Tenetevi forte, amici.
Cj ha intenzione di ripercorrere, con immagini e ricordi vari, la sua (direi) gloriosa carriera calcistica.
Vi ricordo che l'uomo in questione, cresciuto nella mitica Bolide di San Savino (nella categoria Pulcini), ha poi militato nel Roncaglia (Giovanissimi), Libertas (Allievi), Virtus (III categoria) - solo qualche sprazzo prima di infortunarsi seriamente al ginocchio sinistro - per poi riprendere negli Amatori con REA, Cavalli e Scommesse, ecc...
Per iniziare, eccovi due chicche da intenditori...
martedì 29 gennaio 2008
venerdì 25 gennaio 2008
Unità di crisi
Dopo l'inesorabile caduta del professore bolognese, Country Joe ha immediatamente aperto un tavolo per l'analisi degli ultimi avvenimenti e per l'elaborazione delle future strategie.
L'Unità di Crisi si è data appuntamento ieri sera al Temple.
La delegazione di centrosinistra era composta, oltre che da Cj, da Steve e da Big, ovvero due raffinitassimi osservatori delle vicende politiche nostrane.
La destra era invece degnamente rappresentata da Galletto Bubù, invitato permanente al tavolo allo scopo di verificare la possibilità delle larghe intese.
La delegazione progressista, dopo aver affogato la propria amarezza in qualche litro di birra chiara, avendo sostanzialmente una paura fottuta di straperdere (giustamente) le eventuali elezioni anticipate ha proposto un governo tecnico, sostenuto da un'ampia parte del Parlamento.
Scartata l'ipotesi di un reincarico a Prodi e le prevedibili soluzioni istituzionali (Marini, D'Alema, Letta), l'Unità di Crisi avrebbe individuato in Nuccio Cusumano l'uomo giusto per traghettare il paese fuori dalla situazione in cui si trova.
Godrebbe anche dei favori dell'Arci Gay
Altra idea, strepitosa risposta alla necessità del centro-sx di svecchiare la propria immagine: Rita Levi Montalcini. Sembra che l'interessata si sia dichiarata disponibile a guidare solamente un governo di breve durata...
Galletto, da parte sua, ha avanzato la candidatura di Clemente Mastella, oppure in seconda battuta, ipotesi alquanto suggestiva, Ignazio La Russa: un uomo sobrio e moderato che piace un pò a tutti, destra e sinistra.
Non sono neppure da scartare altre soluzioni: si parla insistemente di Titta Rota, Rocco Siffredi, Farncesco Guccini.
In rialzo anche le quotazioni di Kermit la rana.
Al fine di orientarsi meglio, l'unità di Crisi ha deciso di proporre a tutti i lettori del blog il sondaggio "Chi volete vedere morire per primo?", che troverete qui a destra.
giovedì 24 gennaio 2008
mercoledì 23 gennaio 2008
HIGHLIGHTS DALLA SPAGNA
In attesa della scansione della moleskine del viaggio spagnolo di fine anno, c.j. sperimenta la slideshow con le immagini più belle del viaggio.
Qui a destra...
Qui a destra...
L'infinita periferia dell'Italia
Una vampata di violenza, per alcuni giorni, ha investito la banlieue parigina. In modo più delimitato, rispetto a due anni fa, quando si era rapidamente propagata intorno a Parigi e in altre città francesi. Per molte settimane. Questa volta, invece, si è concentrata a Villiers-le-Bel. A Nord della capitale. Contagiando solo la vicina Saint-Denis, teatro di battaglia nel 2005. Inoltre, gli incidenti sembrano essere finiti abbastanza in fretta. Tuttavia, due notti di violenze hanno provocato, tra le forze di polizia, oltre 120 feriti, alcuni gravi. Ovvero: più o meno quanti in tre settimane di scontri due anni fa. Secondo il governo francese, si tratta di delinquenza giovanile organizzata, che ha "sfruttato" un episodio tragico (la morte di due ragazzi in moto, in seguito allo scontro con un'auto della polizia) per scatenare la guerriglia. Insomma: racaille. Teppaglia, feccia... La definizione usata da Sarkozy, all'epoca degli scontri di due anni fa. Quand'era ministro degli Interni. Tuttavia, se si trattasse "solo" di delinquenza comune, un sistema di polizia efficiente, come quello francese, un Presidente determinato, come Sarkozy, avrebbero contrastato il ripetersi di esplosioni violente, in tempi tanto ravvicinati, negli stessi luoghi. A Villiers-le-Ville, Saint Denis e nella banlieue parigina. Dove comportamenti violenti si ripetono con disarmante e straordinaria regolarità. Se ciò non è avvenuto, probabilmente, è perché questa violenza non nasce nel vuoto. Rischiando la banalizzazione sociologica di alcune letture sociologiche (o sedicenti tali) degli anni Settanta: questa violenza è "anche" figlia del contesto in cui esplode. Banlieues degradate, ad alta concentrazione etnica. Strade e piazze difficili da attraversare, per chi non vive nella zona. (E anche per chi ci vive). Tassi di disoccupazione giovanile elevati. Relazioni intergenerazionali difficili. Genitori che non riescono più a esercitare l'antica autorità sui figli. Un'architettura che denuncia "estraneità". Dello Stato, delle istituzioni. Questi quartieri, queste città periferiche "producono" tipi sociali violenti e marginali. Un Paese, come la Francia, ostile alla sola idea di "comunitarismo", intesa come modello di integrazione fondato sulla comune appartenenza religiosa, nazionale, etnica, oggi affronta una situazione peggiore. Alla periferia delle città e nelle città periferiche, emerge, infatti, un "comunitarismo" senza "comunità". Favorito da "aggregati etnici" (non previsti) che hanno perduto i legami (e le capacità di controllo) di una comunità.
Se pensiamo a noi, è forte la tentazione di chiamarsi fuori. Non siamo la Francia. L'Italia è una terra di città piccole e medie. Con rare eccezioni. Un "Paese di compaesani", come l'ha definito il sociologo Paolo Segatti. Che ancora non si è rassegnato al flusso, massiccio, degli "stranieri". E vorrebbe lasciarli fuori. Alle porte della città. Come a Cittadella e in altri comuni veneti, dove, per scoraggiare il flusso dei poveracci, i sindaci hanno emesso un'ordinanza che vincola la concessione agli stranieri della residenza ad alcuni requisiti. Fra cui un reddito minimo intorno ai 500 euro mensili. (Se applicato ai residenti, produrrebbe l'espulsione di numerosi pensionati). L'Italia non è la Francia. Ma si sta avviando lungo un cammino altrettanto rischioso. Perché si sta trasformando, in modo inconsapevole, in una periferia infinita. Che produce sradicamento, indebolisce il controllo sociale, non contrasta la diffusione di comportamenti violenti. Nelle nostre metropoli, d'altronde, emergono, da tempo, lacerazioni visibili. A Milano. La "rivolta" del quartiere cinese. Il moltiplicarsi di episodi di ordinaria violenza, nelle periferie, che hanno indotto la sindaca Moratti a promuovere una marcia popolare, per rivendicare maggiore attenzione dal governo. (Come se, durante gli anni precedenti, quando essa stessa sedeva al governo, il problema non esistesse). A Roma. Dove alcuni eventi drammatici (ultimo: la tragica aggressione di una donna, a opera di un rom) hanno fatto esplodere il malessere delle zone suburbane. Ulteriormente degradate a causa del flusso costante di nuovi immigrati dall'est europeo. Ammassati in baracche provvisorie. A Napoli. Dove la lunga scia di violenza è, riduttivamente, ricondotta alla "camorra". Mentre riassume i percorsi di "normale devianza", che attraversano alcuni quartieri marginali. Come Scampia: raccontata, con rara efficacia, da Roberto Saviano insieme ad altri autori, in un libro antecedente al fortunatissimo "Gomorra" ("Napoli comincia a Scampia", L'Ancora del Mediterraneo, 2005). Ma segnali di decomposizione si avvertono anche - soprattutto - nell'Italia minore. Nella provincia "dove si vive bene". Non è un caso che la "crescita della criminalità" sia avvertita soprattutto nelle regioni del Centro (62%; media nazionale 51%: indagine Demos per UniPolis, novembre 2007) e nei comuni medio-piccoli (56%). Indipendentemente dall'effettivo andamento del fenomeno (che le statistiche considerano in calo). Il fatto è che molti, troppi borghi, molte, troppe piccole città si stanno svuotando. Ridotte a grandi supermarket. Parchi giochi. Musei. Oppure, come abbiamo osservato qualche settimana fa, in "cittadelle universitarie". Abitate da - anzi, affittate a - studenti. Mentre gli abitanti si sono trasferiti all'esterno. Creando periferie ricche. Ma pur sempre periferie. Aggregati senza centro. Con scarse relazioni. Cariche di edifici affollati. Oppure costellate da villette pregevoli e cascinali ristrutturati. Una umanità che perde l'abitudine alle relazioni; e il "controllo" sul territorio. Il Nord "padano" e "pedemontano", da parte sua, questa strada l'ha già intrapresa da tempo. E' divenuto una metropoli inconsapevole. Che incorpora una miriade di piccoli comuni. Perduti in un viluppo di strade, punteggiato di rotonde impossibili da attraversare a piedi; mentre chi passa in bici corre un rischio mortale. Anche perché, in Italia, il tasso di automobili è il più alto d'Europa: quasi 6 ogni 10 abitanti. La provincia tranquilla e quieta del Nord. Una galassia puntiforme. Una specie di Los Angeles involontaria. Dove maturano piccoli omicidi, inattesi e feroci. Dove la "comunità" ha perso ogni controllo sulla società e sulle persone. Perché si è decomposta. Né possono surrogarla pallide caricature, come le "ronde" padane. Riescono solamente ad accrescerne la nostalgia. Difficile riconoscere il paesaggio intorno a noi. E' cambiato troppo in troppo poco tempo. Edificato, impersonale e desocializzato. Dove, per rispondere al malessere che si respira, le persone si chiudono dentro casa. E gli amministratori erigono nuove mura, visibili e invisibili, intorno alle città. Ma anche dentro alle città. Incapaci di "riconoscere" i problemi, ma anche i propri meriti. Preferendo negarli, per opportunismo. Pensiamo, ad esempio, alle città del Nordest. Le aree che, come dimostrano le statistiche della Caritas e del Cnel, garantiscono livelli di integrazione degli immigrati fra i più elevati in Italia. Ebbene, preferiscono negarlo. Si presentano per quel che "non" sono: inospitali. E rifiutano, anzitutto, di proporsi come un "buon modello" di accoglienza. Fondato sul lavoro, sull'offerta di servizi, espressa dalle associazioni del mondo economico e dal volontariato. Meglio immaginare il Nord Est come il Far West degli sceriffi. Pronti a spingere la racaille fuori dalle mura della "cittadella" assediata. E vero, non siamo la Francia, dove le banlieues critiche si concentrano intorno ad alcune metropoli. Nell'Italia del nostro tempo, invece, la periferia dilaga ovunque. Come una metastasi. Alimentata da logiche immobiliari e immobiliariste; da mille paure. Che la politica si limita a inseguire e ad assecondare. La nostra banlieue infinita non ha un aspetto cupo. Piuttosto: "grigio". Un reticolo di quartieri residenziali. Cresciuti, in modo disordinato, intorno a un "centro storico", bello e inabitato. La nostra periferia infinita. Non trasmette identità. Non promuove relazioni. Non comunica regole. Non plasma uno spirito "estetico", tanto meno "etico". Al più: un individuo "mimetico". E insicuro.
