giovedì 27 dicembre 2007

POPSONGS: XMAS 2007


Puntuale come l'acconto IVA del quarto trimestre, arriva anche quest'anno l'immancabile compilation di fine anno, a cura di contry joe e d.j. paulette.
Per ragioni di spazio, non è possibile qui segnalare la tracklist completa.
Anticipazioni:
i Radiohead fanno la parte del leone, con ben cinque estratti (All I Need, Nude, Videotapes, Faust Arp, Jigsaw Falling Into Place) dal loro ultimo capolavoro Inrainbows: nessuna sorpresa, ormai è noto l'apprezzamento di c.j. per quest'opera.
A questo proposito.
C.j. non aveva certo l'intenzione di interferire sul regolare svolgimento della consultazione "L'album dell'anno 2007".
Egli tuttavia vuole sottolineare che chiunque, dopo aver selezionato "Nude" sul lettore mp3 e dopo aver ruotato in senso antiorario - finché ce n'è - la manopola del volume, non provasse una piacevole sensazione di oblìo o almeno una pelle d'oca anche superficiale, beh, allora, sostiene c.j., questi dovrebbe farsi vedere alla svelta da uno bravo...
In ogni caso, Big e Beddolix stiano tranquilli: Vedder è presente con quattro brani (Rise, la meravigliosa Society, Long Nights e la cover '80 Hard Sun), e lo stesso vale per le scimmie artiche, o Arctic Monkeys (Fluorescent adolescent, If You Were There, Beware, Old Yellow Bricks, Teddy Picker sono pezzi che spaccano!).
Fratello J. apprezzerà invece Comelade (Smog On The Vermut, Stranger In Paradigm), Beirut (Eelphant Gun) e Banhart (Bad girl).
Per restare agli album votati nel sondaggio qui a destra, tre brani a testa per gli ormai classici White Stripes (Icky Thump, Little Cream Soda, You Don't Know What Love Is) e gli islandesi Sigur Ros, i preferiti di d.j. paulette (le eteree Agaetis Byrjun, Hljomalind, Von).
Bene anche Editors (Put Your Head Towards The Air, Smokers Outside The Hospital Doors - che gran titolo! - e The Racing Rats), gli alfieri dell'Alt-Country Wilco (Either Way, On And On And On, What Light) e Interpol (il gettonatissimo singolo The Heinrich Maneuver e, soprattutto, Pioneer To The Falls, gran pezzo).
La canzone d'autore, oltre che i soliti mostri sacri come Wyatt (la fantastica Just As You Are e Stay Tuned, ripresa da Anja Garbarek), Springsteen e Cave con i Grinderman, presenta tante novità interessanti: il londinese e giovanissimo Patrick Wolf (Augustine ed Enchanted sono due gioielli acustici di rara intensità), l'irlandese Damien Rice alla sua seconda difficile prova (Elephant, Me, My Yoke And I), il norvegese Sondre Lerche (After All, la ballad Tragic Mirror), gli svedesi Pelle Carlberg (I Love You, Imbecile, Middleclass Kid) e Jens Lekman, acuto songwriter di indie pop da camera (Friday Night at the Drive-In Bingo, Postcard to Nina) oltre alla rivelazione Keren Ann (The Harder Ships Of The World, Where No Endings End).
Sul versante indiepop, infine, trovano spazio gli Spoon, i Devastations, i Panda Bear, gli Odawas, gli Okkervil River, gli elettronici Stateless (Bloodstream, Down Here), i francofoni Superflu, i National (ottimo il loro noir-rock a la Tindersticks), i folkeggianti Backworld e l'ennesima "next big thing", ovvero gli Arcade Fire (Antichrist Television Blues, Intervention, Black Mirror).

mercoledì 26 dicembre 2007

NY 08, FILIPPIDE O FIDIPPIDE

A molti di noi non ne potrebbe calare di meno, ma in risposta al commento di Big al suo ultimo post (commento nel quale il nostro - dall'altro della sua inconfutabile cultura classica - correggeva "Filippide" in "Fidippide"), l'altrettanto dotto Steve ritiene di precisare che:

Fidippide (o Filippide) morto nel 490 a.C. è stato un leggendario corridore greco.
La leggenda narra che Milziade, a capo degli eserciti di Atene, dopo la vittoria sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), incaricò Fidippide di recare la buona notizia ad Atene; la distanza tra le città di Maratona ed Atene è di circa 40 km e Fidippide percorse l'intero tragitto di corsa senza mai fermarsi; dopo aver gridato l'annuncio della vittoria di Atene sui Persiani, l'araldo crollò al suolo morto, stremato dallo sforzo.

A chiosa di tale precisazione, Steve commenta : "che Big mi baci il culo..."

Una disputa tra due accademici di quel Dio.

NY 07, XMAS

sabato 22 dicembre 2007

NY 06 - STEVE, AGAIN (GIORNO 1)


Dalla finestra della nostra stanza si vedono il Chrysler Building e l’East River , siamo sulla 42^, un fiume di taxi gialli scorre sotto di noi.
Manhattan è già sveglia e ci aspetta.
Stasera arriverà CJ e allora saremo al completo, ma intanto abbiamo una giornata davanti e non bisogna perdere tempo.
Abbiamo prenotato un tour in pullman, ma prima facciamo colazione da Starbucks. Vinnie prova un succo di frutta viola, gli piace, lo riprenderà per tutta la vacanza. Ci avviamo. Paul e io camminiamo guardando all’in su, respirando la meraviglia dei grattacieli, Vinnie ci segue, come se nulla lo sfiorasse, ha già visto tutto lui, a NY c’è già stato.
La scorsa volta trovò coda alle Twin Towers, “ci tornerò”, disse.
Il tour è una mezza vaccata, anche se ci da comunque una visione d’insieme della città. Al Financial District scendiamo e andiamo a vedere il vuoto lasciato dalle Torri. Sinceramente non è molto emozionante, in fondo oggi è solo un cantiere. C’è tanta gente. Lungo il perimetro le foto della tragedia e testimonianze varie ti riportano emotivamente all’11-9, ma non se nel frattempo ti chiama tua mamma per dirti che Libertà ha pubblicato le tue dichiarazioni pre-maratona, con tanto di cognome nel titolo. Scoppio in una risata. Mi guardo attorno, vedo le facce degli altri.

Andiamo?

E’ proprio una bella giornata, Battery Park è incantevole e noi camminiamo senza sosta. Ci immergiamo tra i grattacieli fotografando tutto e decidiamo che non possiamo mancare una delle bancarelle che vendono cibo take-away. Forse becchiamo la peggiore. Ad oggi nessuno ci potrebbe convincere che quello nel piatto non fosse un cane, ma va bene così.

Riprendiamo verso nord, il porto, un cantante che gira un video e poi lui, il Brooklyn Bridge, vecchio e solido, che aggancia Manhattan al suo passato di mattoni e immigrati. Lo percorriamo tutto, ci fermiamo ogni due passi a fare foto, siamo quasi al tramonto e c’è una luce bellissima.
Sono a New York e penso che ci devo tornare.
Strano no?
Hai come un senso di accoglienza e di familiarità. Come se fosse la tua seconda città, nonostante sia così diversa dal tuo mondo quotidiano.
Ci tornerò, la prossima volta con Federica. Glielo devo.

Ci arrendiamo alle distanze e prendiamo un taxi, CJ sta per arrivare e dobbiamo incontrarlo a Times Square, come se fosse la cosa più normale del mondo. “Ci si be a NY!”…
Eccolo, Johnny! Bella lì! Passavi di qua?
L’Hard Rock, dove la sera prima Vinnie ha sfoggiato il suo inglese con un “rare” graffiante, ci sembra il posto ideale per una cenetta a base di carne e cakes XXL.
Ah… dolci cameriere yankees, siete proprio cotte di noi Italians… no, non insistete, pazze!, siamo atleti…

STEVE

giovedì 20 dicembre 2007

NY 05, LA VERSIONE DI STEVE (GIORNO 0)


Facciamo un passo indietro.
Quando C.J. atterra a New York, infatti, tre maratoneti sono già lì ad aspettarlo.
E non sono maratoneti normali...

