venerdì 4 settembre 2009
Ruspe
La realtà, si sa, spesso supera la fantasia.
Spaparanzato sotto l'ombrellone, leggo su Repubblica che sulla pagina Fb della Lega compariva il gioco "Rimbalza il clandestino", denunciato dall'Arci per istigazione all'odio razziale e poi chiuso.
Che dire.
Metto qui sotto alcuni stralci di un racconto che ho scritto l'inverno scorso.
Cazzo, uno si scervella per trovare qualcosa di originale, e poi...
Il treno scartò bruscamente sui binari, sollevando un’enorme nuvola di polvere.
Sobbalzai, a causa di un giunto imperfetto, e mi ritrovai accovacciato sui sedili di un anonimo scompartimento di seconda classe.
L’aria era secca e viziata, il rivestimento in finta pelle appiccicoso.
E c'era una terribile puzza di sudore.
Impiegai del tempo per mettere a fuoco. Sotto la rastrelliera campeggiava una vecchia riproduzione ingiallita della Reggia di Caserta.
Mi affacciai nel corridoio.
Due donne straniere tentavano invano di prendere sonno, la testa tra le mani, in equilibrio precario sulle loro valigie di plastica rigida tenute insieme con il nastro da pacchi. Un uomo di mezz'età passeggiava avanti e indietro. Un altro fissava un punto indistinto del soffitto in doghe metalliche, palpeggiandosi le parti piu' intime del corpo. Poco lontano, si sentivano alcune voci discutere animatamente, voci che forse provenivano dall'ultimo scompartimento. Voci che sembravano provenire dall'oltretomba.
Nonostante tutto, il treno mi piaceva, popolato a quell’ora della notte solamente da vagabondi e perditempo.
Improbabili naviganti sulla rotta di metallo che correva parallela al grande fiume.
(...)
Nel frattempo, i miei compagni di viaggio erano scesi in stazioni intermedie.
Unica eccezione, un uomo di mezz’età con cappello e pastrano scuro e quello che con ogni probabilità era suo figlio, un piccolo moccioso decisamente sovrappeso, con il viso rotondo punteggiato da una miriade di lentiggini.
Il bambino obeso mi fissava con odio inspiegabile, mentre lentamente estraeva le ultime patatine da un tubo di cartone. Si era ripulito le mani unte sfregandole sui pantaloni di lana color ruggine, poi aveva spostato le sue attenzioni su un videogioco portatile.
Attraverso il riflesso sul vetro del finestrino, riuscivo a scorgerlo mentre caricava una nuova partita di Caccia al Rom Evolution II. Le forze dell'ordine si erano presentate in un campo nomadi abusivo in pieno assetto antisommossa. Un'enorme ruspa radeva al suolo sistematicamente ogni cosa.
Il bambino obeso strizzava ripetutamente gli occhi: sembrava in preda a una strana forma di epilessia.
Superata indenne la fase uno, ovvero lo Sgombero Dell'Insediamento, era passato a una nuova schermata, denominata questa volta La Bonifica Del Territorio. Adesso i suoi eroi procedevano solerti a ribaltare le roulottes e ad appiccare il fuoco alle baracche del campo, mediante un fitto lancio di molotov e bottiglie incendiarie.
Nemmeno questa fase durò molto, ma fu un attacco di un'intensità micidiale.
Il bambino obeso sudava in modo raccapricciante, mentre smanettava con forza sulla piccola consolle.
Nel campo ora regnava una calma terrificante.
Dai cumuli di macerie e di lamiere metalliche saliva un intenso fumo nerastro. I superstiti si aggiravano con rassegnata disperazione tra la polvere e le scorie, come pallidi fantasmi, tenendosi un fazzoletto o uno straccio sul viso.
Il bambino obeso scuoteva lentamente il capo, stizzito.
Probabilmente aveva ottenuto un punteggio troppo basso.
(...)
Il viaggio proseguiva senza particolari intoppi: il treno procedeva alla velocità di crociera stabilita, non era per nulla scontato, di questi tempi.
Il bambino lentiginoso era visibilmente annoiato.
Aveva riposto il videogioco, avvolgendolo con cura maniacale nella sua preziosa custodia in cuoio, ed estratto da un piccolo marsupio un telefonino dell’ultima generazione. Muovendo con velocità insospettabile le dita grassocce sulla tastiera, eseguì una serie interminabile di suonerie. Al massimo volume.
Infastidito, tossìi in modo quasi impercettibile.
Senza risultato.
Dopo un ulteriore sequenza di bip, tossìi di nuovo. Stavolta in modo più vigoroso, volgendo lo sguardo verso il padre, imperscrutabilmente immerso nella lettura di un quotidiano filogovernativo.
Finiscila, dai fastidio alle persone, disse allora l’uomo, senza alzare gli occhi dal giornale.
Dove “le persone” ero io.
Decisi di cambiare scompartimento.
giovedì 20 agosto 2009
THE RONDA'S GUIDE OF PARIS, 02
ALTRE COSE DA VEDERE, A RANDOM
L’Opera con il soffitto affrescato da Chagall, poi da lì la chiesa della Madeleine e Place Vendome. I giardini del Luxembourg. La Tour Eiffel, ovviamente. L’Istituto del Mondo Arabo, eccezionale: sali fino sulla terrazza per godere il panorama; è sul pont de Sully, sull’altra riva rispetto alla Bastiglia. Se vuoi vedere un bel panorama della città puoi andare anche all’ultimo piano dei grandi magazzini La Samaritane, in pieno centro. La moschea. Saint Sulpice e Saint Germain l’Auxerrois. Place de la Contrescarpe.
MUSEI
Il Louvre è un puttanaio, enorme e pieno di giapponesi.
Se decidete di andarci vi consiglio di studiare bene, preventivamente, quali sale andate a visitare, sennò vi perdete e vi deprimete.
Il Musée d’Orsay è molto bello, collezione di impressionisti che visiti in un paio
d’ore: può essere una buona alternativa.
Il Museo Picasso è ben fatto e interessante, la visita poco impegnativa.
Se andate al Beaubourg ti segnalo che nella piazzetta appena fuori dal Centre Pompidou ci sono spesso gli artisti di strada, puoi prenderti un caffè o quel
cazzo che vuoi, ti siedi lì e ammiri i loro funambolismi, poi gli dai mezzo euro e li fai felici, fricchettoni di merda.
Una bella gitarella potrebbe essere la Villette e i suoi musei: il parco è molto bello, e soprattutto sabato e domenica si riempie di famiglie e giovani che vanno là a fare il pic-nic, mangiano gli hot-dogs e giocano al pallone. La Cité de la Musique alla Villette è abbastanza interessante, soprattutto la parte interattiva: la Cité des Sciences invece mi aveva annoiato.
PER LA SERA
Con il tuo bel Pariscope in tasca, che avrai consultato febbrilmente durante la giornata, ti dirigerai senza esitazioni nei ristoranti dei tuoi sogni. Comunque qualche buona dritta te la do lo stesso, ché il servizio sia completo: ma non sto lì a dirti i nomi dei ristoranti dove sono stato, tanto ce ne sono migliaia e deciderai tu in base all’estro del momento.
Una buona zona piena di ristoranti è quella vicino a Place de la Bastille: Rue de la Roquette, rue de Lappe e quelle intorno. Ci sono un sacco di locali con cucina di tutto il mondo, noi abbiamo testato un coreano e un marocchino uscendo parecchio soddisfatti. Lì ci sono anche dei bei locali dove bere l’aperitivo o il mojito per la digestione. Invero è una zona molto frequentata, un sacco di giovani, molta Movida.
Altro posto dove andare la sera in cerca di ristoranti è quello vicino al mercato di Saint Germain: rue des Canettes e limitrofe. Trovi principalmente ristorantini francesi, intimi e belli, la zona è più tranquilla e vale almeno una visita per una cena.
Menilmontant è una buona zona di ristoranti etnici, e per il cous-cous consiglio assolutamente il ristorante della Moschea: ambiente notevole, si mangia bene, meno turistico di quanto si possa pensare, ci aveva portato lì il nostro amico parigino. Dopo cena ti fermi per il narghilé.
Nel Marais pure trovi parecchi ristoranti, bistrot e brasserie o anche eleganti e cari, come pure localini intimi e romantici. Insomma zona ricca di opportunità. In place du Tertre, là in alto dietro il Sacro Cuore, ci sono un fracco di bistrot ma mi sembrano molto turistici. Per bere qualcosa dopocena, la zona della Bastiglia è ben messa in quanto a locali e a profferte alcooliche. Sennò la rive gauche in generale, ti inoltri un po’ e non rimani deluso. Noi ogni volta torniamo a bere un birrino o un mojito al Café Charbon, in Rue Oberkampf (fermata metro: Parmentier): trendy ma con gusto. Se volete ascoltare della musica dal vivo, non c’è niente di meglio che consultare il vostro bel Pariscope.
VOCABOLARIO UTILISSIMO, OVVERO COME CHIEDERE LE COSE
Caffè: espresso
Caffè macchiato: noisette
Brodaglia: café au lait
Demi: il birrino
Baron: la birra media (ma usa poco, si va giù di birrino a ripetizione)
Pression: la birra alla spina
Pastis: pastis
Mauresque: pastis e orzata
Pichet: caraffa o bottiglia, sia di acqua che di vino sfuso. Consiglio di bere
l’acqua del rubinetto (eau du rubinet) perché quella in bottiglia ha prezzi
incredibili.