Se pensiamo a noi, è forte la tentazione di chiamarsi fuori. Non siamo la Francia. L'Italia è una terra di città piccole e medie. Con rare eccezioni. Un "Paese di compaesani", come l'ha definito il sociologo Paolo Segatti. Che ancora non si è rassegnato al flusso, massiccio, degli "stranieri". E vorrebbe lasciarli fuori. Alle porte della città. Come a Cittadella e in altri comuni veneti, dove, per scoraggiare il flusso dei poveracci, i sindaci hanno emesso un'ordinanza che vincola la concessione agli stranieri della residenza ad alcuni requisiti. Fra cui un reddito minimo intorno ai 500 euro mensili. (Se applicato ai residenti, produrrebbe l'espulsione di numerosi pensionati). L'Italia non è la Francia. Ma si sta avviando lungo un cammino altrettanto rischioso. Perché si sta trasformando, in modo inconsapevole, in una periferia infinita. Che produce sradicamento, indebolisce il controllo sociale, non contrasta la diffusione di comportamenti violenti. Nelle nostre metropoli, d'altronde, emergono, da tempo, lacerazioni visibili. A Milano. La "rivolta" del quartiere cinese. Il moltiplicarsi di episodi di ordinaria violenza, nelle periferie, che hanno indotto la sindaca Moratti a promuovere una marcia popolare, per rivendicare maggiore attenzione dal governo. (Come se, durante gli anni precedenti, quando essa stessa sedeva al governo, il problema non esistesse). A Roma. Dove alcuni eventi drammatici (ultimo: la tragica aggressione di una donna, a opera di un rom) hanno fatto esplodere il malessere delle zone suburbane. Ulteriormente degradate a causa del flusso costante di nuovi immigrati dall'est europeo. Ammassati in baracche provvisorie. A Napoli. Dove la lunga scia di violenza è, riduttivamente, ricondotta alla "camorra". Mentre riassume i percorsi di "normale devianza", che attraversano alcuni quartieri marginali. Come Scampia: raccontata, con rara efficacia, da Roberto Saviano insieme ad altri autori, in un libro antecedente al fortunatissimo "Gomorra" ("Napoli comincia a Scampia", L'Ancora del Mediterraneo, 2005). Ma segnali di decomposizione si avvertono anche - soprattutto - nell'Italia minore. Nella provincia "dove si vive bene". Non è un caso che la "crescita della criminalità" sia avvertita soprattutto nelle regioni del Centro (62%; media nazionale 51%: indagine Demos per UniPolis, novembre 2007) e nei comuni medio-piccoli (56%). Indipendentemente dall'effettivo andamento del fenomeno (che le statistiche considerano in calo). Il fatto è che molti, troppi borghi, molte, troppe piccole città si stanno svuotando. Ridotte a grandi supermarket. Parchi giochi. Musei. Oppure, come abbiamo osservato qualche settimana fa, in "cittadelle universitarie". Abitate da - anzi, affittate a - studenti. Mentre gli abitanti si sono trasferiti all'esterno. Creando periferie ricche. Ma pur sempre periferie. Aggregati senza centro. Con scarse relazioni. Cariche di edifici affollati. Oppure costellate da villette pregevoli e cascinali ristrutturati. Una umanità che perde l'abitudine alle relazioni; e il "controllo" sul territorio. Il Nord "padano" e "pedemontano", da parte sua, questa strada l'ha già intrapresa da tempo. E' divenuto una metropoli inconsapevole. Che incorpora una miriade di piccoli comuni. Perduti in un viluppo di strade, punteggiato di rotonde impossibili da attraversare a piedi; mentre chi passa in bici corre un rischio mortale. Anche perché, in Italia, il tasso di automobili è il più alto d'Europa: quasi 6 ogni 10 abitanti. La provincia tranquilla e quieta del Nord. Una galassia puntiforme. Una specie di Los Angeles involontaria. Dove maturano piccoli omicidi, inattesi e feroci. Dove la "comunità" ha perso ogni controllo sulla società e sulle persone. Perché si è decomposta. Né possono surrogarla pallide caricature, come le "ronde" padane. Riescono solamente ad accrescerne la nostalgia. Difficile riconoscere il paesaggio intorno a noi. E' cambiato troppo in troppo poco tempo. Edificato, impersonale e desocializzato. Dove, per rispondere al malessere che si respira, le persone si chiudono dentro casa. E gli amministratori erigono nuove mura, visibili e invisibili, intorno alle città. Ma anche dentro alle città. Incapaci di "riconoscere" i problemi, ma anche i propri meriti. Preferendo negarli, per opportunismo. Pensiamo, ad esempio, alle città del Nordest. Le aree che, come dimostrano le statistiche della Caritas e del Cnel, garantiscono livelli di integrazione degli immigrati fra i più elevati in Italia. Ebbene, preferiscono negarlo. Si presentano per quel che "non" sono: inospitali. E rifiutano, anzitutto, di proporsi come un "buon modello" di accoglienza. Fondato sul lavoro, sull'offerta di servizi, espressa dalle associazioni del mondo economico e dal volontariato. Meglio immaginare il Nord Est come il Far West degli sceriffi. Pronti a spingere la racaille fuori dalle mura della "cittadella" assediata. E vero, non siamo la Francia, dove le banlieues critiche si concentrano intorno ad alcune metropoli. Nell'Italia del nostro tempo, invece, la periferia dilaga ovunque. Come una metastasi. Alimentata da logiche immobiliari e immobiliariste; da mille paure. Che la politica si limita a inseguire e ad assecondare. La nostra banlieue infinita non ha un aspetto cupo. Piuttosto: "grigio". Un reticolo di quartieri residenziali. Cresciuti, in modo disordinato, intorno a un "centro storico", bello e inabitato. La nostra periferia infinita. Non trasmette identità. Non promuove relazioni. Non comunica regole. Non plasma uno spirito "estetico", tanto meno "etico". Al più: un individuo "mimetico". E insicuro.
Ilvo Diamanti su Repubblica.it
La foto è di cj
martedì 22 gennaio 2008
NY 12, CHELSEA HOTEL NO. 2
I remember you well in the Chelsea Hotel, you were talking so brave and so sweet, giving me head on the unmade bed, while the limousines wait in the street.Those were the reasons and that was New York, we were running for the money and the flesh. And that was called love for the workers in song probably still is for those of them left.
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I remember you well in the Chelsea Hotel you were famous, your heart was a legend. You told me again you preferred handsome men but for me you would make an exception. And clenching your fist for the ones like us who are oppressed by the figures of beauty, you fixed yourself, you said, "Well never mind, we are ugly but we have the music."
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I don't mean to suggest that I loved you the best, I can't keep track of each fallen robin. I remember you well in the Chelsea Hotel, that's all, I don't even think of you that often.
© by Leonard Cohen.
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I remember you well in the Chelsea Hotel you were famous, your heart was a legend. You told me again you preferred handsome men but for me you would make an exception. And clenching your fist for the ones like us who are oppressed by the figures of beauty, you fixed yourself, you said, "Well never mind, we are ugly but we have the music."
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I don't mean to suggest that I loved you the best, I can't keep track of each fallen robin. I remember you well in the Chelsea Hotel, that's all, I don't even think of you that often.
© by Leonard Cohen.
lunedì 21 gennaio 2008
NY 11, CHELSEA HOTEL

E quindi il Chelsea Hotel, ovvero una delle cose che a New York non siamo riusciti a vedere.
Chelsea Hotel, 222 West 23rd Street, New York - tel. 001-212-2433700
Un motivo in più per tornare, prima o poi (magari con Sandy, se si decide a prendere l’apparecchio… dai, bella, solo solo nove ore di volo o poco più...)