Eccovi il racconto di Steve:

"Era passato un anno esatto da quando, con la lucidità di un folle, guardando negli occhi un Paulette distrutto dalla fatica, gli dissi:
- il prossimo anno facciamo la maratona di New York!
Eravamo ad Atene, nello stadio delle Olimpiadi del 1896, alla fine di quella che per noi allora era ancora “l’impresa”: 10 km di corsa con un numero e la scritta “Italia” sul petto, tra centinaia di persone, che come noi avevano corso ai piedi del Partenone, spinte dal mito di Filippide e dalla voglia di rappresentare se stessi e il proprio paese.
Era passato un anno esatto ed eravamo lì, io, Paulette e l’immancabile Vinnie, atterrati a Newark, pronti per “l’Impresa”, stavolta con la "i" maiuscola.

Mi ricordo l’impatto con gli Stati Uniti, si apre la porta scorrevole e mi affaccio sul marciapiede dell’aereoporto.
Potrà sembrare infantile, ma, cazzo!, quanto sono grandi le macchine!
Figa raga, siamo negli States!
Subito mi accendo una Camel e penso.
Penso a Springsteen e al suo Asbury Park.
Penso che è così che si deve vivere, girare il mondo, esaudire i propri sogni.
E penso, guardando quei due cazzoni che sono lì con me, che senza questi amici sarei davvero più piccolo.

Saliamo su un autobus che ci porterà alla Gran Central Station e mi incollo al finestrino. Sicuramente un po’ ci si autosuggestiona, perché in fondo quello che si vede arrivando in un aeroporto di una metropoli, sono delle gran tangenziali e dei tristi quartieri periferici. Ma per chi come me è cresciuto inondato da film e telefilm americani, è tutto uno spettacolo.
Come per Marcovaldo, che immagina di essere al cinema guardando dal finestrino posteriore dell’autobus.
Ci assopiamo un po’ e ci lasciamo trasportare verso Manhattan, fino a quando, prima del sottopasso dell’Hudson ci appare a sinistra lui.. lo skyline della Grande Mela! Ti toglie il fiato!
I giardini Margherita e il grattacielo dei Mille sono lontani…

Corro per un anno intero, corro d’inverno sulla ciclabile della Besurica col gelo che mi taglia la faccia, corro d’estate sulle colline di Borgonovo alle otto di mattina e ogni volta che corro penso a New York, a “facciamo finta che” mi mancano 5 km e sto per entrare in Central Park.
Ecco, uno si prepara per un anno e poi la maratona passa subito in secondo piano.
Si, ok, la faremo, ma non perdiamo un solo attimo, New York non torna tanto facilmente.

Lasciamo i bagagli all’Helmsley e ci tuffiamo in strada, il passo è veloce, quasi impaziente.
Non abbiamo una meta definita, ma alla fine arriviamo a Times Square e veniamo avvolti da luci al neon, video pubblicitari e da tanta, tanta gente.
- Prima di cena non facciamo volare la carta?”
Bubba Gump è lì apposta, “Run Forrest run”, la maglietta che mi stava aspettando, fatta per me…
Scatta la mano sul portafoglio, la estraggo, swish… bip… andata!
Funziona anche oltreoceano, fida compagna di viaggio…"
STEVE

mercoledì 19 dicembre 2007

London by J.




Fratello J mi ha inviato alcuni suoi recenti scatti londinesi.
Ho deciso di pubblicare i più belli, visto che l'animale non mi vuole mandare i suoi notevoli scritti...
Io sono qui che aspetto...
Dai, J., almeno quello sui "suggerimenti" per una colazione di lavoro...

domenica 16 dicembre 2007

RADICI


Tenere del Bologna non è mica una roba semplice.
Soprattutto quando sei un bambino.

I compagni di scuola di c.j. e di d.j. paulette, è ovvio, erano tutti tifosi del Milan, della Juve o dell'Inter.
Tutti tranne un certo Parv****, che teneva, se la memoria di c.j. non lo inganna, per Sandro Mazzola.
Sì, avete capito bene: per Mazzola.
Gli altri tutti a dirgli: guarda che Mazzola è un calciatore singolo, non si può tifare per un solo giocatore, devi scegliere una squadra, ma lui imperterrito: Mazzola. E la cosa più divertente è che aveva già smesso di giocare da un decennio o poco più... In ogni caso, dal momento che a sette-otto anni certi distinguo da sofisti non venivano accettati, anche l'ignaro Parv**** venne alla fine catalogato tra gli interisti.

Ma il Parv**** era un'eccezione, e comunque doveva essere anche lui orfano di padre e, sospetta ora c.j., la sua scelta era in qualche modo (anche per lui) attribuibile a quel fatto.
Quindi: Milan, Juve, Inter.
Del resto è da capire: chi è quel pirla che dovrebbe scegliere una squadra che non vince un campionato dal lontano 1964?
Roba da perdenti nati.
Potete immaginare i sorrisetti di compatimento degli altri bambini, quando - alla fatidica domanda, che c.j. cominciava un pò a temere: "tu per squadra tieni?" - lui rispondeva, con un filo di voce: io tengo per il Bologna.

Il Bologna?
E in che serie gioca?

In effetti, a partire dai tardi anni '70 lo squadrone che un tempo aveva fatto "tremare il mondo" era precipitato in una crisi irreversibile, e puntualmente ogni anno si arrabattava sul fondo della classifica, in perenne lotta per non retrocedere (fino a che, finalmente perchè l'agonia durava da troppo tempo, in B ci andò davvero... e poi ci fu persino l'umiliazione della serie C, ma adesso non stiamo qui a rivangare troppo che a c.j. viene un groppo alla gola...)

Ma bisognava tenere duro: il Bologna - inteso come Bologna Football Club - era l'unica cosa che consentiva a lui di rimanere ancorato, in qualche modo, alle sue radici.

Sbiaditi erano infatti i ricordi dell'infanzia, quelle lunghe estati afose passate nella vecchia casa di Sasso Marconi.
Una volta, era un bel casolare di campagna, immerso in un parco lussureggiante di ippocastani e querce secolari, con il tronco contorto e la chioma maestosa. Sul retro, l’aia inghiaiata era coperta da una vite rampicante che in estate, fittamente appesa a un traliccio di fili di ferro ormai arrugginiti, costituiva uno scudo impenetrabile ai raggi del sole. In un angolo poco distante, tre o quattro sedie in metallo – di quelle con i tubicini di plastica colorata di rosso, di giallo e di blu – restavano allineate a una recinzione metallica coperta di muschio, proprio sotto la pianta dei fichi.
C.j. ricorda la sua grande camera d'angolo, con la carta da parati a motivi floreali (che aveva imparato a memoria, ancora adesso sarebbe in grado di farne uno schizzo) e il terrazzo che guardava i campi di grano e l'orto del Giorgio; qui, nella semioscurità delle sere d'estate, si lasciava cullare dal ritmo dei fasci di luce dei fari delle auto che correvano lungo la Porrettana.
Per arrivarci bisognava fare più rampe di scale; al mezzanino c'erano la camera della zia Tina e il piccolo bagno, affacciato sul fosso; nel mezzo una porta murata, che nascondeva chissà quali terribili segreti; in cima alla scala, invece, la camera - chiusa e imperscrutabile - dello zio Nando, che dominava tutta la casa; entarci era rigorosamente vietato, ma c.j. una volta era riuscito ad eludere il controllo della vecchia zia e aveva varcato la soglia (probabile che cercasse il "carrarmato", ovvero una fantastica barretta di cioccolato bianco, oggi introvabile), e si trovò davanti - immaginate la delusione dipinta sul suo volto - solamente una vecchia scrivania, degli scaffali da ufficio e un misero letto in legno.