Acqua gasata: eau gazeuse (solo in bottiglia, non ci sono rubinetti di acqua
frizzante)
Gazzosa: limonade
Bleu: carne molto al sangue
Saignant: al sangue
A point: media cottura
Taxi: taxi
Baiser: scopare
Sucette: pompino
Putain de dieu de bordel de merde: una signora bestemmia
L’Opera con il soffitto affrescato da Chagall, poi da lì la chiesa della Madeleine e Place Vendome. I giardini del Luxembourg. La Tour Eiffel, ovviamente. L’Istituto del Mondo Arabo, eccezionale: sali fino sulla terrazza per godere il panorama; è sul pont de Sully, sull’altra riva rispetto alla Bastiglia. Se vuoi vedere un bel panorama della città puoi andare anche all’ultimo piano dei grandi magazzini La Samaritane, in pieno centro. La moschea. Saint Sulpice e Saint Germain l’Auxerrois. Place de la Contrescarpe.
MUSEI
Il Louvre è un puttanaio, enorme e pieno di giapponesi.
Se decidete di andarci vi consiglio di studiare bene, preventivamente, quali sale andate a visitare, sennò vi perdete e vi deprimete.
Il Musée d’Orsay è molto bello, collezione di impressionisti che visiti in un paio
d’ore: può essere una buona alternativa.
Il Museo Picasso è ben fatto e interessante, la visita poco impegnativa.
Se andate al Beaubourg ti segnalo che nella piazzetta appena fuori dal Centre Pompidou ci sono spesso gli artisti di strada, puoi prenderti un caffè o quel
cazzo che vuoi, ti siedi lì e ammiri i loro funambolismi, poi gli dai mezzo euro e li fai felici, fricchettoni di merda.
Una bella gitarella potrebbe essere la Villette e i suoi musei: il parco è molto bello, e soprattutto sabato e domenica si riempie di famiglie e giovani che vanno là a fare il pic-nic, mangiano gli hot-dogs e giocano al pallone. La Cité de la Musique alla Villette è abbastanza interessante, soprattutto la parte interattiva: la Cité des Sciences invece mi aveva annoiato.
PER LA SERA
Con il tuo bel Pariscope in tasca, che avrai consultato febbrilmente durante la giornata, ti dirigerai senza esitazioni nei ristoranti dei tuoi sogni. Comunque qualche buona dritta te la do lo stesso, ché il servizio sia completo: ma non sto lì a dirti i nomi dei ristoranti dove sono stato, tanto ce ne sono migliaia e deciderai tu in base all’estro del momento.
Una buona zona piena di ristoranti è quella vicino a Place de la Bastille: Rue de la Roquette, rue de Lappe e quelle intorno. Ci sono un sacco di locali con cucina di tutto il mondo, noi abbiamo testato un coreano e un marocchino uscendo parecchio soddisfatti. Lì ci sono anche dei bei locali dove bere l’aperitivo o il mojito per la digestione. Invero è una zona molto frequentata, un sacco di giovani, molta Movida.
Altro posto dove andare la sera in cerca di ristoranti è quello vicino al mercato di Saint Germain: rue des Canettes e limitrofe. Trovi principalmente ristorantini francesi, intimi e belli, la zona è più tranquilla e vale almeno una visita per una cena.
Menilmontant è una buona zona di ristoranti etnici, e per il cous-cous consiglio assolutamente il ristorante della Moschea: ambiente notevole, si mangia bene, meno turistico di quanto si possa pensare, ci aveva portato lì il nostro amico parigino. Dopo cena ti fermi per il narghilé.
Nel Marais pure trovi parecchi ristoranti, bistrot e brasserie o anche eleganti e cari, come pure localini intimi e romantici. Insomma zona ricca di opportunità. In place du Tertre, là in alto dietro il Sacro Cuore, ci sono un fracco di bistrot ma mi sembrano molto turistici. Per bere qualcosa dopocena, la zona della Bastiglia è ben messa in quanto a locali e a profferte alcooliche. Sennò la rive gauche in generale, ti inoltri un po’ e non rimani deluso. Noi ogni volta torniamo a bere un birrino o un mojito al Café Charbon, in Rue Oberkampf (fermata metro: Parmentier): trendy ma con gusto. Se volete ascoltare della musica dal vivo, non c’è niente di meglio che consultare il vostro bel Pariscope.
VOCABOLARIO UTILISSIMO, OVVERO COME CHIEDERE LE COSE
Caffè: espresso
Caffè macchiato: noisette
Brodaglia: café au lait
Demi: il birrino
Baron: la birra media (ma usa poco, si va giù di birrino a ripetizione)
Pression: la birra alla spina
Pastis: pastis
Mauresque: pastis e orzata
Pichet: caraffa o bottiglia, sia di acqua che di vino sfuso. Consiglio di bere
l’acqua del rubinetto (eau du rubinet) perché quella in bottiglia ha prezzi
incredibili.
Acqua gasata: eau gazeuse (solo in bottiglia, non ci sono rubinetti di acqua
frizzante)
Gazzosa: limonade
Bleu: carne molto al sangue
Saignant: al sangue
A point: media cottura
Taxi: taxi
Baiser: scopare
Sucette: pompino
Putain de dieu de bordel de merde: una signora bestemmia
martedì 18 agosto 2009
THE RONDA'GUIDE OF PARIS, 01
Pubblico qui, senza il consenso dell'autore, un'agevole e utilissima guida per un breve soggiorno nella capitale francese.
E' stata stilata dall'ottimo J in esclusiva per il viaggio della Big's family, in primavera, ma grazie a una serie di inenarrabili sotterfugi CJ è riuscito a entrarne in possesso, in tempo utile per la sua vacanza dello scorso giugno.
E' davvero una miniera di preziosi suggerimenti.
NB: CJ ha tuttora il sospetto che la frase "Gli architetti che si fanno le pippe con il cemento armato tailandese o il design finlandese tardoesistenzialista non sanno neanche che esiste, Pariscope" possa essere in qualche modo indirizzata a lui.
PREMESSA
L’imporante è partire bene, quindi prendi in edicola l’ultimo numero di Pariscope, costerà un euro: è un settimanale dove trovi tutte le informazioni su musei, gallerie, mostre, concerti, appuntamenti, teatro, spettacoli, eventi, orari, prezzi ecc. In più ogni settimana trovi un lungo elenco di ristoranti parigini, divisi per zona e per tipo di cucina, con prezzi, indirizzo, orari e telefono, più una piccola scheda. Pariscope è utilissimo e differenzia il turista intelligente dal turista pirla. Gli architetti che si fanno le pippe con il cemento armato tailandese o il design finlandese tardoesistenzialista non sanno neanche che esiste, Pariscope.
Per i trasporti in città la metropolitana è il mezzo migliore in assoluto. Sconsiglio di fare abbonamenti particolari, che sulla carta possono sembrare convenienti ma che poi si rivelano una chiavata: non foss’altro perché a Parigi
è molto bello camminare, i boulevard e i larghi marciapiedi si prestano alla deambulazione open air e va a finire che il tuo abbonamento ti rimane nel culo. Piuttosto prendete i carnet da 10 biglietti, sono comunque convenienti, se ne finisci uno ne prendi un altro e mal che vada ci perdi proprio poco. Idem per le carte dei musei, è vero che risparmi ma per ammortizzarle devi vedere 18 musei in tre giorni, non mi sembra molto sensato. Se fate tardi la sera (verifica l’orario di chiusura della metro) o se volete fare gli sboroni, i taxi sono meno cari di quelli italiani e una comoda alternativa alla metro, molto usati dagli autoctoni.
QUALCHE ITINERARIO
Per tutte le robe più classiche ti leggi la tua bella guida e te la cavi da solo. Io qua ti segnalo qualche itinerario, tradizionale e non, che il bomber Ronda ha percorso più volte e con grande gaudio.
Ile de la CitéParti dal Pont Neuf (ci arrivi con la metro a Chatelet) e ti infili in Place Dauphine, poi ti inoltri sull’isola. Arrivi al Palazzo di Giustizia e vai a vedere (da non perdere per nessuna ragione) la Sainte Chapelle. Esci ammirato. Più avanti trovi Notre Dame, che visiterai anche se devi fare la fila: se ne hai voglia prima o dopo puoi fare una deviazione e far passare un po’ di bouquinistes sulle rive della Senna.

Passi nel giardinetto dietro a ND (guardando la cattedrale, a destra c’è l’ingresso), fai il ponte e approdi all’Ile Saint-Louis: percorri la via centrale, piena di negozietti degni di un’occhiata. A metà circa di quella via, sulla sinistra trovi una bottega che vende il foiegras, entri e ti fai fare un assaggio o meglio ancora un panino, il tutto innaffiato da un bicchiere di bianco. Godi, ringrazi e te ne vai. Arrivato in fondo all’isola San Luigi prendi il Pont de Sully a sx, ti nfili nel boulevard Enrico 4° e per magia ti trovi a place de la Bastille. Occhio che la Bastiglia non c’è da un pezzo. Se vuoi a questo punto puoi tornare indietro prendendo rue de Rivoli, che ha tanti negozi, e così facendo raggiungi l’Hotel de Ville che è sempre un bel vedere. Il tutto, visitando SC e ND e magari fermandosi per un sandwich o sulle bancarelle, ti prenderà una mezza giornata abbondante, quasi intera se te la prendi comoda.