Beh, forse non ci fermeremo a dormire qui... sarà pur vero, come recita il sito web ufficiale (http://www.hotelchelsea.com/), che quando osservi New York dalla finestra, sembra che la città non possa rinunciare al Chelsea, e viceversa, ma queste sono le tariffe: da $ 195 per la camera singola a $ 485 per la suite; mini appartamenti con uso cucina da $ 275.
Costruito nel 1884 come uno dei primi esempi di appartamenti in cooperativa, il Chelsea è da sempre l’albergo degli intellettuali, degli artisti e dei radical chic.
Se i muri del Chelsea Hotel potessero parlare, racconterebbero di vite bohémiennes, pagine letterarie imbrattate di whiskey, angeli della controcultura, demoni del rock.
Se i muri del Chelsea Hotel potessero parlare, racconterebbero di vite bohémiennes, pagine letterarie imbrattate di whiskey, angeli della controcultura, demoni del rock.
Accanto alla porta d’ingresso dell’edificio, alcune targhe celebrano i Chelsea residents a breve e a lungo termine.
La letteratura, qui, ha messo radici soprattutto negli Anni ’50 esibendo i suoi belli e dannati: William Burroughs, impegnato a scrivere The Naked Lunch; gli altri beatniks Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti; Nelson Algren e la sua streetwise novel A Walk On The Wild Side; Arthur Clarke che solo qui riusciva a concentrarsi sulla sceneggiatura del film 2001: A Space Odyssey; Arthur Miller, che al Chelsea trovò il domicilio ideale per il semplice motivo che non doveva indossare lo smoking per ritirare la posta alla reception, come succedeva nel più “fashionable” Plaza Hotel.
E ancora: Brendan Behan, Edgar Lee Masters, Thomas Wolfe, Vladimir Nabokov, Eughenij Evtucenko…
La letteratura, qui, ha messo radici soprattutto negli Anni ’50 esibendo i suoi belli e dannati: William Burroughs, impegnato a scrivere The Naked Lunch; gli altri beatniks Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti; Nelson Algren e la sua streetwise novel A Walk On The Wild Side; Arthur Clarke che solo qui riusciva a concentrarsi sulla sceneggiatura del film 2001: A Space Odyssey; Arthur Miller, che al Chelsea trovò il domicilio ideale per il semplice motivo che non doveva indossare lo smoking per ritirare la posta alla reception, come succedeva nel più “fashionable” Plaza Hotel.
E ancora: Brendan Behan, Edgar Lee Masters, Thomas Wolfe, Vladimir Nabokov, Eughenij Evtucenko…
I dipinti esposti sulle scale, lungo i corridoi e nella reception, si portano appesi i ricordi di artisti che barattarono una tela per una notte da non trascorrere sotto i ponti. Tra gli altri, gli action painters Jackson Pollock e Willem de Kooning, il grande pop Jasper Johns hanno soggiornato qui. E sempre qui, negli Anni ’60, zoomando da una camera all’altra, Andy Warhol e i dropouts della Factory hanno girato The Chelsea Girls.
Con l’avvento dei favolosi sixties, direbbe Gianni Minà, diventò poi un incredibile crocevia di rockstar.
Qui dimorò per molti anni Bob Dylan, il vate del Greenwich Village, nel 1966, in compagnia della prima moglie Sara: in una camera al terzo piano (suite 2011) compose la splendida ballata Sad–Eyed Lady Of The Lowlands.
E ci sono passati Jimi Hendrix, Joni Mitchell (che scrisse Chelsea Morning), i Grateful Dead del vecchio zio Jerry (saluta lo zio, Big!), i Jefferson Airplane, Patti Smith e Janis Joplin che a questo proposito proclamò: “Mi piace il Chelsea. Ci abitano parecchi miei amici e succede sempre qualcosa di divertente. Somiglia a una comune californiana. Solo che costa un po' di più."
In tempi più recenti, Jon Bon Jovi ha composto Midnight at Chelsea nella suite numero 515.
Il Chelsea Hotel fu purtroppo anche teatro di celebri tragedie: nel bagno della camera numero 100 - che adesso non esiste più – fu trovata assassinata il 11 ottobre 1978 Nancy Spungen, la ragazza di Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols.
Molti anni prima (1953), Dylan Thomas, il poeta gallese che ispirerà a Robert Zimmerman la scelta del suo nome d’arte, fu trovato in coma nella stanza n. 205 dopo essersi scolato 18 whiskhy in una sola notte.
Ma fu anche la cornice dell’incontro tra due grandi, Janis Joplin (suite 411) e Leonard Cohen (suite 424), che quest’ultimo immortalò nella fantastica Chelsea Hotel #2, inserita nell’album New Skin For The Old Ceremony del 1974 ma eseguita per la prima volta dal vivo il 23 marzo 1972 durante il suo terzo show londinese alla Royal Albert Hall.
Malinconia
venerdì 18 gennaio 2008
L'uomo dell'anno 2007
Sempre più spesso cj trova la sua casella piena zeppa di mail spiritose o presunte tali, il più delle volte di stampo rigorosamente maschilista, che prontamente cestina.
Questa, però, gli sembra simpatica, oltre ad essere in tema con le classificone di fine anno.
Per inciso, cj pensa che il secondo classificato (sarà per l'enorme massa adiposa, o per la sigaretta, o comunque per uno stile un pò lebowskiano, tipo: "I like your style, Dude!") meritasse qualcosina di più.
Questa, però, gli sembra simpatica, oltre ad essere in tema con le classificone di fine anno.
Per inciso, cj pensa che il secondo classificato (sarà per l'enorme massa adiposa, o per la sigaretta, o comunque per uno stile un pò lebowskiano, tipo: "I like your style, Dude!") meritasse qualcosina di più.
NY 10, IL CLAMOROSO SCOOP DI C.J.
Con i compagni niuiorchesi si era pensato di prepararsi all'evento con una cena al Roadhouse a base di steaks, nachos e chips.
Segue trasferimento alla multisala, altro "nonluogo" interessante, il tutto in omaggio alla filosofia omologante e spersonalizzante made in stelle e strisce.
Chi volesse aderire...
Come succosa anteprima, c.j. posta questo scatto colto di sfuggita sulla Fifth Avenue nel novembre 2006: è l'auto di The Legend!
giovedì 17 gennaio 2008
Bianca
Bianca indossa le candide vestie
apre i suoi occhi profondi e celesti;
la notte incomincia, è un dolce mistero
là dove il sogno può sembrare vero;
La notte è un viaggio in un mondo pulito
senza confini, un pianeta infinito;
e Bianca lo sa e mostra i suoi averi
non sono denaro, ma solo desideri
che crescono in fretta e assumon sembianze
di giovani, forti e convinte speranze.
Adesso Bianca la notte respira
il cielo stellato contempla e ammira
la quiete è attorno, la calma è carezza
che allontana o esorcizza ogni sua amarezza;
nella sua mente, ricordi e pensieri
di sogni raggiunti o rimasti desideri
ma anche la forza, che come una spada
distrugge la roccia che sbarra la strada;
e Bianca vorrebbe un mondo senza rocce
senza salate e amarissime gocce
che brillano il viso di leali sconfitti
che han visto negati i loro diritti,
il piu` importante di tutti: la dignità
spesso soffocata da odio e viltà;
ma Bianca stanotte veste di bianco
il suo spirito brilla, al buio tiene banco
dolcemente lo aggredisce, lo costringe alla resa
una luce immensa in questa notte si è accesa;
chissà se nell`animo, un pensiero ci dona
è il valore primario: si chiama "persona".
Cesco "Harrold The Barrel"
apre i suoi occhi profondi e celesti;
la notte incomincia, è un dolce mistero
là dove il sogno può sembrare vero;
La notte è un viaggio in un mondo pulito
senza confini, un pianeta infinito;
e Bianca lo sa e mostra i suoi averi
non sono denaro, ma solo desideri
che crescono in fretta e assumon sembianze
di giovani, forti e convinte speranze.
Adesso Bianca la notte respira
il cielo stellato contempla e ammira
la quiete è attorno, la calma è carezza
che allontana o esorcizza ogni sua amarezza;
nella sua mente, ricordi e pensieri
di sogni raggiunti o rimasti desideri
ma anche la forza, che come una spada
distrugge la roccia che sbarra la strada;
e Bianca vorrebbe un mondo senza rocce
senza salate e amarissime gocce
che brillano il viso di leali sconfitti
che han visto negati i loro diritti,
il piu` importante di tutti: la dignità
spesso soffocata da odio e viltà;
ma Bianca stanotte veste di bianco
il suo spirito brilla, al buio tiene banco
dolcemente lo aggredisce, lo costringe alla resa
una luce immensa in questa notte si è accesa;
chissà se nell`animo, un pensiero ci dona
è il valore primario: si chiama "persona".
Cesco "Harrold The Barrel"
lunedì 14 gennaio 2008
HORIZONS
- Pronto.
- Buonasera, sono Ivan della Compagnia Demoscopica Horizons. Posso rubarLe due minuti del suo tempo?
- No, grazie, non mi interessa.
- Mi consenta di rivolgerLe due domande.
- Non insista, la prego.
- Le rubo solamente due minuti.
- No.
- Due minutini e poi La lascio in pace…
- Senta, sessanta milioni di cristiani - diconsi ses-san-ta mi-lio-ni - vivono in questo fottuto paese. Perché sempre io?
La sua disperazione era comprensibile. Nella sola ultima settimana, aveva dovuto rispondere a quesiti rispettivamente su: progressivo surriscaldamento del pianeta, indice di gradimento dei reality-show, questione maghrebina, crisi delle vocazioni, scelta del nuovo coach della nazionale, livello di soddisfazione dei consumatori, qualità dei programmi televisivi del servizio pubblico in fascia preserale.