Era proprio Nando che favoleggiava con c.j. e d.j. paulette del Grande Bologna, di un'epoca che ormai non c'è più, di una squadra che sapeva giocare "come si gioca solo in paradiso", di un certo Haller, di Nielsen, di Bulgarelli...
Con un piccolo sforzo, c.j. riesce qui a ricordare quasi tutta la formazione del Bologna di quegli anni:
Mancini, Roversi, Cresci; Battisodo, Bellugi, Bachlechner; Nanni, Maselli, Clerici, Massimelli, Fiorini (sì, proprio lui, il Giuliano...).
A dire il vero, adesso gli sembra che Bachlechner non c'entri nulla, forse è venuto dopo, e poi è proprio così che si scrive?
Anche Maselli e Massimelli gli puzzano un pò: possibile che avessero due nomi così simili?
E poi Pecci?
Il mitico Eraldo Pecci, che praticamente giocava senza correre, ma che con la sua sapienza tattica e le sue geometrie in mezzo al campo faceva la differenza...

Lo zio Nando diceva di conoscerlo, il Pecci.
Diceva che una volta era andato a una cena con un club al Sasso, e che si era fermato sino a tardi a chiacchierare con loro.
Mi farò dare la maglietta, e ve la regalerò, disse una sera, a cena. Anzi, facciamo così: il Bologna va in ritiro tutti i sabati sera qui vicino, allo "Chalet delle Rose", una volta vi porto con me a vedere l'allenamento prima della partita.
Dopo essersi pulito la bocca con il tovagliolo, si alzò, salutò tutti e poi uscì, come ogni sera, per andare al bar del paese a giocare a briscola o a scopone scientifico, davanti a una boccia di lambrusco dolce e frizzante.
Probabile che lui neanche si ricordò, di quella promessa estiva.
Promessa che, come altre, non seppe mantenere.

venerdì 14 dicembre 2007


A tutti quei poveretti che passano la vita a lamentarsi del pessimo clima della Pianura Padana e che sognano di trasferirsi in qualche remota spiaggia caraibica, c.j. risponde sempre che a lui, il passare delle stagioni, piace da bestia.

Vuoi mettere - sostiene lui - la malinconia dei nostri boschi in autunno, con tutti quei fantastici colori, oppure il piacere di sorseggiare un vin brulè in piedi al gelo, o di gustare un cartoccio di caldarroste immersi nella nebbia intrisa di odori... o ancora una cioccolata calda dentro un caffè fumante di vapori quando il termometro scende sotto zero...

Fin qui tutto bene, nel senso che le sue argomentazioni - poetiche, si direbbe - sembrano solide.

Ma adesso che l'autunno è quasi finito, perchè non ammettere che passare tutti i sabati o le domeniche ad ammazzarsi la schiena per raccogliere le foglie secche - e fortuna che il suo è uno sputo di giardino - non è il massimo della vita?
Con quell'idiota del suo cane, per di più, che si stende sull'erba a pochi centimetri da lui e lo guarda lavorare per ore...

Oramai ha imparato persino a classificare le varie tipologie, a seconda del grado di difficoltà della raccolta e, di conseguenza, del tempo da impiegarsi.
Il peggio è il noce, con i suoi grappoli di foglie grandi e umide, mescolate con i gusci dei frutti caduti a terra e con dei piccoli rametti secchi che si impigliano nel rastrello.
Poi c'è il ciliegio, se non altro perchè ne produce un numero esagerato.
La vite americana è piuttosto bastarda, perchè le foglie si raccolgono bene, è vero, ma in compenso esse vanno regolarmente a intasare le canale di gronda del tetto.
Infine il glicine, che ne fa un'infinità, e sono talmente piccole che si nascondono nella ghiaia e non riesci più a recuperarle.
La magnolia, invece, merita un discorso a parte, perchè le perde in estate e venti-trenta alla volta, così che tutti i santi i giorni ne devi raccogliere un pò...

Quando il sole tramonta dietro il Monte Pillerone, per c.j. è come vedere la luce.
Depone gli arnesi, si toglie i guanti da lavoro e rientra in casa, visibilmente affaticato.
Si siede davanti al camino acceso e, con il sottofondo dei ceppi di carpino che scoppiettano sulla brace, guarda su televideo se il Bologna ha vinto.
Chissà se è l'anno buono che si torna in A, sospira.

giovedì 13 dicembre 2007

Chile, 30.000 (by BIG)

Quel simpatico buontempone di Bonaiuti, portavoce di Sua Emittenza, a proposito dell’inchiesta sui presunti tentativi di corruzione messi in atto dal suo capo, ha testualmente detto: “stamattina ci siamo svegliati a Roma oppure nel Cile del generale Pinochet?”
Vorrei rassicurarlo: siamo in Italia, non si deve preoccupare.
Forse il solerte maggiordomo ha scordato cos’è stato il Cile di Pinochet, e allora perché non rinfrescargli la memoria?

30.000 morti
130.000 arresti
35.000 torturati

E restando in tema di Cile, Chiesa e Illuminismo, forse non tutti sanno che il 18 febbraio del 1993 giunsero a Pinochet, in occasione della ricorrenza delle sue nozze d'oro, due lettere autografe in spagnolo con espressioni di amicizia e stima con in calce le firme di papa Wojtyła e del Segretario di Stato Angelo Sodano.

«Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.»

Ma ancor più caloroso è il messaggio del Cardinale Angelo Sodano, già nunzio apostolico in Cile dal 1977 al 1988, e che nel 1987 aveva perorato con successo la visita del papa a Santiago:
«...il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza. Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile».
Sodano poi conclude, riaffermando al signor Generale,
«l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».

Il Vaticano non rese pubbliche queste missive, tuttavia, alcuni mesi dopo, i documenti furono rivelati dal quotidiano cileno El Mercurio e ripresi dalla rivista francese Témoignage chrétien.
Non credo ci sia altro da aggiungere.

BIG

martedì 11 dicembre 2007

TAXI BLUES PART TWO - BUCAREST (by Paulette)