Marais
Puoi partire da place de la Bastille, quindi puoi agganciarti all’itinerario di prima. Arrivi a place des Vosges (altra cosa da non perdere per nessuna ragione), dove ci si può fermare per un panino o per una merenda (c’è un bel parco). Sotto i portici ci sono gallerie d’arte, la casa di Victor Hugo e spesso degli artisti di strada, tendenzialmente musicisti.

Da Place des Vosges entri nel quartiere ebraico: rue des Francs-Bourgeoises, des Rosiers, Vieille du Temple, des Archives ecc, girale a seconda dell’ispirazione del momento. E’ una passeggiata davvero molto bella. Attenzione! All’angolo tra rue des Rosiers e rue des Hospitaliers Saint Gervais trovi due spacciatori di falafel da asporto (uno su rue de Rosiers e uno sull’altra, si chiama Chez Marianne): consiglio fanaticamente un copioso assaggio, li individui dalla coda che si forma fuori. Risolta questa imprescindibile incombenza puoi tornare a passeggiare anche senza meta nel quartiere, non ci sono monumenti o cose particolari da vedere, ma è una zona molto molto bella: l’unica roba ricordati che al sabato gli ebraici hanno la singolare tradizione di non lavorare, quindi potresti trovare i negozi chiusi. C’è pieno di gay, occhio. Cerca di trovare (non è facilissimo) place du Marché S.te Catherine, è piccola e raccolta ed è una sosta ideale per un caffè. Puoi raggiungere in poco tempo il Beaubourg e Les Halles, dove ti consiglio di vedere Saint Eustache, una chiesa maestosa. Giro da tre o quattro ore con doppia sosta per riposino e falafel.
Belleville
Prendi la metro e vai fino a place Gambetta. Da visitare c’è il cimitero del Pere Lachaise, che personalmente amo molto: la visita può prenderti da mezz’ora a tre ore, dipende quanto ti piace starci dentro. Se ci stai dentro tutta la vita vuol dire che eri famoso. Nel quartiere ci sono parecchi localini interessanti, prolifera il cous cous ovviamente, o sennò se cerchi qualcosa di più tradizionale assolutamente da frequentare è il Baratin, un bel bistrot in Jouye Rouve. Finita la visita nel quartiere multietnico per eccellenza, se avete voglia di camminare prendete Avenue Gambetta, poi rue du Chemin Vert e dopo un tre quarti d’ora/un’ora come per incanto siete a Place des Vosges.
Montmarte
Altra visita impedibile. Scendi con la metro a Pigalle (dove c’è il Moulin Rouge), resisti se puoi alle tante tentazioni della carne e ti infili in rue des Abesses poi in place des Abesses. Continui a salire verso sinistra, vedi il Moulin de la Galette, trovi le vigne a cielo aperto e poi svolti verso destra e arrivi in place du Tertre (quella con i pittori ecc.) Da qui al Sacro Cuore è un giuoco da ragazzi. Non salire subito al Sacro Cuore da dove scendi con la metro, preferisci l’itinerario da me consigliato, sennò tanto vale che ti scriva la guida. Sulla scalinata del SC ci sono spesso dei musicisti, e ai piedi della scalinata ci sono negozi di vestiti usati: non so se le due robe sono collegate, ma è così.
Champs-Elysées
Personalmente non amo molto, però parti dal Louvre e ti fai il bel parco delle Tuileries: ci sono un sacco di panchie e seggiole, è un bel posto per mangiare un panino e riposare o far giocare i bambini (infatti c’è pieno di preti). Avanti dritto la maestosa Place de la Concorde e poi l’Arco di Trionfo (a mio avviso non imprescindibile).

Se vuoi dall’Arco puoi tagliare giù, in metro o a piedi, per la Torre Eiffel.
Rive Gauche
Anche qua passeggia pure alla cazzo che non ti sbagli. Le viuzze tipo Rue de la Tarpe o Xavier Privas o de la Huchette sono la parte più animata del Quartiere Latino, ci sono miliardi di ristoranti e bistrot, molto turistico ma divertente. La Fontana Saint-Michel è un punto di ritrovo per i giovani, poi Boulevard Saint Michel e Boulevard Saint Germain sono da fare. In Place St. Germain de Près c’è la chiesa da vedere e soprattutto Les Deux Magots, il Café Flore e la brasserie Lipp, tutti café-bistros storici (Sartre e tutte quelle pippe lì). Cerca una stradina che si chiama Cour de Commerce Saint André, ci entri dal blvd Saint Germain, è molto bella: lì c’è anche il Procope, altro bistrot storico e da visitare. Se la guida ti segnala dei passages in questa zona, provate a farne qualcuno. In ogni caso Quartiere Latino e Saint Germain sono due quartieri eccezionali, pieni di ristoranti e locali, negozi di antiquariato, librerie, artigiani vari, negozi di fumetti e di sigari o cappelli, gallerie eccetera eccetera, è un posto molto vivo, bello da visitare anche senza un itinerario particolare.
E' stata stilata dall'ottimo J in esclusiva per il viaggio della Big's family, in primavera, ma grazie a una serie di inenarrabili sotterfugi CJ è riuscito a entrarne in possesso, in tempo utile per la sua vacanza dello scorso giugno.
E' davvero una miniera di preziosi suggerimenti.
NB: CJ ha tuttora il sospetto che la frase "Gli architetti che si fanno le pippe con il cemento armato tailandese o il design finlandese tardoesistenzialista non sanno neanche che esiste, Pariscope" possa essere in qualche modo indirizzata a lui.
PREMESSA
L’imporante è partire bene, quindi prendi in edicola l’ultimo numero di Pariscope, costerà un euro: è un settimanale dove trovi tutte le informazioni su musei, gallerie, mostre, concerti, appuntamenti, teatro, spettacoli, eventi, orari, prezzi ecc. In più ogni settimana trovi un lungo elenco di ristoranti parigini, divisi per zona e per tipo di cucina, con prezzi, indirizzo, orari e telefono, più una piccola scheda. Pariscope è utilissimo e differenzia il turista intelligente dal turista pirla. Gli architetti che si fanno le pippe con il cemento armato tailandese o il design finlandese tardoesistenzialista non sanno neanche che esiste, Pariscope.
Per i trasporti in città la metropolitana è il mezzo migliore in assoluto. Sconsiglio di fare abbonamenti particolari, che sulla carta possono sembrare convenienti ma che poi si rivelano una chiavata: non foss’altro perché a Parigi
è molto bello camminare, i boulevard e i larghi marciapiedi si prestano alla deambulazione open air e va a finire che il tuo abbonamento ti rimane nel culo. Piuttosto prendete i carnet da 10 biglietti, sono comunque convenienti, se ne finisci uno ne prendi un altro e mal che vada ci perdi proprio poco. Idem per le carte dei musei, è vero che risparmi ma per ammortizzarle devi vedere 18 musei in tre giorni, non mi sembra molto sensato. Se fate tardi la sera (verifica l’orario di chiusura della metro) o se volete fare gli sboroni, i taxi sono meno cari di quelli italiani e una comoda alternativa alla metro, molto usati dagli autoctoni.
QUALCHE ITINERARIO
Per tutte le robe più classiche ti leggi la tua bella guida e te la cavi da solo. Io qua ti segnalo qualche itinerario, tradizionale e non, che il bomber Ronda ha percorso più volte e con grande gaudio.
Ile de la CitéParti dal Pont Neuf (ci arrivi con la metro a Chatelet) e ti infili in Place Dauphine, poi ti inoltri sull’isola. Arrivi al Palazzo di Giustizia e vai a vedere (da non perdere per nessuna ragione) la Sainte Chapelle. Esci ammirato. Più avanti trovi Notre Dame, che visiterai anche se devi fare la fila: se ne hai voglia prima o dopo puoi fare una deviazione e far passare un po’ di bouquinistes sulle rive della Senna.

Passi nel giardinetto dietro a ND (guardando la cattedrale, a destra c’è l’ingresso), fai il ponte e approdi all’Ile Saint-Louis: percorri la via centrale, piena di negozietti degni di un’occhiata. A metà circa di quella via, sulla sinistra trovi una bottega che vende il foiegras, entri e ti fai fare un assaggio o meglio ancora un panino, il tutto innaffiato da un bicchiere di bianco. Godi, ringrazi e te ne vai. Arrivato in fondo all’isola San Luigi prendi il Pont de Sully a sx, ti nfili nel boulevard Enrico 4° e per magia ti trovi a place de la Bastille. Occhio che la Bastiglia non c’è da un pezzo. Se vuoi a questo punto puoi tornare indietro prendendo rue de Rivoli, che ha tanti negozi, e così facendo raggiungi l’Hotel de Ville che è sempre un bel vedere. Il tutto, visitando SC e ND e magari fermandosi per un sandwich o sulle bancarelle, ti prenderà una mezza giornata abbondante, quasi intera se te la prendi comoda.
Marais
Puoi partire da place de la Bastille, quindi puoi agganciarti all’itinerario di prima. Arrivi a place des Vosges (altra cosa da non perdere per nessuna ragione), dove ci si può fermare per un panino o per una merenda (c’è un bel parco). Sotto i portici ci sono gallerie d’arte, la casa di Victor Hugo e spesso degli artisti di strada, tendenzialmente musicisti.