- Non comprendo i motivi del Suo nervosismo, Signore, io volevo solo…
- Non sono affatto nervoso, è che ne non ne posso più di rispondere alle vostre inutili domande del cazzo…
- Adesso Lei esagera. Io cerco unicamente di fare bene il mio lavoro.
- Si cerchi un lavoro serio, ragazzo.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
- Buonasera, sono Ivan della compagnia…
- Ancora lei? Le ho già detto che non intendo rispondere.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
Adesso il suo tono era desolatamente dimesso.
Rassegnato all’ineluttabile.
- Signore, Le ricordo che ai sensi dell’art. 6, comma 5, Decreto del Presidente della Repubblica (…) Lei è tenuto a rispondere ai test (…) a pena di reclusione anni due (…) da scontarsi preferibilmente in…
Il ragazzo giocava duro.
Lui non aveva commesso l’errore di sottovalutarlo. Si accomodò perciò nella poltrona imbottita in finta pelle, si accese una Camel senza filtro e restò immobile in attesa, lo sguardo fisso in un punto qualsiasi del soffitto, ormai ocra per colpa del fumo.
- Buonasera, sono Ivan della Compagnia Demoscopica Horizons. Posso rubarLe due minuti del suo tempo?
- No, grazie, non mi interessa.
- Mi consenta di rivolgerLe due domande.
- Non insista, la prego.
- Le rubo solamente due minuti.
- No.
- Due minutini e poi La lascio in pace…
- Senta, sessanta milioni di cristiani - diconsi ses-san-ta mi-lio-ni - vivono in questo fottuto paese. Perché sempre io?
La sua disperazione era comprensibile. Nella sola ultima settimana, aveva dovuto rispondere a quesiti rispettivamente su: progressivo surriscaldamento del pianeta, indice di gradimento dei reality-show, questione maghrebina, crisi delle vocazioni, scelta del nuovo coach della nazionale, livello di soddisfazione dei consumatori, qualità dei programmi televisivi del servizio pubblico in fascia preserale.
- Non comprendo i motivi del Suo nervosismo, Signore, io volevo solo…
- Non sono affatto nervoso, è che ne non ne posso più di rispondere alle vostre inutili domande del cazzo…
- Adesso Lei esagera. Io cerco unicamente di fare bene il mio lavoro.
- Si cerchi un lavoro serio, ragazzo.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
- Buonasera, sono Ivan della compagnia…
- Ancora lei? Le ho già detto che non intendo rispondere.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
Adesso il suo tono era desolatamente dimesso.
Rassegnato all’ineluttabile.
- Signore, Le ricordo che ai sensi dell’art. 6, comma 5, Decreto del Presidente della Repubblica (…) Lei è tenuto a rispondere ai test (…) a pena di reclusione anni due (…) da scontarsi preferibilmente in…
Il ragazzo giocava duro.
Lui non aveva commesso l’errore di sottovalutarlo. Si accomodò perciò nella poltrona imbottita in finta pelle, si accese una Camel senza filtro e restò immobile in attesa, lo sguardo fisso in un punto qualsiasi del soffitto, ormai ocra per colpa del fumo.
mercoledì 9 gennaio 2008
Sempre sulle scimmie
La querelle tra scimmie sì e scimmie no sta prendendo il sopravvento.
Io offro un terreno di incontro tra le due scuole di pensiero...
I am the son / Io sono il figlio I am the heir / Io sono l'erede Of a shyness that is criminally vulgar / di una timidezza che é criminalmente volgare I am the son and heir / Sono il figlio e l'erede Of nothing in particular / di niente in particolare You shut your mouth / Chiudi la bocca How can you say / come puoi dire I go about things the wrong way? / che io faccio cose sbagliate? I am human and I need to be loved / sono un essere umano e ho bisogno di essere amata Just like everybody else does / proprio come tutti There's a club if you'd like to go / C'é un club se ti va di andarci You could meet somebody who really loves you / potresti incontrare qualcuno che davvero ti ama So you go and you stand on your own / cosi tu ci vai e stai per i fatti tuoi And you leave on your own / e te ne vai per i fatti tuoi And you go home, and you cry, and you want to die / e torni a casa, e piangi, e vorresti morire When you say it's gonna happen now / Quando dici sta per accadere ora What exactly do you mean? / cosa esattamente vuoi dire? See I've already waited too long / Vedi ho aspettato troppo tempo And all my hope is gone / e tutte le mie speranze sono finite You shut your mouth / Chiudi la bocca How can you say / come puoi dire I go about things the wrong way? / che io faccio cose sbagliate? I am human and I need to be loved / sono un essere umano e ho bisogno di essere amata Just like everybody else does / proprio come tutti
Io offro un terreno di incontro tra le due scuole di pensiero...
I am the son / Io sono il figlio I am the heir / Io sono l'erede Of a shyness that is criminally vulgar / di una timidezza che é criminalmente volgare I am the son and heir / Sono il figlio e l'erede Of nothing in particular / di niente in particolare You shut your mouth / Chiudi la bocca How can you say / come puoi dire I go about things the wrong way? / che io faccio cose sbagliate? I am human and I need to be loved / sono un essere umano e ho bisogno di essere amata Just like everybody else does / proprio come tutti There's a club if you'd like to go / C'é un club se ti va di andarci You could meet somebody who really loves you / potresti incontrare qualcuno che davvero ti ama So you go and you stand on your own / cosi tu ci vai e stai per i fatti tuoi And you leave on your own / e te ne vai per i fatti tuoi And you go home, and you cry, and you want to die / e torni a casa, e piangi, e vorresti morire When you say it's gonna happen now / Quando dici sta per accadere ora What exactly do you mean? / cosa esattamente vuoi dire? See I've already waited too long / Vedi ho aspettato troppo tempo And all my hope is gone / e tutte le mie speranze sono finite You shut your mouth / Chiudi la bocca How can you say / come puoi dire I go about things the wrong way? / che io faccio cose sbagliate? I am human and I need to be loved / sono un essere umano e ho bisogno di essere amata Just like everybody else does / proprio come tutti
lunedì 7 gennaio 2008
Le scimmie
Il limite della democrazia, si sa, è che non tutti la pensano come noi.
E' giusto quindi consacrare "Favourite Worst Nightmare" degli Arctic Monkeys come disco dell'anno 2007.
Purtroppo non ho avuto il tempo per approfondire l'ascolto, ma ad un primo impatto mi era sembrato un disco di buon rock (qui inteso nella sua accezione più calssica, se ancora può avere un senso...).
Nulla di eclatante, insomma.
La cover è interessante, con quella immagine in bianco e nero di una siedlung in stile "existenz minimum" che contiene al suo interno un cancro psichedelico...
Però se Beddolix e DJ Paulette - non due stronzi qualunque, quindi - mi dicono che le scimmie artiche spaccano, non ci sono cazzi: spaccano!
venerdì 28 dicembre 2007
giovedì 27 dicembre 2007
POPSONGS: XMAS 2007

Puntuale come l'acconto IVA del quarto trimestre, arriva anche quest'anno l'immancabile compilation di fine anno, a cura di contry joe e d.j. paulette.
Per ragioni di spazio, non è possibile qui segnalare la tracklist completa.
Anticipazioni:
i Radiohead fanno la parte del leone, con ben cinque estratti (All I Need, Nude, Videotapes, Faust Arp, Jigsaw Falling Into Place) dal loro ultimo capolavoro Inrainbows: nessuna sorpresa, ormai è noto l'apprezzamento di c.j. per quest'opera.
A questo proposito.
C.j. non aveva certo l'intenzione di interferire sul regolare svolgimento della consultazione "L'album dell'anno 2007".
Egli tuttavia vuole sottolineare che chiunque, dopo aver selezionato "Nude" sul lettore mp3 e dopo aver ruotato in senso antiorario - finché ce n'è - la manopola del volume, non provasse una piacevole sensazione di oblìo o almeno una pelle d'oca anche superficiale, beh, allora, sostiene c.j., questi dovrebbe farsi vedere alla svelta da uno bravo...
In ogni caso, Big e Beddolix stiano tranquilli: Vedder è presente con quattro brani (Rise, la meravigliosa Society, Long Nights e la cover '80 Hard Sun), e lo stesso vale per le scimmie artiche, o Arctic Monkeys (Fluorescent adolescent, If You Were There, Beware, Old Yellow Bricks, Teddy Picker sono pezzi che spaccano!).
Fratello J. apprezzerà invece Comelade (Smog On The Vermut, Stranger In Paradigm), Beirut (Eelphant Gun) e Banhart (Bad girl).
Per restare agli album votati nel sondaggio qui a destra, tre brani a testa per gli ormai classici White Stripes (Icky Thump, Little Cream Soda, You Don't Know What Love Is) e gli islandesi Sigur Ros, i preferiti di d.j. paulette (le eteree Agaetis Byrjun, Hljomalind, Von).
Bene anche Editors (Put Your Head Towards The Air, Smokers Outside The Hospital Doors - che gran titolo! - e The Racing Rats), gli alfieri dell'Alt-Country Wilco (Either Way, On And On And On, What Light) e Interpol (il gettonatissimo singolo The Heinrich Maneuver e, soprattutto, Pioneer To The Falls, gran pezzo).
La canzone d'autore, oltre che i soliti mostri sacri come Wyatt (la fantastica Just As You Are e Stay Tuned, ripresa da Anja Garbarek), Springsteen e Cave con i Grinderman, presenta tante novità interessanti: il londinese e giovanissimo Patrick Wolf (Augustine ed Enchanted sono due gioielli acustici di rara intensità), l'irlandese Damien Rice alla sua seconda difficile prova (Elephant, Me, My Yoke And I), il norvegese Sondre Lerche (After All, la ballad Tragic Mirror), gli svedesi Pelle Carlberg (I Love You, Imbecile, Middleclass Kid) e Jens Lekman, acuto songwriter di indie pop da camera (Friday Night at the Drive-In Bingo, Postcard to Nina) oltre alla rivelazione Keren Ann (The Harder Ships Of The World, Where No Endings End).
