata da archi di bellezza straordinaria.
venerdì 11 settembre 2009
LAST BUT NOT LEAST
9. Il compagno Demicheli
Ovvio.
Lo avevo tralasciato apposta, per dedicargli un post tutto per lui, un pò come Lippi che sostituisce Vincenzone per la standing ovation a pochi minuti dal termine...
Ovvio.
Lo avevo tralasciato apposta, per dedicargli un post tutto per lui, un pò come Lippi che sostituisce Vincenzone per la standing ovation a pochi minuti dal termine...
giovedì 10 settembre 2009
RITRATTI LIONESI, 01
A quasi un anno di distanza dai celebri ritratti lionesi, Cj pubblica qui ampi stralci della Moleskine scritta in terra francese.
Si trattava di un taccuino griffato, addirittura BANCA MEDIOLANUM, e dunque assai politicamente scorretto, ma tuttavia di un bellissimo colore rosso. Gran bell'oggetto, dunque, regalo del Sassidubi per 40+40=80.
A titolo di promemoria, parteciparono al viaggio:
1. Il compagno Badini
2. Il conpagno Calza
3. Il compagno Ferri
4. L'altro compagno Ferri
5. Il compagno Menzani
6. L'altro compagno Menzani
7. Il compagno Ronda
8. Il compagno Zilocchi
Purtroppo si tratta di un'opera largamente incompleta.
Le motivazioni di questa edizione ridotta vanno ricercate - senza dubbi - nella scarsa vena creativa generale del gruppo, ma anche in una serie di motivazioni assolutamente indipendenti dalla volontà dei suoi componenti, ovvero, principalmente:
1) il furgone noleggiato dal compagno Ronda - oltre a non essere dotato di lettore CD, dettaglio di non poca importanza - era tutt'altro che confortevole, per cui scrivere risultava poco agevole;
2) il cibo ingurgitato durante la nostra permanenza ha causato danni irreparabili ai nostri intestini, creando situazioni di disagio e di malessere tali da pregiudicare pensieri e azioni dei nostri;
3) pioveva sempre, cazzo, per cui era in pratica impossibile aprire la Moleskine senza inzupparla tutta!
Si trattava di un taccuino griffato, addirittura BANCA MEDIOLANUM, e dunque assai politicamente scorretto, ma tuttavia di un bellissimo colore rosso. Gran bell'oggetto, dunque, regalo del Sassidubi per 40+40=80.
A titolo di promemoria, parteciparono al viaggio:
1. Il compagno Badini
2. Il conpagno Calza
3. Il compagno Ferri
4. L'altro compagno Ferri
5. Il compagno Menzani
6. L'altro compagno Menzani
7. Il compagno Ronda
8. Il compagno Zilocchi
Purtroppo si tratta di un'opera largamente incompleta.
Le motivazioni di questa edizione ridotta vanno ricercate - senza dubbi - nella scarsa vena creativa generale del gruppo, ma anche in una serie di motivazioni assolutamente indipendenti dalla volontà dei suoi componenti, ovvero, principalmente:
1) il furgone noleggiato dal compagno Ronda - oltre a non essere dotato di lettore CD, dettaglio di non poca importanza - era tutt'altro che confortevole, per cui scrivere risultava poco agevole;
2) il cibo ingurgitato durante la nostra permanenza ha causato danni irreparabili ai nostri intestini, creando situazioni di disagio e di malessere tali da pregiudicare pensieri e azioni dei nostri;
3) pioveva sempre, cazzo, per cui era in pratica impossibile aprire la Moleskine senza inzupparla tutta!
RITRATTI LIONESI, ANCORA
Date un'occhiata qui sotto.
In questi scatti presi durante la trasferta in terra di Francia del weekend scorso, c'è un'intera generazione di (giovani, una volta...) promesse (mancate, ma quante recriminazioni...) della sinistra (sinistra, una volta...) piacentina.
E poi ci si stupisce che il paese va a destra...












In questi scatti presi durante la trasferta in terra di Francia del weekend scorso, c'è un'intera generazione di (giovani, una volta...) promesse (mancate, ma quante recriminazioni...) della sinistra (sinistra, una volta...) piacentina.
E poi ci si stupisce che il paese va a destra...













RITRATTI LIONESI, ANCORA LORO
Altri motivi per cui la sfornata di ex-giovani talenti di cui sotto non ha sfondato... se ce ne fosse davvero bisogno.
In attesa di un salutare e tanto atteso ricambio generazionale, che ovviamente li taglierà fuori definitivamente dal giro, i nostri eroi si barcamenano in lavori più o meno politicamente corretti, fanno cose, fanno figli (alcuni li fanno praticamente in diretta...), vedono gente, insomma, cercano di godersi la vita come pochi.
Nell'attesa di un nuovo, epocale, big bang, comodamente divanati davanti allo schermo al plasma in 16:9, hanno ancora il coraggio di scandalizzarsi - un pochino, però - nel vedere le solite facce da quarant'anni, e quindi Andreotti in stato catatonico nel solito patetico polpettone domenicale, Gelli annunciare un nuovo programma tv, Cossiga blaterare scomposto sui dosordini alle manifestazioni contro il decreto Gelmini, la proposta di Zavoli alla vigilanza tv, perchè sembra che Biagi abbia rifiutato l'incarico con la scusa che è morto da oltre un anno (rifiuto che Veltroni pare non abbia apprezzato per nulla, sembra anzi che gli abbia chiesto di ripensarci).











In attesa di un salutare e tanto atteso ricambio generazionale, che ovviamente li taglierà fuori definitivamente dal giro, i nostri eroi si barcamenano in lavori più o meno politicamente corretti, fanno cose, fanno figli (alcuni li fanno praticamente in diretta...), vedono gente, insomma, cercano di godersi la vita come pochi.
Nell'attesa di un nuovo, epocale, big bang, comodamente divanati davanti allo schermo al plasma in 16:9, hanno ancora il coraggio di scandalizzarsi - un pochino, però - nel vedere le solite facce da quarant'anni, e quindi Andreotti in stato catatonico nel solito patetico polpettone domenicale, Gelli annunciare un nuovo programma tv, Cossiga blaterare scomposto sui dosordini alle manifestazioni contro il decreto Gelmini, la proposta di Zavoli alla vigilanza tv, perchè sembra che Biagi abbia rifiutato l'incarico con la scusa che è morto da oltre un anno (rifiuto che Veltroni pare non abbia apprezzato per nulla, sembra anzi che gli abbia chiesto di ripensarci).












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