Da Place des Vosges entri nel quartiere ebraico: rue des Francs-Bourgeoises, des Rosiers, Vieille du Temple, des Archives ecc, girale a seconda dell’ispirazione del momento. E’ una passeggiata davvero molto bella. Attenzione! All’angolo tra rue des Rosiers e rue des Hospitaliers Saint Gervais trovi due spacciatori di falafel da asporto (uno su rue de Rosiers e uno sull’altra, si chiama Chez Marianne): consiglio fanaticamente un copioso assaggio, li individui dalla coda che si forma fuori. Risolta questa imprescindibile incombenza puoi tornare a passeggiare anche senza meta nel quartiere, non ci sono monumenti o cose particolari da vedere, ma è una zona molto molto bella: l’unica roba ricordati che al sabato gli ebraici hanno la singolare tradizione di non lavorare, quindi potresti trovare i negozi chiusi. C’è pieno di gay, occhio. Cerca di trovare (non è facilissimo) place du Marché S.te Catherine, è piccola e raccolta ed è una sosta ideale per un caffè. Puoi raggiungere in poco tempo il Beaubourg e Les Halles, dove ti consiglio di vedere Saint Eustache, una chiesa maestosa. Giro da tre o quattro ore con doppia sosta per riposino e falafel.
Belleville
Prendi la metro e vai fino a place Gambetta. Da visitare c’è il cimitero del Pere Lachaise, che personalmente amo molto: la visita può prenderti da mezz’ora a tre ore, dipende quanto ti piace starci dentro. Se ci stai dentro tutta la vita vuol dire che eri famoso. Nel quartiere ci sono parecchi localini interessanti, prolifera il cous cous ovviamente, o sennò se cerchi qualcosa di più tradizionale assolutamente da frequentare è il Baratin, un bel bistrot in Jouye Rouve. Finita la visita nel quartiere multietnico per eccellenza, se avete voglia di camminare prendete Avenue Gambetta, poi rue du Chemin Vert e dopo un tre quarti d’ora/un’ora come per incanto siete a Place des Vosges.
Montmarte
Altra visita impedibile. Scendi con la metro a Pigalle (dove c’è il Moulin Rouge), resisti se puoi alle tante tentazioni della carne e ti infili in rue des Abesses poi in place des Abesses. Continui a salire verso sinistra, vedi il Moulin de la Galette, trovi le vigne a cielo aperto e poi svolti verso destra e arrivi in place du Tertre (quella con i pittori ecc.) Da qui al Sacro Cuore è un giuoco da ragazzi. Non salire subito al Sacro Cuore da dove scendi con la metro, preferisci l’itinerario da me consigliato, sennò tanto vale che ti scriva la guida. Sulla scalinata del SC ci sono spesso dei musicisti, e ai piedi della scalinata ci sono negozi di vestiti usati: non so se le due robe sono collegate, ma è così.
Champs-Elysées
Personalmente non amo molto, però parti dal Louvre e ti fai il bel parco delle Tuileries: ci sono un sacco di panchie e seggiole, è un bel posto per mangiare un panino e riposare o far giocare i bambini (infatti c’è pieno di preti). Avanti dritto la maestosa Place de la Concorde e poi l’Arco di Trionfo (a mio avviso non imprescindibile).

Se vuoi dall’Arco puoi tagliare giù, in metro o a piedi, per la Torre Eiffel.
Rive Gauche
Anche qua passeggia pure alla cazzo che non ti sbagli. Le viuzze tipo Rue de la Tarpe o Xavier Privas o de la Huchette sono la parte più animata del Quartiere Latino, ci sono miliardi di ristoranti e bistrot, molto turistico ma divertente. La Fontana Saint-Michel è un punto di ritrovo per i giovani, poi Boulevard Saint Michel e Boulevard Saint Germain sono da fare. In Place St. Germain de Près c’è la chiesa da vedere e soprattutto Les Deux Magots, il Café Flore e la brasserie Lipp, tutti café-bistros storici (Sartre e tutte quelle pippe lì). Cerca una stradina che si chiama Cour de Commerce Saint André, ci entri dal blvd Saint Germain, è molto bella: lì c’è anche il Procope, altro bistrot storico e da visitare. Se la guida ti segnala dei passages in questa zona, provate a farne qualcuno. In ogni caso Quartiere Latino e Saint Germain sono due quartieri eccezionali, pieni di ristoranti e locali, negozi di antiquariato, librerie, artigiani vari, negozi di fumetti e di sigari o cappelli, gallerie eccetera eccetera, è un posto molto vivo, bello da visitare anche senza un itinerario particolare.
lunedì 17 agosto 2009
E noi che pensavamo di passarcela male, da quando abbiamo letto che a Pordenone, prodondo nord-est, sono stati vietati gli assembramenti di due persone nel centro cittadino (in quanto potrebbero ostacolare, per qualche genio, ostacolare la fruizione degli spazi pubblici da parte di altri cittadini).
Tuttavia, non va meglio negli States, dove non si può piu' nemmeno passeggiare sotto la pioggia...
da: Corriere.it:
Girava per la città sotto la pioggia, senza documenti in tasca. A un certo punto si è avvicinato a una casa in vendita per sbirciare dalle finestre. Qualcuno, insospettito da un comportamento giudicato un po' strano, ha chiamato la polizia e così quel «losco figuro» è stato caricato su un'automobile e riportato in hotel. Una volta in albergo, la poliziotta 24enne che lo aveva accompagnato si è trovata però di fronte a una sorpresa: quello che credeva solo un «vecchio eccentrico» era davvero Bob Dylan.
L'episodio è avvenuto lo scorso luglio a Long Branch, in New Jersey. Lo rivela la Cnn. È stata Kristie Buble ad avvicinarsi a Dylan e a chiedergli il suo nome. Ma il cantante non aveva documenti e così l'agente non gli ha creduto. E ha deciso di scortarlo fino all'hotel dove Dylan ha potuto dimostrare finalmente la sua identità. L'artista, riferisce la polizia, sembra aver preso bene l’incidente e, alla domanda perché se ne stesse sotto la pioggia, ha risposto: «Avevo voglia di una passeggiata».
sabato 15 agosto 2009
giovedì 13 agosto 2009
Le cose piu' strane accadono sul web.
Sono lì che navigo a casaccio tra siti musicali quando all'improvviso mi imbatto in un portale dedicato a Leonard Cohen. Curiosando un pò, scopro che qui vengono catalogate tutte le recensioni on-line ai dischi del grande cantautore canadese.
Sorpresa delle sorprese, c'è anche la nostra di PcSera, per di piu' con traduzione (lievemente maccheronica, per la verità) in inglese!
http://www.webheights.net/speakingcohen/main.htm

Sono lì che navigo a casaccio tra siti musicali quando all'improvviso mi imbatto in un portale dedicato a Leonard Cohen. Curiosando un pò, scopro che qui vengono catalogate tutte le recensioni on-line ai dischi del grande cantautore canadese.
Sorpresa delle sorprese, c'è anche la nostra di PcSera, per di piu' con traduzione (lievemente maccheronica, per la verità) in inglese!
http://www.webheights.net/speakingcohen/main.htm


mercoledì 12 agosto 2009
Questa rubrica va in ferie un paio di settimane, non prima di segnalarvi un simpatico listone di suggerimenti per l’estate.
Il primo disco che ci viene in mente – non necessariamente il piu’ bello; anzi, sì – è il secondo parto solista di Bill Callahan, intitolato “Sometimes I Wish We Were An Eagle”. L’ex-leader dei seminali Smog compone brani acustici di bellezza sontuosa ed estrema delicatezza; ricordiamo, tra essi, “The Wind And The Dove” e la terminale, ripetitiva e ossessionante “Faith Void”.
Tra i cantautori, in attesa di ascoltare il nuovo Scott Matthews (una delle rivelazioni dell’anno passato), ottimi Stephen Wilson (“Insurgentes”), Patrick Wolf (“The Bachelor”, un’opera eclettica che mescola con sapienza un’impostazione classica, elettronica e barocchismi dandy) e Steve Earle.
Quest’ultimo, ovvero uno dei vecchi maestri ancora in libera circolazione, dedica un intero album di cover a quel folk-writer straordinario che è stato Townes Van Zandt (l’idea non è nuova, recentemente l’ha fatto Springsteen con Pete Seeger).
Van Zandt è apprezzato anche dai Lemonheads, che a loro volta inseriscono in un disco di sole cover (“Varshons”) la sua “Waiting Around To Die” (tra gli altri brani “Hey, That’s No Way To Say Goodbye” di Cohen, “Beautiful” di Linda Parry – nota al grande pubblico nella versione di Christina Aguilera – e poi Wire e Gram Parsons).
Deludente, invece, il nuovo lavoro di Bonnie Prince Billy (“Beware”), ex-cantante Palace Brothers: stanco e ripetitivo.
Capitolo bands. Le nostre preferenze vanno ai mancuniani Doves (“Kingdome Of Rust” probabilmente non è un capolavoro ma è una raccolta di ottimi brani, assai ben curati e dal sound originale, tra i quali – oltre alla title-track – si distinguono “Winter Hill” e “Birds Flew Backwards”), ai graziosi Grizzly Bear (“Veckatimest”, consigliato ai fan sfegatati dei Beach Boys), agli eterei e riflessivi Great Lake Swimmers (“Lost Channels”) e ai sorprendenti Cheer Accident (“Fear Draws Misfortune”), da Chicago, USA, autori di un indie-prog palesemente ispirato alla grande tradizione del progressive britannico ’70 (King Crimson e soprattutto Van Der Graaf Generator), oltre che al free-jazz della Scuola di Canterbury (Gong e Soft Machine).