Sul versante indiepop, infine, trovano spazio gli Spoon, i Devastations, i Panda Bear, gli Odawas, gli Okkervil River, gli elettronici Stateless (Bloodstream, Down Here), i francofoni Superflu, i National (ottimo il loro noir-rock a la Tindersticks), i folkeggianti Backworld e l'ennesima "next big thing", ovvero gli Arcade Fire (Antichrist Television Blues, Intervention, Black Mirror).
mercoledì 26 dicembre 2007
NY 08, FILIPPIDE O FIDIPPIDE
A molti di noi non ne potrebbe calare di meno, ma in risposta al commento di Big al suo ultimo post (commento nel quale il nostro - dall'altro della sua inconfutabile cultura classica - correggeva "Filippide" in "Fidippide"), l'altrettanto dotto Steve ritiene di precisare che:
Fidippide (o Filippide) morto nel 490 a.C. è stato un leggendario corridore greco.
La leggenda narra che Milziade, a capo degli eserciti di Atene, dopo la vittoria sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), incaricò Fidippide di recare la buona notizia ad Atene; la distanza tra le città di Maratona ed Atene è di circa 40 km e Fidippide percorse l'intero tragitto di corsa senza mai fermarsi; dopo aver gridato l'annuncio della vittoria di Atene sui Persiani, l'araldo crollò al suolo morto, stremato dallo sforzo.
A chiosa di tale precisazione, Steve commenta : "che Big mi baci il culo..."
Una disputa tra due accademici di quel Dio.
Fidippide (o Filippide) morto nel 490 a.C. è stato un leggendario corridore greco.
La leggenda narra che Milziade, a capo degli eserciti di Atene, dopo la vittoria sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), incaricò Fidippide di recare la buona notizia ad Atene; la distanza tra le città di Maratona ed Atene è di circa 40 km e Fidippide percorse l'intero tragitto di corsa senza mai fermarsi; dopo aver gridato l'annuncio della vittoria di Atene sui Persiani, l'araldo crollò al suolo morto, stremato dallo sforzo.
A chiosa di tale precisazione, Steve commenta : "che Big mi baci il culo..."
Una disputa tra due accademici di quel Dio.
sabato 22 dicembre 2007
NY 06 - STEVE, AGAIN (GIORNO 1)

Dalla finestra della nostra stanza si vedono il Chrysler Building e l’East River , siamo sulla 42^, un fiume di taxi gialli scorre sotto di noi.
Manhattan è già sveglia e ci aspetta.
Stasera arriverà CJ e allora saremo al completo, ma intanto abbiamo una giornata davanti e non bisogna perdere tempo.
Abbiamo prenotato un tour in pullman, ma prima facciamo colazione da Starbucks. Vinnie prova un succo di frutta viola, gli piace, lo riprenderà per tutta la vacanza. Ci avviamo. Paul e io camminiamo guardando all’in su, respirando la meraviglia dei grattacieli, Vinnie ci segue, come se nulla lo sfiorasse, ha già visto tutto lui, a NY c’è già stato.
La scorsa volta trovò coda alle Twin Towers, “ci tornerò”, disse.
Il tour è una mezza vaccata, anche se ci da comunque una visione d’insieme della città. Al Financial District scendiamo e andiamo a vedere il vuoto lasciato dalle Torri. Sinceramente non è molto emozionante, in fondo oggi è solo un cantiere. C’è tanta gente. Lungo il perimetro le foto della tragedia e testimonianze varie ti riportano emotivamente all’11-9, ma non se nel frattempo ti chiama tua mamma per dirti che Libertà ha pubblicato le tue dichiarazioni pre-maratona, con tanto di cognome nel titolo. Scoppio in una risata. Mi guardo attorno, vedo le facce degli altri.
Il tour è una mezza vaccata, anche se ci da comunque una visione d’insieme della città. Al Financial District scendiamo e andiamo a vedere il vuoto lasciato dalle Torri. Sinceramente non è molto emozionante, in fondo oggi è solo un cantiere. C’è tanta gente. Lungo il perimetro le foto della tragedia e testimonianze varie ti riportano emotivamente all’11-9, ma non se nel frattempo ti chiama tua mamma per dirti che Libertà ha pubblicato le tue dichiarazioni pre-maratona, con tanto di cognome nel titolo. Scoppio in una risata. Mi guardo attorno, vedo le facce degli altri.
Andiamo?
E’ proprio una bella giornata, Battery Park è incantevole e noi camminiamo senza sosta. Ci immergiamo tra i grattacieli fotografando tutto e decidiamo che non possiamo mancare una delle bancarelle che vendono cibo take-away. Forse becchiamo la peggiore. Ad oggi nessuno ci potrebbe convincere che quello nel piatto non fosse un cane, ma va bene così.
Riprendiamo verso nord, il porto, un cantante che gira un video e poi lui, il Brooklyn Bridge, vecchio e solido, che aggancia Manhattan al suo passato di mattoni e immigrati. Lo percorriamo tutto, ci fermiamo ogni due passi a fare foto, siamo quasi al tramonto e c’è una luce bellissima.
Sono a New York e penso che ci devo tornare.
Strano no?
Hai come un senso di accoglienza e di familiarità. Come se fosse la tua seconda città, nonostante sia così diversa dal tuo mondo quotidiano.
Ci tornerò, la prossima volta con Federica. Glielo devo.
Ci arrendiamo alle distanze e prendiamo un taxi, CJ sta per arrivare e dobbiamo incontrarlo a Times Square, come se fosse la cosa più normale del mondo. “Ci si be a NY!”…
Eccolo, Johnny! Bella lì! Passavi di qua?
L’Hard Rock, dove la sera prima Vinnie ha sfoggiato il suo inglese con un “rare” graffiante, ci sembra il posto ideale per una cenetta a base di carne e cakes XXL.
Eccolo, Johnny! Bella lì! Passavi di qua?
L’Hard Rock, dove la sera prima Vinnie ha sfoggiato il suo inglese con un “rare” graffiante, ci sembra il posto ideale per una cenetta a base di carne e cakes XXL.
Ah… dolci cameriere yankees, siete proprio cotte di noi Italians… no, non insistete, pazze!, siamo atleti…
STEVE
giovedì 20 dicembre 2007
NY 05, LA VERSIONE DI STEVE (GIORNO 0)

Facciamo un passo indietro.
Quando C.J. atterra a New York, infatti, tre maratoneti sono già lì ad aspettarlo.
E non sono maratoneti normali...
Eccovi il racconto di Steve:
"Era passato un anno esatto da quando, con la lucidità di un folle, guardando negli occhi un Paulette distrutto dalla fatica, gli dissi:
- il prossimo anno facciamo la maratona di New York!
Eravamo ad Atene, nello stadio delle Olimpiadi del 1896, alla fine di quella che per noi allora era ancora “l’impresa”: 10 km di corsa con un numero e la scritta “Italia” sul petto, tra centinaia di persone, che come noi avevano corso ai piedi del Partenone, spinte dal mito di Filippide e dalla voglia di rappresentare se stessi e il proprio paese.
Era passato un anno esatto ed eravamo lì, io, Paulette e l’immancabile Vinnie, atterrati a Newark, pronti per “l’Impresa”, stavolta con la "i" maiuscola.
Era passato un anno esatto ed eravamo lì, io, Paulette e l’immancabile Vinnie, atterrati a Newark, pronti per “l’Impresa”, stavolta con la "i" maiuscola.
Mi ricordo l’impatto con gli Stati Uniti, si apre la porta scorrevole e mi affaccio sul marciapiede dell’aereoporto.
Potrà sembrare infantile, ma, cazzo!, quanto sono grandi le macchine!
Figa raga, siamo negli States!
Subito mi accendo una Camel e penso.
Penso a Springsteen e al suo Asbury Park.
Penso che è così che si deve vivere, girare il mondo, esaudire i propri sogni.
E penso, guardando quei due cazzoni che sono lì con me, che senza questi amici sarei davvero più piccolo.
Saliamo su un autobus che ci porterà alla Gran Central Station e mi incollo al finestrino. Sicuramente un po’ ci si autosuggestiona, perché in fondo quello che si vede arrivando in un aeroporto di una metropoli, sono delle gran tangenziali e dei tristi quartieri periferici. Ma per chi come me è cresciuto inondato da film e telefilm americani, è tutto uno spettacolo.
Come per Marcovaldo, che immagina di essere al cinema guardando dal finestrino posteriore dell’autobus.
Ci assopiamo un po’ e ci lasciamo trasportare verso Manhattan, fino a quando, prima del sottopasso dell’Hudson ci appare a sinistra lui.. lo skyline della Grande Mela! Ti toglie il fiato!
Ci assopiamo un po’ e ci lasciamo trasportare verso Manhattan, fino a quando, prima del sottopasso dell’Hudson ci appare a sinistra lui.. lo skyline della Grande Mela! Ti toglie il fiato!
I giardini Margherita e il grattacielo dei Mille sono lontani…
Corro per un anno intero, corro d’inverno sulla ciclabile della Besurica col gelo che mi taglia la faccia, corro d’estate sulle colline di Borgonovo alle otto di mattina e ogni volta che corro penso a New York, a “facciamo finta che” mi mancano 5 km e sto per entrare in Central Park.