E’ mattino, fa un freddo notevole. La città è immersa in una fioca luce invernale, ricoperta da una spessa cappa grigia che sa di piombo, di amianto e di industrializzazione selvaggia.
Prendi un taxi in Plata Universatea, il centro culturale di Bucarest. Un anonimo enorme slargo dominato da un grattacielo, moderna ma insignificante sede del celebre hotel da cui i giornalisti occidentali assistettero alla fine del regime di Ceausescu.
Era il dicembre del 1989, il muro di Berlino era caduto da due mesi e la Perestroika avviata da tempo. Ti hanno raccontato che fu proprio Gorbaciov, da Mosca, a fomentare la rivolta di Timisoara, prima, e la caduta di Bucarest, decisiva. E ti hanno portato a vedere i fori delle pallottole sui muri dell’ateneo cha dà il nome alla piazza, e il balcone dove il 22 dicembre Ceausescu tenne l’ultimo discorso, o meglio ci provò, prima di tentare un’inutile goffa fuga in elicottero dai tetti di Plata Rivoluzione.
Ti dirigi verso Sud, nella periferia della capitale.
Scorgi il profilo del Palazzo della Rivoluzione, che i rumeni chiamano ancora Casa del Popolo, opera maestosamente imbarazzante, fulgido esempio del delirio onnipotente del dittatore e dell’esigenza di dare all’esterno un messaggio di progresso e prosperità.
La tua mente torna alla Torre della Radio, simbolo della vecchia Berlino Est. L’edificio, il secondo più grande del mondo dopo il Pentagono, si affaccia su un enorme viale che taglia trasversalmente la città, sullo stile dei Champs Elysees. Del resto ti hanno detto che Bucarest è la Parigi dell’Est, e lo hanno fatto senza autoironia, convinti.
Oltre ai finestrini della tua Dacia gialla sfilano orrendi palazzoni grigi, in una sequenza tanto regolare quanto angosciante.
Il grigio domina in modo assoluto.
E opprimente.
Ti chiedi se la povertà e la storia sfortunata di questo popolo siano sufficienti a spiegare e a giustificare la tristezza e la sensazione di brutto che hai percepito in questi giorni.
Ovvio che non è così, non può essere così.
Pensi a Cuba, pensi al Portogallo. Pensi alla Sicilia profonda.
Tutti luoghi poveri e in un certo senso arretrati, che ti abbagliano con la loro struggente bellezza.
Ti domandi dunque se questo popolo non abbia gusto, sensibilità, piacere per il bello: non lo capisce, non lo sente, non lo desidera, non lo cerca.
Lo percepisci ovunque in città, nelle case, nei palazzi, nei balconi, nei giardini, nei marciapiedi e nei piccoli dettagli dell’arredo urbano, nei negozi, nella gente. O almeno hai questa sensazione.
Canticchi uno strepitoso pezzo dei Marlene Kuntz, “noi cerchiamo la bellezza, ovunque”.
Sei immerso in questi pensieri quando ti accorgi che il tassista non ha ancora aperto bocca.
Non che i rumeni si siano dimostrati particolarmente socievoli, però ti sembra che questo stia esagerando.
Scambi due parole con le colleghe, in italiano.
Il tassista infastidito alza il volume della radio.
Una rotonda, una svolta a destra e poi alza ancora e si mette a ghignare, prima facendo un timido tentativo di contenersi, poi lasciandosi andare di brutto.
Cerchi di capire di cosa stiano parlando alla radio.
E’ un programma comico, probabilmente di satira di quart’ordine, di quelli che inondano anche le nostre emittenti private durante la mattinata.
I due conduttori distorgono i toni vocali in modo alquanto banale, una vocina e una vociona.
Ad un ceto punto capti qualche parola, facilitato da una certa somiglianza tra le due lingue, e capisci che stanno facendo sarcasmo sull’Italia. I rapporti tra i due paesi non sono idilliaci, al momento, e la nostra nazione ha appena rimpatriato cinquecento cittadini rumeni irregolarmente immigrati, sulla spinta generata dall’opinione pubblica a causa di alcuni fatti criminosi compiuti da rumeni.
Chino sul volante nella sua giacca a vento azzurra il tassista continua a ghignare, alzando ulteriormente il volume. Evidentemente quei due devono essere irresistibili, pensi.
Prendono per il culo gli italiani.
Lui sa di avere a bordo degli italiani e invece di abbassare il volume imbarazzato o cambiare canale, come avresti fatto tu, se la ride di brutto.
Sei arrivato, la sede del seminario è davvero un luogo allucinante.
Nei marciapiedi ci sono squarci ovunque, i palazzoni grigi sono i più grigi che ti sembra di ricordare.
Avresti voluto chiedergli che cazzo ha da ridere, che basta lanciare un’occhiata oltre al vetro sporco della sua fottutissima Dacia per realizzare che davvero non c'è un cazzo da ridere.
Ti viene in mente il vecchio Monte, che prontamente l’avrebbe compatito perché mangia la carne una volta al mese, o lo Zio Facce, che l’avrebbe ricoperto delle peggiori ingiurie accusando lui e i suoi connazionali di essere indietro come la coda del gogno.
E invece sorridi, e con te sorridono le colleghe, e lo guardi come potresti guardare un pazzo quando con aria tranquilla si gira per chiedere il dovuto e proporre di arrotondare la cifra.
E’ la prima volta che apre la bocca, ti sembra.
Pensi che forse è meglio così, gli lasci il resto e te ne vai.
PAULETTE

venerdì 7 dicembre 2007

La palla è ovale

Eccovi Annie in azione.

Con il prezioso contributo tecnico di Pat Garrett:

Ottimo baricentro basso (ne so qualcosa) con buona fluidità di corsa (lacci a parte).
Sono da notare:
* eccellente difesa della palla (parte opposta rispetto all' avversario);
* ginocchia alte per mettere in dificoltà l'avversario in caso di placcaggio basso;
* mano esterna pronta al "frontino" per allontanare il difensore;
* non si vede ma sicuramente un "goosestep" degno del miglior Campese succederà alla fase, staticamente ripresa dall' obbiettivo, mettendo a sedere l'ignaro avversario...

e poi con la maglia nera sta tanto bene...
Ps: Fantastico il sostegno indiavolato del tallonatore Gigi Caccola e in 4^ piano di Mimmo Boccolidoro.

martedì 4 dicembre 2007

Ratzinger vs Voltaire

L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell'illuminismo.

Immanuel Kant

domenica 2 dicembre 2007

NY 04, LA CITTA' DEGLI ANGELI

Le due donne arrivarono a New York un venerdi' pomeriggio, e accogliendole notai sul volto di Alisha un'espressione per lei insolita. L'espressione di chi si è reso conto troppo tardi o di aver dato fuoco a casa sua o di essersi imbarcato in un viaggio con la persona sbagliata. "Salvati, scappa", mi sussurrò.

Bonnie era una donna smilza e arcigna, con due trecce da ragazzina che ricadevano come guinzagli sugli innocenti cagnolini disegnati sulla sua maglietta. Aveva uno spiccato accento di Greensboro ed era atterrata al Kennedy convinta che i neewyorkesi, se solo lei gliene avesse dato una mezza possibilità, le avrebbero rubato anche le otturazioni che si ritrovava in bocca.

"Il tassista ci fa: Dall'accento si direbbe che venite da fuori", e io ho capito all'istante che pensava di fregarci. (...) Io l'ho capito subito cosa aveva in mente. So come gira il mondo, non sono mica stupida. E così mi sono segnata il nome e il numero della licenza e gli ho detto che se solo provava a fare qualche scherzetto lo denunciavo alla polizia. Non son mica venuta fin qui per farmi spennare..."

Mi mostrò la ricevuta del taxi, e io la rassicurai: il prezzo era giusto. I soliti trenta dollari di una corsa dall'aeroporto Kennedy a un qualsiasi punto di Manhattan.
Bonnie ripose la ricevuta nel portafoglio. "Be', spero prorpio che quello non si aspettasse una mancia, perchè da me non ha visto un centesimo."
"Non gli hai dato la mancia?"
"Ma figurati!" esclamò Bonnie. "Non so tu, ma io i miei soldi me li sudo. Sono i miei e di mance non ne do, a meno che il servizio non sia come dico io."
"D'accordo" dissi, "ma che tipo di servizio ti aspettavi esattamente, se prima d'ora non avevi mai preso un taxi?"
"Io mi aspetto di essere trattata come chiunque altro, ecco come. Di essere trattata da cittadina americana."

Con quella frase aveva centrato il problema. I turisti americani sono destinati a essere accolti meglio a Teheran che non a New York, una città fondata sul principio del "Noi vs. Loro". Come me, la maggior parte delle persone che conoscevo si era trasferita a New York proprio per sfuggire agli americani tipo Bonnie. E la loro paura aveva sempre giocato a nostro favore, almeno finchè un nuovo sindaco non si era messo a promuovere la città come un parco giochi per famiglie. La sua campagna era stata un successo, e le Bonnie avevano cominciato ad affluire in città a frotte...

da DAVID SEDARIS, Me parlare bello un giorno, Mondadori, 2004 (Me Talk Pretty One Day, 2000)

giovedì 29 novembre 2007

NY 03, NEWARK

Quando C.J. atterrò al Newark International Airport, a nord di Staten Island, il sole stava già tramontando.
Il viaggio era filato via liscio come l'olio. Le sue paure si erano dimostrate infondate: C.J. era riuscito ad ammazzare il tempo alternando con sapienza l'iPod ai racconti splatter di Landsdale; purtroppo però, essendo il suo sedile collocato appena sotto ad un monitor, era stato costretto a sorbirsi una sbrodolata come "Io, te e Dupree" in lingua originale...

Messo piede a terra, C.J. scrutava all'orizzonte lo skyline di Manhattan che si intravvedeva appena sotto l'ala sinistra dell'aereo.
Sbrigò rapidamente tutte le formalità dello sbarco, compreso l'ormai classico questionario - di inarrivabile comicità - a cura del Dipartimento U.S.A. per l'immigrazione:"Lei è un terrorista?""Lei fa parte di organizzazioni sovversive di matrice marxista?""Lei fa uso abituale di sostanze stupefacenti? E' alcolizzato?""Lei ha mai ucciso un uomo?""Lei ha mai stuprato un bambino", e via dicendo.