Per i patiti dell’elettronica, una citazione d’obbligo per Dj Sprinkles (“Midtown 120 Blues”) e per il drone-metal dei Sunn O))) (“Monolyths & Dimensions”); mentre l’ennesimo Tortoise (“Beacons Of Ancestorship”) ci lascia tutto sommato indifferenti.
Spostandoci in altri territori geografici, sono piaciuti assai il duo portoghese ambient dei Gala Drop (“Gala Drop”, che tuttavia in patria dovrebbe essere uscito nel 2008), i 17 Hippies (“El Dorado”), fricchettoni berlinesi berlinesi fricchettoni sponsorizzati dall’amico Gigio, e infine Mulatu Astatke & The Heliocentrics (“Inspiration Information”), lo strambo e proficuo incontro tra il re del Jazz etiope e una straordinaria band elettro-funky.
Restando in Italia, molto interessanti i sardi Zu (“Carboniferous”) e Dente (“L’Amore Non E’ Bello”).
Buon ascolto.
Il primo disco che ci viene in mente – non necessariamente il piu’ bello; anzi, sì – è il secondo parto solista di Bill Callahan, intitolato “Sometimes I Wish We Were An Eagle”. L’ex-leader dei seminali Smog compone brani acustici di bellezza sontuosa ed estrema delicatezza; ricordiamo, tra essi, “The Wind And The Dove” e la terminale, ripetitiva e ossessionante “Faith Void”.
Tra i cantautori, in attesa di ascoltare il nuovo Scott Matthews (una delle rivelazioni dell’anno passato), ottimi Stephen Wilson (“Insurgentes”), Patrick Wolf (“The Bachelor”, un’opera eclettica che mescola con sapienza un’impostazione classica, elettronica e barocchismi dandy) e Steve Earle.
Quest’ultimo, ovvero uno dei vecchi maestri ancora in libera circolazione, dedica un intero album di cover a quel folk-writer straordinario che è stato Townes Van Zandt (l’idea non è nuova, recentemente l’ha fatto Springsteen con Pete Seeger).
Van Zandt è apprezzato anche dai Lemonheads, che a loro volta inseriscono in un disco di sole cover (“Varshons”) la sua “Waiting Around To Die” (tra gli altri brani “Hey, That’s No Way To Say Goodbye” di Cohen, “Beautiful” di Linda Parry – nota al grande pubblico nella versione di Christina Aguilera – e poi Wire e Gram Parsons).
Deludente, invece, il nuovo lavoro di Bonnie Prince Billy (“Beware”), ex-cantante Palace Brothers: stanco e ripetitivo.
Capitolo bands. Le nostre preferenze vanno ai mancuniani Doves (“Kingdome Of Rust” probabilmente non è un capolavoro ma è una raccolta di ottimi brani, assai ben curati e dal sound originale, tra i quali – oltre alla title-track – si distinguono “Winter Hill” e “Birds Flew Backwards”), ai graziosi Grizzly Bear (“Veckatimest”, consigliato ai fan sfegatati dei Beach Boys), agli eterei e riflessivi Great Lake Swimmers (“Lost Channels”) e ai sorprendenti Cheer Accident (“Fear Draws Misfortune”), da Chicago, USA, autori di un indie-prog palesemente ispirato alla grande tradizione del progressive britannico ’70 (King Crimson e soprattutto Van Der Graaf Generator), oltre che al free-jazz della Scuola di Canterbury (Gong e Soft Machine).
Per i patiti dell’elettronica, una citazione d’obbligo per Dj Sprinkles (“Midtown 120 Blues”) e per il drone-metal dei Sunn O))) (“Monolyths & Dimensions”); mentre l’ennesimo Tortoise (“Beacons Of Ancestorship”) ci lascia tutto sommato indifferenti.
Spostandoci in altri territori geografici, sono piaciuti assai il duo portoghese ambient dei Gala Drop (“Gala Drop”, che tuttavia in patria dovrebbe essere uscito nel 2008), i 17 Hippies (“El Dorado”), fricchettoni berlinesi berlinesi fricchettoni sponsorizzati dall’amico Gigio, e infine Mulatu Astatke & The Heliocentrics (“Inspiration Information”), lo strambo e proficuo incontro tra il re del Jazz etiope e una straordinaria band elettro-funky.
Restando in Italia, molto interessanti i sardi Zu (“Carboniferous”) e Dente (“L’Amore Non E’ Bello”).
Buon ascolto.
venerdì 7 agosto 2009
QUASI COME KEROUAC, 09

July, 26th - SECONDA PARTE
Andiamo verso nord.
Niente foresta pietrificata, dunque. Nella nostra scelta, ci aiuta l'addetto al Tourist Information di Winslow, che conferma l'esistenza - poco piu' a nord di Second Mesa - di un piccolo villaggio Hopi fondato nel XXI secolo dC e abitato sino a noi senza soluzione di continuità.
Il Plateau è un affascinante distesa arida.
(Many a hand has scaled the grand old face of the plateau/Some belong to strangers and some to folks you know/Holy ghosts and talk show hosts are planted in the sand
To beautify the foothills and shake the many hands /There's nothing on the top but a bucket and a mop/And an illustrated book about birds/You see a lot up there but don't be scared/Who needs action when you got words)
Quà e là, scarse macchie di vegetazione spontanea.
Non a caso, il nome Navajo (o Navaho) - ovvero la tribu' che abita queste terre tra gli Stati dell'Utah, Arizona e New Mexico - deriva dal termine Navahuu che in lingua Tewa, parlata da alcune popolazioni del sud ovest, significa "Campo coltivato in un piccolo corso d'acqua".
I circa 250.000 Navajo sopravvissuti ai terribili genocidi dell'Ottocento - a oggi essi costituiscono il gruppo etnico più numeroso fra i nativi americani - vivono nelle baracche prefabbricate che costeggiano la strada, allucinanti container metallici spesso costruiti con resti di materiale radioattivo. Nel corso degli anni, i minatori Navaho hanno infatti estratto milioni di tonnellate di uranio dal terreno, necessari agli USA per la produzione di armi. Molti di loro sono morti a causa di malattie correlate alle radiazioni. Altri, ignari delle conseguenze per la salute, hanno utilizzato le pietre contaminate e gli scarti del materiale estratto per costruire le loro case.
(Oggi, un programma del Governo prevede la demolizione e la ricostruzione di queste abitazioni e l’identificazione di tutte le strutture contaminate dall’uranio ancora presenti in queste lande desolate. A coloro invece che decidono di trasferirsi altrove, il governo offre 50.000 dollari. Che Signori.)
Leggiamo sulla guida che a loro si ispira il fumetto Tex Willer. La cosa non mi emoziona. Mai letto, Tex Willer.
Lo spazio che ci circonda è infinitamente grande.
Ovunque giri lo sguardo, il paesaggio è maestoso, incombente.
Forse il segreto del fascino di queste terre, del mito di "On The Road" di Kerouac e seguaci, è tutto qui.
Ormai svuotato di contenuti ribellistici, di evasione dal consueto e dall'ovvio, si è ridotto a una questione puramente dimensionale.
Eppure il mito resiste.
Lo senti sulla pelle, percorrendo queste strade rettilinee che si perdono all'orizzonte.
Da un momento all'altro, mentre percorriamo la Statale 264 in direzione First Mesa, potremmo veder sbucare fuori Kowalski, l'ultimo eroe americano, a bordo della Dodge Challenger R/T bianca del 1970, motore 440/375 HP.
A mezzogiorno il sole è alto e picchia forte.
Una ragazza Hopi ci apre la porta dei villaggi di Hano, Sichomovi e Walpi, arrampicati su un costone di roccia da cui si dominava l'intera valle.
Quanto lontana è lei dallo stereotipo del guerriero coraggioso. E' minuta e graziosa, con un sorriso allo stesso tempo dolce e fiero. La riserva degli Hopi si trova all'interno della Nazione Navajo, ci spiega. La vita del villaggio si basa essenzialmente sulla coltivazione del mais, della zucca, dei fagioli e del melone. E anche su qualche furto o qualche razzìa su commissione, aggiunge sorridendo. Noi abbozziamo, forse per esprimere la nostra complicità. Poi ci accompagna tra le piccole case di argilla con i tetti di paglia e fascine, tenute insieme con tronchi d'albero opportunamente sagomati. I pavimenti sono vecchi materassi ingialliti semplicemente appoggiati sulla terra rossa. La polvere si alza dapperutto, e avvolge lamiere arrugginite, videogames rotti, bottiglie di plastica, paccottiglia varia. Sembra di essere in una discarica all'aperto. E' qui che arrivano i rifiuti e gli scarti dell'Occidente?, mi chiedo. Un anziano e saggio Hopi mi avvicina e mi dice, con un inglese stentato: un giorno gli Yankees saranno seppelliti dai loro stessi rifiuti, vittime del loro sfrenato consumismo, e allora questa terra tornerà a essere nostra. Cazzo, quest'uomo è un genio. Deve aver letto Ballard, mi dico.
Un cane zoppo attraversa il campo, arrancando per il caldo asfissinate.