Ecco, uno si prepara per un anno e poi la maratona passa subito in secondo piano.
Ecco, uno si prepara per un anno e poi la maratona passa subito in secondo piano.
Si, ok, la faremo, ma non perdiamo un solo attimo, New York non torna tanto facilmente.
Lasciamo i bagagli all’Helmsley e ci tuffiamo in strada, il passo è veloce, quasi impaziente.
Non abbiamo una meta definita, ma alla fine arriviamo a Times Square e veniamo avvolti da luci al neon, video pubblicitari e da tanta, tanta gente.
- Prima di cena non facciamo volare la carta?”
- Prima di cena non facciamo volare la carta?”
Bubba Gump è lì apposta, “Run Forrest run”, la maglietta che mi stava aspettando, fatta per me…
Scatta la mano sul portafoglio, la estraggo, swish… bip… andata!
Funziona anche oltreoceano, fida compagna di viaggio…"
STEVE
mercoledì 19 dicembre 2007
domenica 16 dicembre 2007
RADICI
Tenere del Bologna non è mica una roba semplice.
Soprattutto quando sei un bambino.
I compagni di scuola di c.j. e di d.j. paulette, è ovvio, erano tutti tifosi del Milan, della Juve o dell'Inter.
Tutti tranne un certo Parv****, che teneva, se la memoria di c.j. non lo inganna, per Sandro Mazzola.
Sì, avete capito bene: per Mazzola.
Gli altri tutti a dirgli: guarda che Mazzola è un calciatore singolo, non si può tifare per un solo giocatore, devi scegliere una squadra, ma lui imperterrito: Mazzola. E la cosa più divertente è che aveva già smesso di giocare da un decennio o poco più... In ogni caso, dal momento che a sette-otto anni certi distinguo da sofisti non venivano accettati, anche l'ignaro Parv**** venne alla fine catalogato tra gli interisti.
Ma il Parv**** era un'eccezione, e comunque doveva essere anche lui orfano di padre e, sospetta ora c.j., la sua scelta era in qualche modo (anche per lui) attribuibile a quel fatto.
Quindi: Milan, Juve, Inter.
Del resto è da capire: chi è quel pirla che dovrebbe scegliere una squadra che non vince un campionato dal lontano 1964?
Roba da perdenti nati.
Potete immaginare i sorrisetti di compatimento degli altri bambini, quando - alla fatidica domanda, che c.j. cominciava un pò a temere: "tu per squadra tieni?" - lui rispondeva, con un filo di voce: io tengo per il Bologna.
Il Bologna?
E in che serie gioca?
In effetti, a partire dai tardi anni '70 lo squadrone che un tempo aveva fatto "tremare il mondo" era precipitato in una crisi irreversibile, e puntualmente ogni anno si arrabattava sul fondo della classifica, in perenne lotta per non retrocedere (fino a che, finalmente perchè l'agonia durava da troppo tempo, in B ci andò davvero... e poi ci fu persino l'umiliazione della serie C, ma adesso non stiamo qui a rivangare troppo che a c.j. viene un groppo alla gola...)
Ma bisognava tenere duro: il Bologna - inteso come Bologna Football Club - era l'unica cosa che consentiva a lui di rimanere ancorato, in qualche modo, alle sue radici.
Sbiaditi erano infatti i ricordi dell'infanzia, quelle lunghe estati afose passate nella vecchia casa di Sasso Marconi.
Una volta, era un bel casolare di campagna, immerso in un parco lussureggiante di ippocastani e querce secolari, con il tronco contorto e la chioma maestosa. Sul retro, l’aia inghiaiata era coperta da una vite rampicante che in estate, fittamente appesa a un traliccio di fili di ferro ormai arrugginiti, costituiva uno scudo impenetrabile ai raggi del sole. In un angolo poco distante, tre o quattro sedie in metallo – di quelle con i tubicini di plastica colorata di rosso, di giallo e di blu – restavano allineate a una recinzione metallica coperta di muschio, proprio sotto la pianta dei fichi.
C.j. ricorda la sua grande camera d'angolo, con la carta da parati a motivi floreali (che aveva imparato a memoria, ancora adesso sarebbe in grado di farne uno schizzo) e il terrazzo che guardava i campi di grano e l'orto del Giorgio; qui, nella semioscurità delle sere d'estate, si lasciava cullare dal ritmo dei fasci di luce dei fari delle auto che correvano lungo la Porrettana.
Per arrivarci bisognava fare più rampe di scale; al mezzanino c'erano la camera della zia Tina e il piccolo bagno, affacciato sul fosso; nel mezzo una porta murata, che nascondeva chissà quali terribili segreti; in cima alla scala, invece, la camera - chiusa e imperscrutabile - dello zio Nando, che dominava tutta la casa; entarci era rigorosamente vietato, ma c.j. una volta era riuscito ad eludere il controllo della vecchia zia e aveva varcato la soglia (probabile che cercasse il "carrarmato", ovvero una fantastica barretta di cioccolato bianco, oggi introvabile), e si trovò davanti - immaginate la delusione dipinta sul suo volto - solamente una vecchia scrivania, degli scaffali da ufficio e un misero letto in legno.
Era proprio Nando che favoleggiava con c.j. e d.j. paulette del Grande Bologna, di un'epoca che ormai non c'è più, di una squadra che sapeva giocare "come si gioca solo in paradiso", di un certo Haller, di Nielsen, di Bulgarelli...
Con un piccolo sforzo, c.j. riesce qui a ricordare quasi tutta la formazione del Bologna di quegli anni:
Mancini, Roversi, Cresci; Battisodo, Bellugi, Bachlechner; Nanni, Maselli, Clerici, Massimelli, Fiorini (sì, proprio lui, il Giuliano...).
A dire il vero, adesso gli sembra che Bachlechner non c'entri nulla, forse è venuto dopo, e poi è proprio così che si scrive?
Anche Maselli e Massimelli gli puzzano un pò: possibile che avessero due nomi così simili?
E poi Pecci?
Il mitico Eraldo Pecci, che praticamente giocava senza correre, ma che con la sua sapienza tattica e le sue geometrie in mezzo al campo faceva la differenza...
Lo zio Nando diceva di conoscerlo, il Pecci.
Diceva che una volta era andato a una cena con un club al Sasso, e che si era fermato sino a tardi a chiacchierare con loro.
Mi farò dare la maglietta, e ve la regalerò, disse una sera, a cena. Anzi, facciamo così: il Bologna va in ritiro tutti i sabati sera qui vicino, allo "Chalet delle Rose", una volta vi porto con me a vedere l'allenamento prima della partita.
Dopo essersi pulito la bocca con il tovagliolo, si alzò, salutò tutti e poi uscì, come ogni sera, per andare al bar del paese a giocare a briscola o a scopone scientifico, davanti a una boccia di lambrusco dolce e frizzante.
Probabile che lui neanche si ricordò, di quella promessa estiva.
Promessa che, come altre, non seppe mantenere.
venerdì 14 dicembre 2007

A tutti quei poveretti che passano la vita a lamentarsi del pessimo clima della Pianura Padana e che sognano di trasferirsi in qualche remota spiaggia caraibica, c.j. risponde sempre che a lui, il passare delle stagioni, piace da bestia.
Vuoi mettere - sostiene lui - la malinconia dei nostri boschi in autunno, con tutti quei fantastici colori, oppure il piacere di sorseggiare un vin brulè in piedi al gelo, o di gustare un cartoccio di caldarroste immersi nella nebbia intrisa di odori... o ancora una cioccolata calda dentro un caffè fumante di vapori quando il termometro scende sotto zero...
Fin qui tutto bene, nel senso che le sue argomentazioni - poetiche, si direbbe - sembrano solide.
Ma adesso che l'autunno è quasi finito, perchè non ammettere che passare tutti i sabati o le domeniche ad ammazzarsi la schiena per raccogliere le foglie secche - e fortuna che il suo è uno sputo di giardino - non è il massimo della vita?
Con quell'idiota del suo cane, per di più, che si stende sull'erba a pochi centimetri da lui e lo guarda lavorare per ore...
Oramai ha imparato persino a classificare le varie tipologie, a seconda del grado di difficoltà della raccolta e, di conseguenza, del tempo da impiegarsi.
Il peggio è il noce, con i suoi grappoli di foglie grandi e umide, mescolate con i gusci dei frutti caduti a terra e con dei piccoli rametti secchi che si impigliano nel rastrello.
Poi c'è il ciliegio, se non altro perchè ne produce un numero esagerato.
La vite americana è piuttosto bastarda, perchè le foglie si raccolgono bene, è vero, ma in compenso esse vanno regolarmente a intasare le canale di gronda del tetto.
Infine il glicine, che ne fa un'infinità, e sono talmente piccole che si nascondono nella ghiaia e non riesci più a recuperarle.
La magnolia, invece, merita un discorso a parte, perchè le perde in estate e venti-trenta alla volta, così che tutti i santi i giorni ne devi raccogliere un pò...
Quando il sole tramonta dietro il Monte Pillerone, per c.j. è come vedere la luce.
Depone gli arnesi, si toglie i guanti da lavoro e rientra in casa, visibilmente affaticato.
Si siede davanti al camino acceso e, con il sottofondo dei ceppi di carpino che scoppiettano sulla brace, guarda su televideo se il Bologna ha vinto.
Chissà se è l'anno buono che si torna in A, sospira.
giovedì 13 dicembre 2007
Chile, 30.000 (by BIG)
Quel simpatico buontempone di Bonaiuti, portavoce di Sua Emittenza, a proposito dell’inchiesta sui presunti tentativi di corruzione messi in atto dal suo capo, ha testualmente detto: “stamattina ci siamo svegliati a Roma oppure nel Cile del generale Pinochet?”