All'uscita dell'aeroporto, un vento gelido e pungente lo accolse sulla banchina dei taxi.
Prese il primo che gli capitò a tiro.
L'autista era un nero sui sessanta, scorbutico da far paura.
Non gli rivolse la parola per tutto il viaggio, ma stavolta a C.J. la cosa non dispiacque affatto, stanco com'era per il volo transoceanico e per lo stress accumulato durante la lunga attesa per l'imbarco: in fin dei conti era in piedi da una ventina di ore o poco più.

Mentre il cab attraversava le lande desolate attorno a Hoboken (Do you remember Night falls on Hoboken?), C.J. si limitava a osservare in lontananza, con gli occhi increduli e curiosi di un bambino, la metropoli - assurda e straordinaria - che letteralmente gli si spalancava davanti. Percorsero per lo più strade a percorrenza veloce, a tre o quattro corsie, con auto che sfrecciavano a destra e sinistra ad un ritmo frenetico. Ogni tanto, il taxi svoltava su uno svincolo sopraelevato, per poi infilarsi sotto i piloni in cemento armato delle freeways, tra roulottes e distributori di carburante. Ai bordi della strada, oltre il guard-rail arrugginito e contorto, solo sterpaglie e alberi spogli.

Attraversarono poi i sobborghi di New Yersey City. Le luci al neon dei negozi e dei Mc Donald's punteggiavano un agglomerato caotico di vecchie case in stile vittoriano ed enormi caseggiati in mattoni brunastri. Sulla vetrina di una lavanderia a gettone campeggiava la scritta: "Al lunedi', martedi' e mercoledi' il sapone è gratis."

Quando giunsero infine all'Holland Tunnel, uno dei passaggi sotterranei che attraversano l'Hudson River, trovarono una coda terrificante per il pagamento del pedaggio. Il tassista si destreggiò tra le varie corsie sino ad infilarsi a tutta velocità in una corsia riservata.

I grattacieli di Tribeca incombevano ormai sulla Baia, suscitando timore e rispetto.

Tra pochi minuti C.J. sarebbe arrivato a destinazione.

mercoledì 28 novembre 2007

L'amico Appostone ci invia il link per una versione short di Big Lebowski:
http://www.youtube.com/watch?v=D3WcfO7mI2o
Qui troverete la fucking version da 2'18''
http://gracefulflavor.net/2007/11/08/the-big-lebowski-the-fuck-edition/
Tempo fa C.J. si era imbattuto sul web in un pazzo che si era preso la briga di contare tutti i "FUCK" del capolavoro dei Coen, erano diverse centinaia...
A questo punto, visto che l'argomento è sul tavolo, a C.J. non rimane che pubblicare - a puntate - la sceneggiatura originale del film, ovviamente in inglese.
Se qualche anima buona avesse la voglia di farne una rapida traduzione, il compenso è nullo, ma farebbe un gran regalo al popolo italiano...

sabato 24 novembre 2007

SOME MEN ARE BIGGER THAN OTHERS

E venne il debutto di Big.
Ci ha lasciato un commento sul penultimo post, ma siccome il suo è un gran pezzo, C.J. lo ri-pubblica.

Facce era molto teso quel giorno. Era domenica. Gebre stava rincorrendo il suo sogno. Così lontano dai sogni dei più, così lontano da casa. Eppure ora il sogno era lì, alla sua portata. La falcata di Gebre era allo stesso tempo lieve e potente, ti dava una sensazione di velocità e di calma (se mai possono stare assieme due parole così diverse).
Lui si chiese che senso potesse mai avere stare lì fermi ad aspettare, fermi immobili a vedere passare l'uomo più veloce del mondo, e guardarlo prendersi il suo sogno.
Non sarebbe stato mille volte meglio avere un sogno da rincorrere? Non sarebbe stato meglio viverla la vita, piuttosto che osservarla dai bordi?
La domenica, lui lo sapeva, queste domande paranoiche lo tormentavano più degli altri giorni.
Berlino era un dettaglio insignificante, lui lo aveva detto, non gli sembrava nemmeno una città, eppure ne era ossessionato.
E poi nessuno sembrava più sapere, o ricordare, perché fossero lì. Cosa ci facevano? Quale fottuto motivo li aveva portati a nord? Lui non ne aveva la più pallida idea. E invece quell’omino africano, pelle, ossa e grinze, lo sapeva benissimo cosa era venuto a fare, la sua determinazione era feroce, dietro al sorriso beffardo che svelava denti bianchissimi ed una incredibile impressione di non sforzo, avresti detto di relax. A Gebre di sicuro non mancava la sua casa, anzi, non gliene fregava un cazzo, ora che il sogno era davanti a lui, e diveniva reale metro dopo metro.
A lui invece mancava tutto di casa sua, anche le cose che normalmente lo angosciavano o lo facevano incazzare: gli sembrava di essere a Berlino da troppo tempo, voleva solo tornare. Ma anche quell’atto di volontà durò un istante. Poi ritornò l’apatia di sempre. Si voltò verso gli altri. “Facciamoci una birra, ‘codìo”. Ma non c’era più nessuno.

venerdì 23 novembre 2007

Analogie


Immagine 1: Memoriale dell'Olocausto di Berlino, opera di Peter Eisenman (foto BEDDOLIX)
Immagine 2: Cimitero sciita, nei pressi di Baghdad (fonte CORRIERE.IT)

TUTTI GLI UOMINI DEL CARTELLO - 2




martedì 20 novembre 2007

domenica 18 novembre 2007

NY, 02 - THE TERMINAL


L'inizio, si sa, è sempre difficile.
Come fanno i romanzieri in crisi di ispirazione, C.J. ha cominciato dalla fine, ovvero con il taxi che lo portava all'aeroporto John Fitzgerald Kennedy.

Ma la partenza era stata tutt'altro che agevole.
C.J. era partito poco dopo le mezzanotte dalla sua country house sui colli piacentini e si era cosi' presentato alla Malpensa verso le due di notte, con un anticipo imbarazzante. Era sempre cosi', quando prendeva un aereo da solo. Arrivava tre o quattro ore prima dell'orario di imbarco, mai dopo. Forse lo faceva per non rischiare di restare a casa per un intoppo qualsiasi. Forse per sdrammatizzare un pò la tensione (C.J., è risaputo, ha una fottuta paura di prendere l'"apparecchio", come dicono i vecchi delle sue parti), e comunque la notte prima della partenza non riusciva a prendere sonno. O forse perchè, alla fine, non gli dispiaceva immergersi in quel luogo non luogo anonimo e spersonalizzante che è l'aeroporto, dove poteva vagare ovunque, come fosse fuori dalla dimenzione del tempo e dello spazio.

Al suo arrivo alla Malpensa, C.J. aveva commesso il primo errore tattico. Aveva deposto l'auto in un parking collegato al Terminal 2, sottovalutando la necessità di appuntarsi il numero del suo posteggio o, almeno, il livello sotto terra. Al ritorno, C.J. e i suoi compagni di viaggio setaccieranno per una buona mezz'ora le rampe e i corridoi labirintici del parcheggio, nella speranza di ritrovarla, per poi gettare la spugna e chiamare l'assistenza. Dopo di che, i tre malcapitati (Paul, Steve e Winnie) assisteranno alla scena altamente comica di C.J. che, a bordo dell'auto dell'assistente, parte alla ricerca della sua auto perduta nei meandri del sotterraneo.
(Se fosse finita qui, va là. Non contento, C.J. successivamente non troverà neppure il biglietto del parking e per uscire da quella che ormai era una vera e propria prigione sarà costretto a pagare una sanzione. Il biglietto, va detto a costo di peggiorare - e di molto - la sua situazione, era riposto nell'apposita tasca sull'aletta parasole del guidatore, il suo posto di più ovvio, e dove peraltro da subito Steve gli aveva detto di controllare...)