Altri cani rimangono sdraiati in mezzo agli stradelli del villaggio.
Alcuni bambini - avranno sì e no sei-sette anni - giocano a fare gli indiani, con le piume colorate, l'arco e le frecce. Curiosa, come cosa. Mi viene da pensare: chissà se lo fanno spontaneamente, o se sono costretti a recitare uno stanco e ritrito copione per noi turisti: per noi turisti della miseria e della rassegnazione.
Dio dei Navaho, fai che sia la prima che ho detto.
sabato 1 agosto 2009
Cosa centra Manson?

Il dubbio è piu’ che lecito.
La scelta del nome, tanto per cominciare.
Linda Kasabian era una seguace di Charles Manson. La notte del 9 agosto 1969 faceva il palo, mentre altri tre adepti della famigerata “Family” entravano nella villa di Roman Polanski a Cielo Drive per assassinare senza alcun motivo l’attrice Sharon Tate, moglie del regista di origine polacca, e altre quattro persone.
Solo che la musica dei ragazzi di Leicester non ha nulla di perverso o diabolico.
Il titolo dell’album, poi.
“West Rider Pauper Lunatic Asylum” allude ad un noto ex-istituto psichiatrico inglese. Il leader del gruppo Sergio Pizzorno, di chiara origine genovese, ha spiegato che aveva in mente un concept album in stile seventies, tipo “Tommy” dei Who o “Arthur” dei Kinks per intenderci, dove ogni brano doveva riferirsi a un ospite del manicomio. Soltanto che il progetto si è strada facendo un po’ annacquato, e l’unica cosa rimasta è la cover del disco, sulla quale i quattro sono vestiti da Napoleone, Rasputin, Marco Polo e da rivoluzionario con la bandana tipo il Silvio: forse qui c’è persino un po’ di sana autocritica, i Kasabian si sono sempre distinti – in questo (e altro) degni allievi degli Oasis, che perlatro non perdono occasione per osannarli: da anni i fratelli Gallagher vanno dicendo che i Kasabian sono il meglio che l'indie-rock britannico può oggi offrire – per le loro dichiarazioni da sboroni sfacciati e arroganti.
Chi non ha alcun dubbio è il pubblico inglese, che in una sola settimana ha spinto il terzo album della band direttamente al primo posto delle charts.
A noi di PiacenzaSera qualche piccolo dubbio, invece, resta.
Non mancano i pezzi riempipista di robusta dance, tra Primal Scream e Chemical Brothers (la notevole “Undergdog”, “Fast Fuse” e “Vlad The Impaler”: meglio non provare a tradurre…) , così come le ballate in stile brit-pop (la old-style “Thick As Thieves”, “Happiness”, tra Beatles e Stones, e la dolce “Ladies And Gentlemen”), e nemmeno l’elettronica d’atmosfera, di ispirazione ambient (“Secret Alphabets”, lo strumentale “Swarfiga”, e la notevole “Where Did All the Love Go?”, che a noi fa venire in mente, chissà perchè, i T.Rex di Marc Bolan).
E infine c’è un singolo riuscitissimo, “Fire”, quasi blues.
Di piu’: il disco suona bene, è tecnicamente perfetto, senza sbavature.
Insomma, questi Kasabian sanno fare un po’ di tutto.
Pure troppo.
Bravi e furbi, questi Kasabian.
giovedì 16 luglio 2009
I dinosauri non si sono estinti
Poche storie: “Farm” è un disco bellissimo, ancor piu’ bello perché non ce lo aspettavamo proprio.
La riunion di questa storica band, alfiere del noisy-rock anni ’90, aveva infatti avuto in “Beyond” – uscito due anni fa, a sette di distanza dall’album precedente - un risultato poco convincente, discontinuo e poco ispirato, come spesso accade in casi come questi.
Stavolta è tutta un’altra storia.
I dinosauri sono tornati con la consueta prepotenza e gli ingredienti che li hanno resi grandi: solidi muri di chitarre e scariche violente di amplificatori, che nascondono melodie piacevoli, rese talvolta struggenti dalla voce trascinata di un J. Mascis indolente e apparentemente svogliato come ai bei tempi.
L’ottima “Pieces”, in apertura, è una sorta di “Freak Scene” del terzo millennio, mentre “I Want You To Know”, “See You” e “I Don't Wanna Go There” sembrano quasi outtakes da “Where You Been” (avercene…).
Tra i brani migliori, la languida ballad “Said The People” e soprattutto “Plans”, che potrebbe far parte del repertorio del miglior Neil Young elettrico.
Trova il meritato spazio anche Lou Barlow, novello figliol prodigo, che firma la faticosa “Your Weather” e soprattutto la conclusiva, splendida, “Imagination blind”. Entrambe in puro stile Sebadoh.
Inutile lamentarsi che i dischi dei Dinosaur Jr sono tutti uguali.
Loro sono i soliti cazzoni: prendere o lasciare.
Ricordo che, all’apice della sua fortuna, J.Mascis raccontava - nelle rare interviste che concedeva -di passare tutto il suo tempo davanti a Mtv, strimpellando qualche accordo di chitarra e bevendo pinte di birra: la critica specializzata aveva finito per eleggerlo a simbolo della Generazione X, apatica e disinteressata alle cose del mondo.
Ancora oggi, nello sgargiante video del primo singolo “Over It” (http://www.youtube.com/watch?v=TgTJtdn6VjM), i nostri eroi si divertono a fare gli eterni adolescenti, saltando idranti e panchine di cemento con skate e mtb, ruzzolando rovinosamente a terra, sotto lo sguardo incredulo di un agente di polizia.

Forse J.Mascis, con la sua lunga criniera bianca e un discreto addome, a qualcuno può anche apparire patetico. Noi, alla fine dei conti, apprezziamo la sua ironia (non siamo i soli: “best fat old men video ever!” è il commento di un anonimo internauta…), tra i troppi chi si prendono troppo sul serio (e il troppo stroppia).
La riunion di questa storica band, alfiere del noisy-rock anni ’90, aveva infatti avuto in “Beyond” – uscito due anni fa, a sette di distanza dall’album precedente - un risultato poco convincente, discontinuo e poco ispirato, come spesso accade in casi come questi.
Stavolta è tutta un’altra storia.
I dinosauri sono tornati con la consueta prepotenza e gli ingredienti che li hanno resi grandi: solidi muri di chitarre e scariche violente di amplificatori, che nascondono melodie piacevoli, rese talvolta struggenti dalla voce trascinata di un J. Mascis indolente e apparentemente svogliato come ai bei tempi.
L’ottima “Pieces”, in apertura, è una sorta di “Freak Scene” del terzo millennio, mentre “I Want You To Know”, “See You” e “I Don't Wanna Go There” sembrano quasi outtakes da “Where You Been” (avercene…).
Tra i brani migliori, la languida ballad “Said The People” e soprattutto “Plans”, che potrebbe far parte del repertorio del miglior Neil Young elettrico.
Trova il meritato spazio anche Lou Barlow, novello figliol prodigo, che firma la faticosa “Your Weather” e soprattutto la conclusiva, splendida, “Imagination blind”. Entrambe in puro stile Sebadoh.
Inutile lamentarsi che i dischi dei Dinosaur Jr sono tutti uguali.
Loro sono i soliti cazzoni: prendere o lasciare.
Ricordo che, all’apice della sua fortuna, J.Mascis raccontava - nelle rare interviste che concedeva -di passare tutto il suo tempo davanti a Mtv, strimpellando qualche accordo di chitarra e bevendo pinte di birra: la critica specializzata aveva finito per eleggerlo a simbolo della Generazione X, apatica e disinteressata alle cose del mondo.
Ancora oggi, nello sgargiante video del primo singolo “Over It” (http://www.youtube.com/watch?v=TgTJtdn6VjM), i nostri eroi si divertono a fare gli eterni adolescenti, saltando idranti e panchine di cemento con skate e mtb, ruzzolando rovinosamente a terra, sotto lo sguardo incredulo di un agente di polizia.

Forse J.Mascis, con la sua lunga criniera bianca e un discreto addome, a qualcuno può anche apparire patetico. Noi, alla fine dei conti, apprezziamo la sua ironia (non siamo i soli: “best fat old men video ever!” è il commento di un anonimo internauta…), tra i troppi chi si prendono troppo sul serio (e il troppo stroppia).
mercoledì 8 luglio 2009
Questo meravilglioso, piccolo e ottuso angolo di mondo

Arrivo in paese nel tardo pomeriggio.
C'è un afa pazzesca.
Una nuvola di vapore sale dall'asfalto bollente.
I grilli cantano della grossa, nel bel mezzo dei campi di grano dorato, e neppure le cicale se ne stanno zitte. Un frastuono terrificante.
Per raggiungere la piazza è un'Odissea.
Davanti a me ho una vecchia Panda 4x4 - qui tutti hanno almeno una Panda 4x4, in pratica è un requisito per ottenere la residenza: nel mio caso qualcuno ha chiuso un occhio - che avanza come fosse un somaro, con passo lento e andatura costante.
Al volante c'è un uomo col cappello. Starà andando ai trenta all'ora, non di più. Impossibile superarlo, la strada è stretta e piena di buche. Mi fa venire in mente lo zio Cecco, da Carpaneto. Erano anni che usava la sua Ritmo, color carta di zucchero e con i parafanghi in tinta carrozzeria, solo nel fine settimana. Un giorno sua sorella, sentendo gli sforzi del motore in terza sulla provinciale, era sabato mattina e stavano andando al mercato giu' in città, gli disse:
Cecco, perchè non metti la quarta?