Vorrei rassicurarlo: siamo in Italia, non si deve preoccupare.
Forse il solerte maggiordomo ha scordato cos’è stato il Cile di Pinochet, e allora perché non rinfrescargli la memoria?
30.000 morti
130.000 arresti
35.000 torturati
E restando in tema di Cile, Chiesa e Illuminismo, forse non tutti sanno che il 18 febbraio del 1993 giunsero a Pinochet, in occasione della ricorrenza delle sue nozze d'oro, due lettere autografe in spagnolo con espressioni di amicizia e stima con in calce le firme di papa Wojtyła e del Segretario di Stato Angelo Sodano.
«Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.»
Ma ancor più caloroso è il messaggio del Cardinale Angelo Sodano, già nunzio apostolico in Cile dal 1977 al 1988, e che nel 1987 aveva perorato con successo la visita del papa a Santiago:
«...il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza. Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile».
Sodano poi conclude, riaffermando al signor Generale,
«l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».
Il Vaticano non rese pubbliche queste missive, tuttavia, alcuni mesi dopo, i documenti furono rivelati dal quotidiano cileno El Mercurio e ripresi dalla rivista francese Témoignage chrétien.
Non credo ci sia altro da aggiungere.
BIG
Vorrei rassicurarlo: siamo in Italia, non si deve preoccupare.
Forse il solerte maggiordomo ha scordato cos’è stato il Cile di Pinochet, e allora perché non rinfrescargli la memoria?
30.000 morti
130.000 arresti
35.000 torturati
E restando in tema di Cile, Chiesa e Illuminismo, forse non tutti sanno che il 18 febbraio del 1993 giunsero a Pinochet, in occasione della ricorrenza delle sue nozze d'oro, due lettere autografe in spagnolo con espressioni di amicizia e stima con in calce le firme di papa Wojtyła e del Segretario di Stato Angelo Sodano.
«Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.»
Ma ancor più caloroso è il messaggio del Cardinale Angelo Sodano, già nunzio apostolico in Cile dal 1977 al 1988, e che nel 1987 aveva perorato con successo la visita del papa a Santiago:
«...il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza. Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile».
Sodano poi conclude, riaffermando al signor Generale,
«l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».
Il Vaticano non rese pubbliche queste missive, tuttavia, alcuni mesi dopo, i documenti furono rivelati dal quotidiano cileno El Mercurio e ripresi dalla rivista francese Témoignage chrétien.
Non credo ci sia altro da aggiungere.
BIG
martedì 11 dicembre 2007
TAXI BLUES PART TWO - BUCAREST (by Paulette)
E’ mattino, fa un freddo notevole. La città è immersa in una fioca luce invernale, ricoperta da una spessa cappa grigia che sa di piombo, di amianto e di industrializzazione selvaggia.
Prendi un taxi in Plata Universatea, il centro culturale di Bucarest. Un anonimo enorme slargo dominato da un grattacielo, moderna ma insignificante sede del celebre hotel da cui i giornalisti occidentali assistettero alla fine del regime di Ceausescu.
Era il dicembre del 1989, il muro di Berlino era caduto da due mesi e la Perestroika avviata da tempo. Ti hanno raccontato che fu proprio Gorbaciov, da Mosca, a fomentare la rivolta di Timisoara, prima, e la caduta di Bucarest, decisiva. E ti hanno portato a vedere i fori delle pallottole sui muri dell’ateneo cha dà il nome alla piazza, e il balcone dove il 22 dicembre Ceausescu tenne l’ultimo discorso, o meglio ci provò, prima di tentare un’inutile goffa fuga in elicottero dai tetti di Plata Rivoluzione.
Ti dirigi verso Sud, nella periferia della capitale.
Scorgi il profilo del Palazzo della Rivoluzione, che i rumeni chiamano ancora Casa del Popolo, opera maestosamente imbarazzante, fulgido esempio del delirio onnipotente del dittatore e dell’esigenza di dare all’esterno un messaggio di progresso e prosperità.
La tua mente torna alla Torre della Radio, simbolo della vecchia Berlino Est. L’edificio, il secondo più grande del mondo dopo il Pentagono, si affaccia su un enorme viale che taglia trasversalmente la città, sullo stile dei Champs Elysees. Del resto ti hanno detto che Bucarest è la Parigi dell’Est, e lo hanno fatto senza autoironia, convinti.
Oltre ai finestrini della tua Dacia gialla sfilano orrendi palazzoni grigi, in una sequenza tanto regolare quanto angosciante.
Il grigio domina in modo assoluto.
E opprimente.
Ti chiedi se la povertà e la storia sfortunata di questo popolo siano sufficienti a spiegare e a giustificare la tristezza e la sensazione di brutto che hai percepito in questi giorni.
Ovvio che non è così, non può essere così.
Pensi a Cuba, pensi al Portogallo. Pensi alla Sicilia profonda.
Tutti luoghi poveri e in un certo senso arretrati, che ti abbagliano con la loro struggente bellezza.
Ti domandi dunque se questo popolo non abbia gusto, sensibilità, piacere per il bello: non lo capisce, non lo sente, non lo desidera, non lo cerca.
Lo percepisci ovunque in città, nelle case, nei palazzi, nei balconi, nei giardini, nei marciapiedi e nei piccoli dettagli dell’arredo urbano, nei negozi, nella gente. O almeno hai questa sensazione.
Canticchi uno strepitoso pezzo dei Marlene Kuntz, “noi cerchiamo la bellezza, ovunque”.
Sei immerso in questi pensieri quando ti accorgi che il tassista non ha ancora aperto bocca.
Non che i rumeni si siano dimostrati particolarmente socievoli, però ti sembra che questo stia esagerando.
Scambi due parole con le colleghe, in italiano.
Il tassista infastidito alza il volume della radio.
Una rotonda, una svolta a destra e poi alza ancora e si mette a ghignare, prima facendo un timido tentativo di contenersi, poi lasciandosi andare di brutto.
Cerchi di capire di cosa stiano parlando alla radio.
E’ un programma comico, probabilmente di satira di quart’ordine, di quelli che inondano anche le nostre emittenti private durante la mattinata.
I due conduttori distorgono i toni vocali in modo alquanto banale, una vocina e una vociona.
Ad un ceto punto capti qualche parola, facilitato da una certa somiglianza tra le due lingue, e capisci che stanno facendo sarcasmo sull’Italia. I rapporti tra i due paesi non sono idilliaci, al momento, e la nostra nazione ha appena rimpatriato cinquecento cittadini rumeni irregolarmente immigrati, sulla spinta generata dall’opinione pubblica a causa di alcuni fatti criminosi compiuti da rumeni.
Chino sul volante nella sua giacca a vento azzurra il tassista continua a ghignare, alzando ulteriormente il volume. Evidentemente quei due devono essere irresistibili, pensi.
Prendono per il culo gli italiani.
Lui sa di avere a bordo degli italiani e invece di abbassare il volume imbarazzato o cambiare canale, come avresti fatto tu, se la ride di brutto.
Sei arrivato, la sede del seminario è davvero un luogo allucinante.
Prendi un taxi in Plata Universatea, il centro culturale di Bucarest. Un anonimo enorme slargo dominato da un grattacielo, moderna ma insignificante sede del celebre hotel da cui i giornalisti occidentali assistettero alla fine del regime di Ceausescu.
Era il dicembre del 1989, il muro di Berlino era caduto da due mesi e la Perestroika avviata da tempo. Ti hanno raccontato che fu proprio Gorbaciov, da Mosca, a fomentare la rivolta di Timisoara, prima, e la caduta di Bucarest, decisiva. E ti hanno portato a vedere i fori delle pallottole sui muri dell’ateneo cha dà il nome alla piazza, e il balcone dove il 22 dicembre Ceausescu tenne l’ultimo discorso, o meglio ci provò, prima di tentare un’inutile goffa fuga in elicottero dai tetti di Plata Rivoluzione.
Ti dirigi verso Sud, nella periferia della capitale.
Scorgi il profilo del Palazzo della Rivoluzione, che i rumeni chiamano ancora Casa del Popolo, opera maestosamente imbarazzante, fulgido esempio del delirio onnipotente del dittatore e dell’esigenza di dare all’esterno un messaggio di progresso e prosperità.
La tua mente torna alla Torre della Radio, simbolo della vecchia Berlino Est. L’edificio, il secondo più grande del mondo dopo il Pentagono, si affaccia su un enorme viale che taglia trasversalmente la città, sullo stile dei Champs Elysees. Del resto ti hanno detto che Bucarest è la Parigi dell’Est, e lo hanno fatto senza autoironia, convinti.
Oltre ai finestrini della tua Dacia gialla sfilano orrendi palazzoni grigi, in una sequenza tanto regolare quanto angosciante.
Il grigio domina in modo assoluto.
E opprimente.
Ti chiedi se la povertà e la storia sfortunata di questo popolo siano sufficienti a spiegare e a giustificare la tristezza e la sensazione di brutto che hai percepito in questi giorni.
Ovvio che non è così, non può essere così.
Pensi a Cuba, pensi al Portogallo. Pensi alla Sicilia profonda.
Tutti luoghi poveri e in un certo senso arretrati, che ti abbagliano con la loro struggente bellezza.
Ti domandi dunque se questo popolo non abbia gusto, sensibilità, piacere per il bello: non lo capisce, non lo sente, non lo desidera, non lo cerca.
Lo percepisci ovunque in città, nelle case, nei palazzi, nei balconi, nei giardini, nei marciapiedi e nei piccoli dettagli dell’arredo urbano, nei negozi, nella gente. O almeno hai questa sensazione.