Tornando al nostro, l'avevamo lasciato là che si aggirava in quelle enormi sale dai pavimenti lucidi di graniglia e le fredde luci al neon, facendosi spazio tra visi stanchi e hostess che si truccavano davanti a minuscoli specchi.
Dopo il consueto tour tra profumi costosi, oggetti inutili e cataste di riviste in lingue sconosciute, si era fermato un momento nell'unico bar che aveva davvero l'aria di un bar, per prendere un caffè e un croissant, ovviamente riscaldato nel forno microonde. Si era poi trasferito in una sala d'aspetto, per immergersi nella lettura del suo libro delle vacanze (dovevano essere i racconti di Lansdale, "In un tempo freddo e oscuro", Einaudi Stile Libero).
Inutile cercare di prendere sonno.
Dopo qualche tempo, con gli arti inferiori anchilosati a cuasa delle strane posizioni assunte sulla poltrona in plastica rigida durante la faticosa lettura - mezzo seduto mezzo sdraiato, leggermente inclinato verso l'esterno, con la testa appoggiata ad una spalla - era stato costretto a rimettersi in moto, senza alcuna meta.

Quando arrivò il momento dell'imbarco, C.J. era ormai sopraffatto da una stanchezza indicibile. Aveva le mani sudate e le gambe gli dolevano.
Trascinatosi sino al gate della Lufthansa, fu per lui davvero una pessima sorpresa sapere che il volo per Francoforte - doveva fare scalo in quella città - era stato annullato per un problema tecnico.
Problema tecnico? Che problema tecnico?
L'hostess della compagnia tedesca fronteggiava l'ira dei passeggeri con distacco glaciale, persino con noia: "Non funzionano le luci di sicurezza sull'ala sinistra dell'aereo".
E chi se ne incula?, venne da pensare a C.J., piuttosto innervosito: aveva solo tre giorni e mezzo per visitare una metropoli immensa, grande come l'intera provincia di Piacenza, e adesso doveva buttare nel cesso mezza giornata per via di una lampadina bruciata...
La pressione verso la porta dell'imbarco stava salendo, finchè venne fuori il comandante che, dopo essersi scusato a nome della compagnia Lufthansa per l'inconveniente, ribadì che il guasto non era riparabile in tempi brevi e invitò i gentili passeggeri a tornare al check-in per sapere su quale volo sarebbero stati reindirizzati.

Il nuovo volo di C.J., per la cronaca, venne fissato per mezzogiorno meno dieci.
Doveva passare altre cinque ore in aeroporto.
Dove avrebbe sbattuto la testa?
Avrebbe fatto la fine di Tom Hanks?


mercoledì 14 novembre 2007

Ci hanno preso proprio tutto


Tempi duri per il magenta. Il colore, che negli anni novanta è stato protagonista di un film con Rutger Hauer, Sotto massima sorveglianza, oggi lo è di un dibattito che coinvolge la Comunità europea e due aziende multinazionali. Il suo codice (CTM 002534774) è stato infatti registrato e acquistato dalla Deutsche Telekom e se in Germania un utente vuole utilizzarlo sul proprio computer non può farlo. Sul sito www.freemagenta.it, provocatoriamente, hanno rappresentato la situazione con una finestra che dice: "Attenzione, questo colore non è tuo". La "T" della Telecom tedesca è di color magenta e l'azienda considera la tonalità parte integrante del marchio. La Red Bull, da parte sua, ha acquistato il blue/silver, la combinazione cinquanta per cento/cinquanta per cento di blu e grigio, parte integrante del suo logo. Il suo codice di registrazione è 002534774 e quello RGB è 000f75 - a6abb5. E il blue/silver della bibita energetica sta incontrando gli stessi problemi della compagnia telefonica tedesca. Un po' come nel film, insomma, il colore continua ad essere "sotto massima sorveglianza". Anche perché la Comunità europea di recente ha fatto notare alle due aziende che ciò che hanno fatto è illegale. Registrare un sito, un nome, si può. Ma, come recita l'art. 4 del Regolamento Ue sui marchi registrati questo è possibile "solo per i simboli rappresentabili graficamente". I colori, insomma, no. E ciò, a scanso di equivoci, è ribadito dall'art. 7 dello stesso regolamento: "Non si possono registrare simboli non conformi a quanto previsto dall'art. 4". Una preclusione chiarissima, che sta creando non pochi problemi alle due multinazionali.

(da Repubblica)


E il fuffian?
E' ancora libero?
Ad Agnese potrebbe interessare...
se venisse via ad un buon prezzo, penso che la cosa si possa fare...

A proposito di Stipe


Stipe, abbiamo visto, ama New York.

Ma poi viene a magnare a Piacenza....


Strano incrociare una leggenda del rock come Michael Stipe, leader della storica band R.E.M., per le vie del centro storico di Piacenza. E' capitato a molti residenti, rimasti davvero di stucco osservandolo passeggiare con il suo chitarrista Peter Buck.L'artista americano era in compagnia di un dirigente della Warner Music, e con gli increduli fans piacentini è stato molto disponibile, rilasciando autografi e facendosi fotografare con i cellulari. Il frontman dei R.E.M. e il suo entourage erano a cena all'Antica Osteria del Teatro, che ancora una volta si conferma uno dei ristoranti italiani più conosciuti. Secondo i racconti di Chiappini Dattilo Michael Stipe, grande appassionato di vino, si è fermato a visitare la cantina. Dal menù ha scelto i tagliolini neri con ragoût di calamaretti, piselli e vongole veraci al profumo di limone e pesto al prezzemolo,poi una trota della Val Trompia affumicata con legni aromatici delle nostre vallate e per finire una treccia di branzino all’olio extravergine, timo, pomodoro e sale grosso.


da Piacenzanight.com
La vignetta (strepitosa) è invece apparsa sul numero di ottobre di Linus

venerdì 9 novembre 2007


Esce in questi giorni "Comic Opera", l'ultimo lavoro di Robert Wyatt.

Ovviamente, accogliamo la notizia con gioia e trepidazione, anche se si tratta, per la verità, di una raccolta di rarità, b-sides, cover già note e qualche inedito.

Ma si vada poco per il sottile: tutte le volte che il maestro inglese decide di allietarci con la sua voce soave ed eterea e con il suo drumming pacato, noi si gode. Non sarà il suo album capolavoro, ma cara di grazia.

Ne sapremo di più dopo il primo ascolto.

Per ora, possiamo solo apprezzare il titolo, "Comic Opera", che tradotto sta a significare "Opera Buffa".

Ricorda qualcosa?

Un altro grande, Francesco Guccini, al quale Wyatt è accomunato dalla classe, da una bella barba grigio-bianca - a dire il vero quella dello Zio Bob è di un altro pianeta, a questo livello possono competere solo Osama e qualche rabbino - e da simpatie politiche tutt'altro che moderate, ha intitolato così un album goliardico e giocoso di metà anni Settanta: lì sopra c'era la Fiera ad Sen Lazar, il Bello - quello che con la brillantina in testa montava la Gilera - e anche la Genesi ("modestia a parte, certe cose mi vengon da Dio").

Lo stesso Guccini che poco dopo, molto più arrabbiato, molto più avvelenato, scriverà versi al vetriolo sulla critica musicale: "tanto ci sarà sempre, lo sapete, un critico fallito un pio un teorete, un Bertoncelli o un prete, a sparare cazzate".

(Racconta Guccini che Bertoncelli non se la prese, ed anzi che quello fu l'inizio di una bella amicizia) .

Lo stesso Bertoncelli scrive ancora su Linus.

Ecco la sua recensione di "Comic Opera".