Perchè? C'è anche la quarta?
Lascio l'auto nei pressi della nuova lottizzazione, dove le nuove villette con i loro archetti in calcestruzzo nascono come funghi, che non per tutti sono commestibili.
Al campo giochi l'erba è talmente alta che i piu' piccoli potrebbero perdersi.
Ci sono auto abbandonate ovunque. L'anarchia dei parcheggi è una nota dolente.
Anni fa un consigliere comunale arrivò per protesta a dimettersi - bei tempi - perchè qualcuno aveva tolto la rimozione forzata davanti al cippo dei partigiani, uno di quei cippi dove ancora puoi leggere frasi tipo: "caduti in cento epiche battaglie". Che poi, eccesso di retorica a parte, suonano davvero bene.
Anche quest'anno è estate, e la tranquillità è andata a farsi benedire.
Il paese, da poco uscito dal lungo torpore invernale, è stato improvvisamente invaso da una moltitudine di terrificanti umanoidi in tuta di cuoio nera, bandana al collo, rayban d'ordinanza e fronte perlata di sudore, in sella alle loro rombanti e scintillanti motociclette dalle marmitte cromate. Stazionano sotto la topia in canette di bambu' del bar in piazza, guardandosi attorno soddisfatti, con una pinta di birra in mano. Sembrano esponenti di una qualche setta satanica. A me un pò fanno paura, cazzo. Scommetto che ogni tanto buttano l'occhio per controllare che nessuno osi sfiorare le carrozzerie tirate a lucido dei loro mostri metallici.
Oddio, l'accoglienza per loro è piuttosto tiepida.
Qui ai villeggianti mica li attendono al varco con un comitato d'accoglienza e la banda di ottoni che suona una marcetta trionfale. Mica gli srotolano davanti ai piedi un tappetino rosso.
Gli va bene se li sopportano. Con malcelata riluttanza, come direbbe Lupo Alberto.
La leggenda narra che un oste della zona, non ricordo bene di quale frazione, apostrofò una coppia di milanesi - colpevoli di essere stati forse un pò pignoli nelle ordinazioni - con una frase che suonava più o meno così: ma con tutti i posti che c'erano da Milano fino a qui, ma proprio da me dovevate venire a rompere le balle?
Su un bellissimo muro in sassi e mattoni che costeggia le case che si spingono verso il fiume, sono stati affissi i manifesti per la convocazione dei comizi elettorali. Si sfidano quattro contendenti sindaci, tutti e quattro piu' o meno con lo stesso programma, divisi per lo piu' da rancori e inutili personalismi (nulla di cui stupirsi, dalle nostre parti per fare il presidente della Pro loco c'è chi sarebbe disposto a vendere la madre).
Tutti e quattro contro il parco del Trebbia, ovvio.
Qui, se qualcuno sente la parola parco, tirano fuori la pistola.
Sono peggio di Goebbels.
Dall'altra parte della strada, vedo un gruppetto di bambini dirigersi dal benzinaio per farsi gonfiare il pallone di cuoio.
Una scena d'altri tempi, che giaceva nascosta in qualche interstizio remoto della mia memoria. Una scena che mi ripaga della mia scelta di venire a vivere in questo piccolo, meraviglioso e ottuso angolo di mondo.
Oddio (e due), noi qui siamo stati accolti bene, superata una fase di diffidenza iniziale, insita nel DNA quasi montanaro.
E' gente che non si tira indietro, questa: se hai bisogno di qualcosa, puoi stare certo che si fanno in quattro per aiutarti.
Mi ricordo i primi tempi, le riunioni della sezione del partito - quando il partito era il partito, le sezioni si chiamavano ancora sezioni, e non circoli, quando non erano ancora in mano agli stupratori seriali - che facevamo in un ripostiglio della scuola media, senza finestre, seduti su vecchie cattedre accatastate con gente che fumava una sigaretta dietro l'altra. Non si respirava, cazzo. A turno, si usciva a prendere una boccata d'aria e poi si rientrava nello stanzino, come dei sub a corto di bombole. Si discuteva, Cristo, si discuteva anche animatamente, ma alla fine una soluzione si trovava.
E' stato proprio lì che ho fatto le mie prime amicizie, in paese.
Passo davanti al circolo Anspi, prorpio di fianco all'insegna dell'idraulico, un'enorme insegna al neon fuori scala che si accende a intermittenza.
Ci sono quattro vecchi seduti al tavolo che giocano a carte. Altri, in piedi, fanno da capannello e ogni tanto scuotono la testa, in segno di disapprovazione.
Porcamadonna, ma gioca il tre, no, cosa lo tieni in mano da fare?
Cosa dici gioca il tre! Ma se l'asso è ancora fuori, asino che non sei altro!
E tu prova lo stesso, coglione.
Ma cosa devo provare, d'un locco compagno...
Le carte finiscono presto rovesciate sul tavolo.
C'è da ordinare un altro giro di ortrugo frizzante, per sedare un pò gli animi.
Mi piacerebbe conoscerli tutti, questi arzilli vecchietti con le gote arrossate e il vestito della festa. A loro modo, sono dei personaggi famosi, in paese. Delle vere e proprie istituzioni. In questi anni ho ascoltato decine di racconti e di aneddoti, ma l'unico che mi viene in mente, adesso, è questo: c'è un tipo sempre brillo che è a casa di amici a giocare alle carte, all'improvviso si alza dal tavolo e dice: bon, io vado a pisciare e poi si inoltra nel corridoio; la moglie del padrone di casa lo insegue per anticiparlo e per mettere un pò a posto il casino che il marito gli lascia sempre in bagno, ma il tipo, iniziando a orinare su un tappeto nel bel mezzo del corridoio, le dice: non disturbarti, donna, piscio qui.
E intanto la briscola riparte, e volano ancora dei porcodio.
Qui non ci fa piu' caso nessuno, neanche il prete, che poi tra parentesi arriva da Milano e non se lo fila nessuno.
E poi, finalmente, tornerà l'autunno, e la calma tornerà a regnare.
Delle sagre e delle feste agostane rimarranno solo echi sfuggenti, la pedana metallica per ballare il liscio da smontare e qualche chiazza di olio frusto, e di grasso di carne di maiale, sulle lastre di pietra di Luserna della piazza del borgo antico.
domenica 5 luglio 2009
Ai Sonic Youth dovrebbe essere consegnato il grammy della sfortuna.
Furono, davvero, uno dei grandi gruppi degli anni Ottanta, forse il piu’ grande. Il loro Daydream Nation (1988) è da tutti considerato una pietra miliare della storia del rock, un’opera seminale per il movimento indie e del noise-rock in generale.
Purtroppo, arrivarono troppo presto - gli uomini sbagliati al momento sbagliato - e altri raccolsero i frutti, dal punto di vista commerciale, del loro immenso lavoro. I Nirvana di Nevermind, ad esempio, con i quali girarono gli States in tournee (1991: the year that punk broke).
E’ vero che Cobain disse che in Smells Like Teen Spirit non fece altro che copiare i Pixies di Debaser, ma non dimenticò mai di rendere omaggio ai loro maestri della gioventu’ sonica, che da parte loro cercarono di strizzare l’occhio al nascente grunge in opere successive come Goo e Dirty.
Longevi come pochi altri, Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo, Steve Shelley ed il neo acquisto Mark Ibold (ex Pavement, a proposito di indie) sono tornati in studio di registrazione per un’etichetta indipendente, seppur potente come la Matador, per un’operazione da loro stessi definita di revival.
The Eternal – il cui titolo rimanda a un pezzo decadente e funereo dei Joy Division – è infatti il loro quindicesimo album (oltre a una sfilza di EP e progetti minori) - questo fatto inevitabilmente pesa - e ha l’ambizione dichiarata di racchiudere in poco piu’ di un’ora una carriera quasi trentennale.
Il loro sound risulta dunque un po’ datato (AntiOrgasm, Sacred Trickster, Malibu’ Gas Station, quasi il titolo di un quadro di Hopper), qua e là affiorano segnali di stanchezza e, in generale, c’è la sensazione di melodie già sentite, pur ben costruite.
Tuttavia, dal momento che la classe non è acqua, è impossibile non apprezzare alcuni pezzi di bravura di Ranaldo (Antenna, Walkin Blue, che sembra uscire da Copper Blue dei Sugar), un omaggio al poeta beat Gregory Corso e soprattutto la lunga, bellissima, coda acustica di Massage the History.
Da ottobre i Sonic Youth saranno in Europa: per ora previste solo cinque date: Berlino, Bruxelles, Parigi, Dublino e il festival All Tomorrow Parties di Minhead, UK.
Anche loro snobberanno il nostro paese?
lunedì 15 giugno 2009
E’ come manna dal cielo.
A poca distanza dall’anteprima in streaming del nuovo Wilco, ecco nei negozi l’ultima fatica di Mark Oliver Everett - aka Mr. E – e soci, dalla Virginia ma trapiantati a Los Angeles, California.
Chi scrive è da sempre un loro accanito fan e inserisce Beautiful Freak (1996) e Electro-shock Blues (1998) tra i suoi album preferiti si sempre: dunque questa recensione vi suonerà tutt’altro che imparziale.