Canticchi uno strepitoso pezzo dei Marlene Kuntz, “noi cerchiamo la bellezza, ovunque”.
Sei immerso in questi pensieri quando ti accorgi che il tassista non ha ancora aperto bocca.
Non che i rumeni si siano dimostrati particolarmente socievoli, però ti sembra che questo stia esagerando.
Scambi due parole con le colleghe, in italiano.
Il tassista infastidito alza il volume della radio.
Una rotonda, una svolta a destra e poi alza ancora e si mette a ghignare, prima facendo un timido tentativo di contenersi, poi lasciandosi andare di brutto.
Cerchi di capire di cosa stiano parlando alla radio.
E’ un programma comico, probabilmente di satira di quart’ordine, di quelli che inondano anche le nostre emittenti private durante la mattinata.
I due conduttori distorgono i toni vocali in modo alquanto banale, una vocina e una vociona.
Ad un ceto punto capti qualche parola, facilitato da una certa somiglianza tra le due lingue, e capisci che stanno facendo sarcasmo sull’Italia. I rapporti tra i due paesi non sono idilliaci, al momento, e la nostra nazione ha appena rimpatriato cinquecento cittadini rumeni irregolarmente immigrati, sulla spinta generata dall’opinione pubblica a causa di alcuni fatti criminosi compiuti da rumeni.
Chino sul volante nella sua giacca a vento azzurra il tassista continua a ghignare, alzando ulteriormente il volume. Evidentemente quei due devono essere irresistibili, pensi.
Prendono per il culo gli italiani.
Lui sa di avere a bordo degli italiani e invece di abbassare il volume imbarazzato o cambiare canale, come avresti fatto tu, se la ride di brutto.
Sei arrivato, la sede del seminario è davvero un luogo allucinante.
Nei marciapiedi ci sono squarci ovunque, i palazzoni grigi sono i più grigi che ti sembra di ricordare.
Avresti voluto chiedergli che cazzo ha da ridere, che basta lanciare un’occhiata oltre al vetro sporco della sua fottutissima Dacia per realizzare che davvero non c'è un cazzo da ridere.
Ti viene in mente il vecchio Monte, che prontamente l’avrebbe compatito perché mangia la carne una volta al mese, o lo Zio Facce, che l’avrebbe ricoperto delle peggiori ingiurie accusando lui e i suoi connazionali di essere indietro come la coda del gogno.
E invece sorridi, e con te sorridono le colleghe, e lo guardi come potresti guardare un pazzo quando con aria tranquilla si gira per chiedere il dovuto e proporre di arrotondare la cifra.
E’ la prima volta che apre la bocca, ti sembra.
Pensi che forse è meglio così, gli lasci il resto e te ne vai.
Avresti voluto chiedergli che cazzo ha da ridere, che basta lanciare un’occhiata oltre al vetro sporco della sua fottutissima Dacia per realizzare che davvero non c'è un cazzo da ridere.
Ti viene in mente il vecchio Monte, che prontamente l’avrebbe compatito perché mangia la carne una volta al mese, o lo Zio Facce, che l’avrebbe ricoperto delle peggiori ingiurie accusando lui e i suoi connazionali di essere indietro come la coda del gogno.
E invece sorridi, e con te sorridono le colleghe, e lo guardi come potresti guardare un pazzo quando con aria tranquilla si gira per chiedere il dovuto e proporre di arrotondare la cifra.
E’ la prima volta che apre la bocca, ti sembra.
Pensi che forse è meglio così, gli lasci il resto e te ne vai.
PAULETTE
venerdì 7 dicembre 2007
La palla è ovale

Con il prezioso contributo tecnico di Pat Garrett:
Ottimo baricentro basso (ne so qualcosa) con buona fluidità di corsa (lacci a parte).
Sono da notare:
* eccellente difesa della palla (parte opposta rispetto all' avversario);
* ginocchia alte per mettere in dificoltà l'avversario in caso di placcaggio basso;
* mano esterna pronta al "frontino" per allontanare il difensore;
* non si vede ma sicuramente un "goosestep" degno del miglior Campese succederà alla fase, staticamente ripresa dall' obbiettivo, mettendo a sedere l'ignaro avversario...
* non si vede ma sicuramente un "goosestep" degno del miglior Campese succederà alla fase, staticamente ripresa dall' obbiettivo, mettendo a sedere l'ignaro avversario...
e poi con la maglia nera sta tanto bene...
Ps: Fantastico il sostegno indiavolato del tallonatore Gigi Caccola e in 4^ piano di Mimmo Boccolidoro.
martedì 4 dicembre 2007
Ratzinger vs Voltaire
L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell'illuminismo.
Immanuel Kant
Immanuel Kant
domenica 2 dicembre 2007
NY 04, LA CITTA' DEGLI ANGELI
Le due donne arrivarono a New York un venerdi' pomeriggio, e accogliendole notai sul volto di Alisha un'espressione per lei insolita. L'espressione di chi si è reso conto troppo tardi o di aver dato fuoco a casa sua o di essersi imbarcato in un viaggio con la persona sbagliata. "Salvati, scappa", mi sussurrò.
Bonnie era una donna smilza e arcigna, con due trecce da ragazzina che ricadevano come guinzagli sugli innocenti cagnolini disegnati sulla sua maglietta. Aveva uno spiccato accento di Greensboro ed era atterrata al Kennedy convinta che i neewyorkesi, se solo lei gliene avesse dato una mezza possibilità, le avrebbero rubato anche le otturazioni che si ritrovava in bocca.
"Il tassista ci fa: Dall'accento si direbbe che venite da fuori", e io ho capito all'istante che pensava di fregarci. (...) Io l'ho capito subito cosa aveva in mente. So come gira il mondo, non sono mica stupida. E così mi sono segnata il nome e il numero della licenza e gli ho detto che se solo provava a fare qualche scherzetto lo denunciavo alla polizia. Non son mica venuta fin qui per farmi spennare..."
Mi mostrò la ricevuta del taxi, e io la rassicurai: il prezzo era giusto. I soliti trenta dollari di una corsa dall'aeroporto Kennedy a un qualsiasi punto di Manhattan.
Bonnie ripose la ricevuta nel portafoglio. "Be', spero prorpio che quello non si aspettasse una mancia, perchè da me non ha visto un centesimo."
"Non gli hai dato la mancia?"
"Ma figurati!" esclamò Bonnie. "Non so tu, ma io i miei soldi me li sudo. Sono i miei e di mance non ne do, a meno che il servizio non sia come dico io."
"D'accordo" dissi, "ma che tipo di servizio ti aspettavi esattamente, se prima d'ora non avevi mai preso un taxi?"
"Io mi aspetto di essere trattata come chiunque altro, ecco come. Di essere trattata da cittadina americana."
Con quella frase aveva centrato il problema. I turisti americani sono destinati a essere accolti meglio a Teheran che non a New York, una città fondata sul principio del "Noi vs. Loro". Come me, la maggior parte delle persone che conoscevo si era trasferita a New York proprio per sfuggire agli americani tipo Bonnie. E la loro paura aveva sempre giocato a nostro favore, almeno finchè un nuovo sindaco non si era messo a promuovere la città come un parco giochi per famiglie. La sua campagna era stata un successo, e le Bonnie avevano cominciato ad affluire in città a frotte...
da DAVID SEDARIS, Me parlare bello un giorno, Mondadori, 2004 (Me Talk Pretty One Day, 2000)
Bonnie era una donna smilza e arcigna, con due trecce da ragazzina che ricadevano come guinzagli sugli innocenti cagnolini disegnati sulla sua maglietta. Aveva uno spiccato accento di Greensboro ed era atterrata al Kennedy convinta che i neewyorkesi, se solo lei gliene avesse dato una mezza possibilità, le avrebbero rubato anche le otturazioni che si ritrovava in bocca.
"Il tassista ci fa: Dall'accento si direbbe che venite da fuori", e io ho capito all'istante che pensava di fregarci. (...) Io l'ho capito subito cosa aveva in mente. So come gira il mondo, non sono mica stupida. E così mi sono segnata il nome e il numero della licenza e gli ho detto che se solo provava a fare qualche scherzetto lo denunciavo alla polizia. Non son mica venuta fin qui per farmi spennare..."
Mi mostrò la ricevuta del taxi, e io la rassicurai: il prezzo era giusto. I soliti trenta dollari di una corsa dall'aeroporto Kennedy a un qualsiasi punto di Manhattan.
Bonnie ripose la ricevuta nel portafoglio. "Be', spero prorpio che quello non si aspettasse una mancia, perchè da me non ha visto un centesimo."
"Non gli hai dato la mancia?"
"Ma figurati!" esclamò Bonnie. "Non so tu, ma io i miei soldi me li sudo. Sono i miei e di mance non ne do, a meno che il servizio non sia come dico io."
"D'accordo" dissi, "ma che tipo di servizio ti aspettavi esattamente, se prima d'ora non avevi mai preso un taxi?"
"Io mi aspetto di essere trattata come chiunque altro, ecco come. Di essere trattata da cittadina americana."
Con quella frase aveva centrato il problema. I turisti americani sono destinati a essere accolti meglio a Teheran che non a New York, una città fondata sul principio del "Noi vs. Loro". Come me, la maggior parte delle persone che conoscevo si era trasferita a New York proprio per sfuggire agli americani tipo Bonnie. E la loro paura aveva sempre giocato a nostro favore, almeno finchè un nuovo sindaco non si era messo a promuovere la città come un parco giochi per famiglie. La sua campagna era stata un successo, e le Bonnie avevano cominciato ad affluire in città a frotte...
da DAVID SEDARIS, Me parlare bello un giorno, Mondadori, 2004 (Me Talk Pretty One Day, 2000)
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