Prendete il titolo con beneficio d’inventario e, se proprio, considerate che il disco è più "comic" che "opera": riflessioni fra il dolce e il gioioso, lo smarrito e il malinconico di un attempato Peter Pan che non smette di volare libero su per i cieli della musica, mescolando i colori del suo astuccio ben noto - vecchio jazz buona maniera, etnica del terzo mondo, pop intellettuale, inni politici. Robert Wyatt ha diviso l’opera in tre atti ma è più gioco che realtà, e di certo non uno schema che lo vincola; di fatto, anzi, questo è il suo album più anarchico da tempo, con una serie di idee abbozzate, pensieri da approfondire, pagine non sue (l’iniziale Stay Tuned viene da Anja Garbarek) e anche brani già editi (nel terzo atto briciole ben note di Robert Pollicino, da una versione di Del mondo dei CSI alla Cancion de Julieta di Garcia Lorca fino a Hasta Siempre Comandante Che Guevara, da un album di Maurizio Camardi). Come sempre con il nostro uomo, un album non è merce ma un pezzo di vita, e fare un disco "non un piacere astratto ma uno stare in compagnia. Per questo ho sempre amato Ellington e Mingus, le big band: perchè ogni personaggio di quelle orchestre aveva un carattere specifico e definito, perchè in sala suonavano esseri umani e non solo musicisti".La compagnia di Comic Opera è ben nota, e gradita: Brian Eno, Paul Weller, Gilad Atzmon, David Sinclair, Annie Whitehead la moglie Alfreda e Phil Manzanera, naturalmente, che ha messo a disposizione anche il suo studio.

giovedì 8 novembre 2007

NY, 01 - LASCIARE NEW YORK NON E' MAI FACILE


Michael Stipe ha ragione.

C.J. stava lasciando la città sul solito taxi sgangherato, con la carrozzeria ammaccata e le portiere cigolanti. Era già buio, per cui non sa dirvi se aveva ancora i copricerchioni. Ne dubita, comunque.
Esausto, restava sprofondato nel sedile in velluto a coste larghe, con l'imbottitura sfondata a tal punto che sembrava di essere seduti direttamente sull'asfalto.
Il tassista, un greco corpulento con due avambracci muscolosi e mani come badili, si spostava nervosamente da una corsia all'altra, nella ricerca vana di uno spiraglio nel muro di ferraglia che correva verso nord.
Gesticolava in modo vistoso, sacramentando contro chi (a suo dire) gli tagliava la strada.
Sembrava avere una fretta tremenda.
Non che fosse preoccupato che C.J. arrivasse in tempo all'aeroporto. C.J., d'altro canto, non gli aveva fatto cenno riguardo l'orario d'imbarco. Si era limitato a pronunciare, nel suo inglese timido, le semplici lettere: "J.F.K.".
Il problema è che il greco lavorava a cottimo. Più corse faceva, più guadagnava.
Ed erano di nuovo fermi.
Il tassista scrollava la testa, come in trance agonistica, irritato per l’ennesima coda che non si muoveva di un millimetro.
Il traffico a New York doveva essere sempre così, ma lui non sembrava essersi rassegnato.
A lungo, nel taxi regnò il silenzio.
- Siamo ad Harlem?, chiese C.J. provando a rompere il ghiaccio.
- Non ancora, fece lui, - ci saremo tra tre o quattro isolati.
- Mi piacerebbe vedere Harlem.
Il greco annuì. Si stava rivelando una guida turistica alquanto stitica. Si limitò a indicare a C.J. l’Apollo Theatre.
- Very famous, aggiunse.
- Dove?
- Dall’altra parte della strada.
C.J. domandò da dove veniva. Veniva da un piccolo paese di montagna, nel Peloponneso. Una montagna arida e assolata, dove non cresceva nemmeno la vite. C'erano solo fichi d'India. Suo padre era un pastore, ed anche suo nonno lo era stato. Lui, quando aveva raggiunto la maggiore età, era scappato in America. Non aveva nessuna intenzione di passare la sua vita a correre dietro a delle pecore.
- A New York stai bene?, fece a un certo punto il nostro.
- Yeaaaahhh.
Era un grugnito incomprensibile. C.J. non capì, sulle prime, che stava a significare un sì.
- Il tuo lavoro ti piace?
- E’ stressante. Sto su questa macchina da lunedì al sabato, dalle 7.00 della mattina alle 9.00 della sera… sempre incolonnato… ma non mi lamento. Nella vita ho fatto anche di peggio.
- E la domenica?
- La domenica? La domenica dormo.
- Vivi solo?
- Sì, naturalmente.
- Cazzo, pensò C.J., costui passa la vita sul suo sedile immerso nel traffico di New York. Roba da farsi prendere la nostalgia delle pecore…
- Quand’è l’ultima volta che sei stato in Grecia?
- Saranno ormai quindici anni. Fu per il funerale di mia madre, povera donna. Dio la benedica. In ogni caso, rimasi solo poche ore.
Passarono a fianco dello stadio per il baseball, nella zona di Staten Island. Il greco lo indicò a C.J. con un certo stupore, come se fosse stata la prima volta che lo vedeva.
- Vai mai a vedere gli Yankees?, domandò C.J.
- No, io sono per i Mets. Una volta andai a vederli, poco tempo dopo essere arrivato qui. Adesso li vedo in tv, quando capita. Il biglietto costa troppo.
- Davvero non te lo puoi permettere?
- Qui la vita non è facile. E’ vero, ci sono opportunità di lavoro per tutti, ma con che salari? Mi ammazzo di lavoro sei giorni la settimana per riuscire a pagare l’affitto di un misero bilocale a Brooklyn. Se alla fine del mese avanza qualcosa, e non sono rimasto con il frigorifero vuoto, mi prendo una scatola di sigari cubani.
- Così questa è la vita, a New York.
(C.J. adesso pensava ad alta voce.)
- Sì, anche. Ti dico una cosa: stringo i denti ancora cinque-sei anni e poi vado in pensione, e allora mando a fare in culo tutti questi figli di puttana, disse, indicando una ad una le auto che ci affiancavano a più riprese, secondo un ritmo costante, come fossero legate alla loro da un enorme elastico invisibile.
- E poi cosa farai?
- Ancora non lo so.
- Tornerai al tuo paese?
- Non ci ho ancora pensato. Ma oramai là non ho più nessuno, i miei parenti sono morti tutti. E’ rimasto solo qualche cugino di secondo grado.
- Mi dispiace, disse C.J., ricordandosi di non avere in precedenza nemmeno commentato del funerale della madre (come se fosse del tutto naturale fare le condoglianze ad uno sconosciuto quindici anni dopo la morte di sua madre.)
- Non che qui abbia poi così tanti amici. Due o tre colleghi con i quali ogni tanto si beve una birra al pub la sera, dopo aver smontato dal lavoro. Il fatto è che io sono un newyorkese, adesso.
L’auto sbucò da un lungo tunnel male illuminato, e, improvvisamente, apparve alla loro destra lo skyline di Manhattan al tramonto.
Uno spettacolo impressionante.
C.J. restò, quasi instupidito, a fissare a lungo quella teoria infinita di luci che si accendevano e si spegnevano ad intermittenza.
- La vedi là, Manhattan?, fece lui.
- Cristo, certo che la vedo.
- Capisci, adesso, quello che sto cercando di dirti?

mercoledì 7 novembre 2007

Agnese dolce Agnese

Ieri Agnese ha compiuto quattro anni.
Mentre la portavo in braccio sino all'ingresso dell'asilo, mi ha detto: "Sei il papino più bello del mondo".
A parte l'uso agghiacciante del termine "papino" - d'altronde i compagni d'asilo si chiamano Pier Emilio e Carlo Alberto - è stato comunque molto bello.
Un bacio.

martedì 6 novembre 2007

NY, 00 - CITTA' DI VETRO

New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentre sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle sé stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l'obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore. Il mondo era fuori di lui, gli stava intorno e davanti, e la velocità del suo contitnuo cambiamento gli rendeva impossibile soffermarsi troppo su qualunque cosa. Il movimento era intrinseco all'atto di porre un piede davanti all'altro concedendosi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più.
Paul Auster, 1985.

lunedì 5 novembre 2007

NEW YORK, UN ANNO FA


L'anniversario della N.Y. Marathon, che come ogni anno si è svolta la prima domenica di novembre, ha invogliato C.J. a ricostruire un diario dello splendido viaggio dell'autunno scorso. Purtroppo, in soli tre giorni c'è stato solo il tempo per camminare, e camminare. Dunque non è stato possibile realizzare una moleskine. Chiedo ai miei compagni di vaiggio - e non - di aiutarmi in questa ricostruzione postuma.

Come scriveva un anonimo sulle strade di Brooklyn, "Finishing is your only fucking option!"

sabato 3 novembre 2007

Acqua



Una donna che aveva partecipato in California ad un concorso radiofonico su chi riusciva a bere più acqua è morta poco dopo essere rientrata nella sua abitazione. Il medico legale ha attribuito la morte di Jennifer Strange, 28 anni, alla quantità eccessiva di acqua ingurgitata durante il concorso, che si è svolto nella sede della stazione radiofonica KDND 107.9 di Sacramento (California). La donna, madre di tre figli, si era iscritta alla gara nella speranza di vincere il primo premio, un box per videogame Nintendo. I concorrenti avevano bevuto diverse bottigliette d'acqua senza poter andare al bagno. La donna, che non aveva vinto il concorso, aveva accusato un forte mal di testa poco dopo essere uscita dalla stazione radio per tornare a casa". E' la realtà che supera la fantasia. Ricordo un bellissimo racconto di A.M.Homes, intitolato "Achiappare i proiettili al volo" e compreso nella raccolta "La sicurezza degli oggetti" (Minimum fax, 2001) dalla quale è stato tratto un film con Meryl Streep.Anche qui era una stazione radiofonica, la z-100 ("una radio metal troppo fica"), che mette in palio un fuoristrada ("14.600 dollari; autoradio con mangiacassette, carrozzeria a prova di ruggine, ottimi pneumatici e alette parafango") al vincitore di una singolare prova di forza che si svolge all'interno di un centro commerciale: i partecipanti devono rimanere attaccati alla macchina con una sola mano per tutto il tempo, con una pausa di cinque minuti ogni ora.Frank non è stato ammesso alla gara: hanno preso "i primi venti che sono stati i centesimi a chiamare quando la z-100 ha passato "Roll my wheels" dei Poizon Boiz". Tra di essi, la madre di Julie sta resistendo. "La madre di Julie e un tizio più giovane di dieci anni erano rimasti gli unici concorrenti rimasti. L'uomo portava una maglietta che gli aveva fatto la sua ragazza, con sopra scritto "Giù le mani dalla mia macchina". La madre di Julie si era tolta le scarpe, e si era arrotolata i gambaletti fino alle caviglie. Le caviglie sporgevano viola e gonfie fuori dalle calze di nylon. Continuava a spostare il peso da un lato all'altro, da un piede all'altro. (...) Aveva la pelle smunta, gli occhi le erano sprofondati dentro la testa. Il nero che aveva intorno agli occhi era pesante come se qualcuno lo avesse disegnato col carboncino. Basta!, voleva urlare Frank. Basta. Datele la macchina. Se l'è guadagnata."La madre di Julie cede di schianto."Quando i giudici si avvicinarono alla madre di Julie, le presero le mani e gliele riabbassarono lungo i fianchi. Le braccia le caddero giù come leve a cui si fossero spezzate le molle. Lei alzò gli occhi e disse: "Che c'è?". Julie acorse e cominciò a scuoterla: "Mamma, cretina, hai perso la gara. Hai perso quando ti mancava tanto così per vincere". Frank odiò Julie."

martedì 30 ottobre 2007

ERRATA CORRIGE: ANCORA BERLINO!


Per colpa di un'incredibile disattenzione di C.J., giustamente segnalata (e a più riprese) da Beddolix, la moleskine berlinese è stata in realtà pubblicata in modo incompleto. Niente censure (non è nello stile di C.J.), ma solo una dimenticanza (è nello stile di C.J.).

C.J. porge le sue scuse, anche a nome di tutto lo staff delle Edizioni del Cartello, e rimedia pubblicando il post con le due pagine "nascoste", peraltro imperdibili per via delle suggestioni dello stesso Beddolix alla Gemaldegalerie e per via del "caso" dello smarrimento temporaneo della moleskine (altra cosa nello stile di C.J....)
Perdonami, Bed!

sabato 27 ottobre 2007

Ottobre - da "Guerra agli umani"

È il primo giorno d’ottobre. Mattina. La gente parla di clima estivo e cappotti ancora nell’armadio. Io sono senza lavoro. Da una settimana. Niente di strano. Inserivo dati nel computer di una ditta. I dati sono finiti. Lo stipendio anche. Restano settecento euro in banca, un mese d’affitto arretrato, la bolletta del telefono e uno zaino, pronto da mesi, dietro la porta di cucina. Prima dell’estate pulivo cessi al cimitero. Non era infame come sembra. Il luogo è poco affollato e nessuno molla una sepoltura per andare a cagare. C'erano fiori freschi per la mia ragazza e certe mattine non bisognava nemmeno dare lo straccio. L’azienda leader nel settore ne ha dedotto che il personale era in forte esubero. S’imponeva il taglio di un addetto su tre. Ho salutato le due colleghe bielorusse e coi soldi dell’ultima settimana mi sono preso lo zaino. Ora sento che ci siamo. Ho appena fatto provviste. Fuori dall’ipermercato, carrelli e abbronzature mi circondano minacciosi. Gente che guadagna. Vorrei aggrapparmi a un colletto qualsiasi, e sussurrare parole indecenti all’orecchio del proprietario: - Ehi, amico, senti un po’ qua: il sottoscritto non fa un cazzo da una settimana. Non è disgustoso? Una batteria di cabine telefoniche mi richiama all’ordine. Almeno mia sorella la dovrei avvertire. Parto, Sandra. È deciso. Se c’è riuscito Thoreau posso farcela anch’io. La massa degli uomini conduce vite di quieta disperazione. Siamo solo attrezzi dei nostri attrezzi, assediati da eserciti di necessori. Questa civiltà si basa su non-cicli ed è votata all’estinzione. Il futuro è nelle attività silvopastorali. L’apparecchio funziona solo a scheda. Uno su cinque accetta anche monete, ma so già cosa mi aspetta. È fuori servizio. Mangia i soldi oppure li sputa. Ha la cornetta spalmata di resina. Decido per un biglietto. Meno inconvenienti. Arrivo a casa, appoggio la spesa, accendo una sigaretta e lo stereo. Perfect day, Lou Reed, versione noise dei Melt Banana.

Cara Sandra, ormai da una settimana non telelavoro piú. Lungi da me l’idea di cercare un altro impiego qls. Ho preso in odio ogni lavoro da me fatto sotto il sole. Ma non vengo a dirti che tutto è vanità. Soltanto: il sottoscritto ha già dato. C'è un tempo per ogni cosa, e quel tempo è finito. Se uno è soddisfatto di questa vita, s’accomodi. Per quanto, l’uomo che lavora per sopravvivere non possa godere di una vera integrità. Da anni sorvolo l’abisso della disoccupazione cronica a spasso su corde sottili. Ho speso le migliori energie a mantenermi in equilibrio. Adesso basta. È giunto il momento di dare un'occhiata di sotto.Lo zaino è lí da quest’estate, lo sai. Ho un quaderno fitto di appunti, stratagemmi copiati da diversi manuali. So già dove andare, un luogo isolato e tranquillo che per il momento non rivelerò a nessuno. Vorrei evitare che una fila di persone si presenti ogni giorno davanti al mio rifugio con l’intento di farmi rinsavire. Non sono impazzito, anzi, mai stato piú lucido. Voglio solo diventare ricco: se questa è follia, la condivido con la maggior parte degli uomini. Un individuo è tanto piú ricco quanti piú sono gli orpelli che può trascurare. Vivrò in una grotta, mangerò bacche, castagne e farina di formiche. Mi scalderò col fuoco. Chi è il sultano di Brunei in confronto al sottoscritto? Questo mondo non ha bisogno di me, e viceversa. Pari e patta, il cerchio si chiude e il sottoscritto parte per la tangente. Mi farò vivo quando lo riterrò opportuno.
Saluta i nipoti,
Marco 'Walden', supereroe troglodita.

Wu Ming 2 - "Guerra agli umani"
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giovedì 25 ottobre 2007

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E' vero, manca un certo Cyber-Hubner... detto anche Tatanka...

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