Detto questo, il primo ascolto di Hombre Lobo (ovvero: l’uomo-lupo) è a dir poco spiazzante, nel suo essere vittima di uno sdoppiamento di personalità.
Di giorno, Mr. E compone ballate acustiche di rara intensità, come da copione classico: All The Beautiful Things, In my Dreams e la placida e immobile The Longing.
Di notte, invece, il nostro - già in copertina in versione licantropo con una strepitosa e fottutissima barba – incide con straordinaria irruenza una serie di brani piu’ cazzuti, ruvidissimi, quasi hard: se Fresh Blood e Lilac Breeze riecheggiano un po’ troppo il primo Beck, Tremendous Dynamite sembra uscire direttamente da Fun House degli Stooges, e il blues sporco alla Jon Spencer di Prizefighter addirittura da Exile on Main Street degli Stones.
Si tratta di pezzi registrati in presa diretta, senza sovraincisioni, nel suo scantinato; suonano infatti davvero al limite del lo-fi, quasi come un bootleg di bassa qualità, oltre a essere tempestati da ululati famelici alla Iggy Pop, o alla Suicide.
E’ lo stesso Everett a spiegare la genesi di questo inusuale concept-album: “stavo lavorando ad altra musica, quando una mattina, mentre mi lavavo i denti, mi sono guardato allo specchio e ho visto questa specie di lupo mannaro che mi fissava. Mi sono detto: ‘Questa musica non va bene per la mia barba!’. Stavo per tagliarla, ma poi ho pensato che invece avrei potuto scrivere delle canzoni che si adattassero alla barba: ormai sono arrivato al punto in cui sono i peli facciali ad ispirare la mia musica…”.
E’ un tipo così, Mr. E.
Un genio stampalato e persino un po’ disadattato, talmente estraneo alle logiche dello show-biz.
E’ per questo che lo seguiamo sempre con maggiore affetto.
sabato 6 giugno 2009
Autentico
Francisco de Asis probailmente non parla agli uccelli e agli altri animali del bosco, ma è un ragazzone alto quasi due metri, con un notevole giro di pancia, contenuto con difficoltà dall'elegante divisa in colore carta di zucchero.
Sorride, al nostro primo incontro.
Veramente sorride sempre.
Gli spiego dove vogliamo andare.
"Sanchinarro", gli dico indicando il punto esatto sulla mappa della città.
Lui inspiegabilmente inizia a innervosirsi.
"Puente de Vallecas", aggiungo spostandomi con l'indice un pò a sud, lungo la superstrada M-30, proprio a fianco del Manzanarre.
"Carabanchel", concludo chiudendo la mappa, e accompagnandomi con un gesto come a dire: però dopo.
Francisco scuote la testa.
Solleva i suoi grandi occhi scuri verso di me, e mi guarda strano.
Forse non conosce bene la zona, penso io.
Seguro?, mi chiede.
Seguro!, rispondo io.
Allora estrae dal cruscotto del suo Mercedes Vito uno stradario di Madrid aggiornato al 2009 e inizia a studiare l'itinerario, picchiettando nervosamente con le sue dita enormi sul cruscotto di plastica rigida.
C'è qualcosa che non va?, chiedo.
No, dice lui, sempre più perplesso. Il fatto è che di solito i turisti vogliono andare a vedere il Paseo del Prado, la Plaza Major, o il Paseo della Castellana, oppure il Santiago Bernabeu. Non certo Sanchinarro, cazzo.
Annuisco con il capo.
Allora gli spego che siamo una comitiva di architetti italiani, a Madrid per il fine settimana, e che vogliamo andare a vedere una serie di inteventi di housing sociale realizzati negli ultimi anni, di grande interesse per noi.
Lui annuisce, ma si vede che per lui è una roba un pò strana lo stesso.
Dopo aver allacciato le cinture di sicurezza, non senza fatica vista la mole, si immette un pò controvoglia sulla M-30.
Direzione sud.
Il traffico è scorrevole, d'altro canto è sabato, e a Madrid a quest'ora del mattino, mi spiega, ci sono in giro solo i preti e le puttane. E i ladri. Non per caso i madrileni sono soprannominati gatos: qualcuno dice che è perchè nel seicento i soldati si arrampicacvano con agilità sui muri, per molti invece è perchè non dormono la notte.
Francisco inserisce una cassetta nel mangianastri: flamenco, o roba simile.
Accenno una conversazione.
Allora il Real compra Kakà e Ibrahimovic?, gli chiedo.
Lui mi fa cenno che non lo sa, tutti e due sarà difficile.
Poi si gira verso di me e dice: io non tengo al Real, sono dei bastardi. Io sono dell'Atletico. Siamo la classe operiaia di Madrid, aggiunge con finta autocommiserazione. Si vede che è motivo di orgoglio.
A un certo punto ci strombazzano da dietro. E' un furgone, dalla carrozzeria scura, simile al nostro. Francisco lo lascia passare, e mentre siamo affiancati l'altro conducente ci saluta. Francisco lo guarda e se la ride.
Primi, mi dice Francisco.
Primi?, replico io.
Io e lui: primi!, insiste lui.
Primi che cosa?, chiedo. Cosa significa primi?
Poi mi viene in mente che potrebbe significare cugini e allora gli faccio segno che ho capito.
Francisco mi racconta che lui e suo cugino sono soci, anzi sono ben sette cugini ad essere soci nella loro ditta di trasporto privato con autista.
Ci avviciniamo a Carabanchel.
Una sfilza di enormi caseggiati anonimi in mezzo ai campi di sterpaglie bruciate dal sole.
Francisco mi dice che lui ci è nato, a Carabanchel. E' un bel posto, mi dice. Molto meglio di Sanchinarro, dove ci sono solo orrende case popolari.
E adesso dove vivi?, chiedo io.
Fuori Madrid. Quasi cinquanta chilometri piu' a nord. Tre anni fa ho comprato una villetta per me e per la mia famiglia. La città è un casino.
Nel frattempo la temperatura all'interno dell'abitacolo è scesa di colpo. L'aria condizionata è a manetta.
Francisco, porca puttana, hai della carne che si sta scongelando nel baule?, gli chiedo.
Cosa?, risponde incredulo.
Cazzo, c'è un freddo della madonna, gli dico io.
Francisco de Asis scoppia a ridere e spegne il condizionatore.
Verso le due decidiamo di fare uno spuntino veloce. Fermati là, dico a Francisco indicando un'osteria ai bordi della strada.
E' una tipica tabierna madrilena.
Sulle pareti di azulejos campeggiano le foto di vecchi toreri, di ballerine di flamenco e la formazione dell'Atletico.
Dietro al banco una giovane donna con il seno prosperoso e i modi un pò rudi ci chiede cosa vogliamo. Scegliamo un misto di tapas, c'è un sacco di roba fritta sotto le vetrinette ai bordi del bancone, ma non si capisce bene cos'è. Inutile cercare di fare una cernita.
Il ventilatore sul soffitto cigola in modo sinistro, ma è comunque un sollievo dalla calura.
Gli altri avventori del locale sono dei tipi assai curiosi.
C'è un signore azzimato con uno stuzzicadente in bocca, che ci fissa insistentemente da quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella tabierna.
Ci sono due muratori che bevono in silenzio la loro cerveza gelata.
Infine c'è un capannello di vecchi. Urlano e ridono. Francisco è lì in mezzo che si divora un bocadillo con la salsiccia piccante. Mi fa segno di avvicinarmi, e allora mi faccio largo tra le cartacce e la segatura sparsa sul pavimento, qui c'è ancora l'abitudine di gettare tutto in terra, cicchi di sigarette e svariati resti di cibo. Mi offrono un bicchiere di vino rojo.
Stanno leggendo El Pais.
Mi indicano un articolo intitolato: "Il riposo dell'imperatore". Sotto c'è una grande foto di Berlusconi, a fianco del re Juan Carlos, mentre dorme durante l'ultima finale di champions a Roma. Io allargo le braccia, quasi a scusarmi, quasi a voler dire: cosa volete che vi dica. Loro se la ridono sempre di piu'. Il piu' anziano del gruppo chiosa con un gesto inequivocabile, a significare: so anch'io che è stanco, è sempre dietro a scopare delle troie...
(El Pais pubblicherà qualche giorno dopo anche le famose foto di Villa Certosa, quelle del barzotto di Topolanek: quando vuol dire la stampa libera)
Fuori dalla tabierna c'è un'afa asfissiante.
Mentre saliamo sul furgone incrocio lo sguardo di Francisco. Bella, questa tabierna, gli faccio.
Ah, si, risponde lui non senza imbarazzo. Autentico.
Molto bello, confermo io.
No bello, mi corregge. Autentico.
giovedì 4 giugno 2009
Sempre piu’ spesso, capita che alcuni album vengano scambiati clandestinamente sul web con largo anticipo rispetto alla loro data d’uscita ufficiale.
E’ successo anche ai bravissimi Wilco.
Il loro nuovo album, nei negozi il prossimo 30 giugno, è stato rubato e messo su internet e così la band di Chicago è stata costretta a farlo sentire per intero online, in streaming gratuito.
Noi di PiacenzaSera lo abbiamo ascoltato per voi in anteprima, al link http://www.wilcoworld.net/records/disco.php
La prima impressione che si ricava è che il nuovo album - il settimo in studio - non delude le aspettative. Tutt’altro che anonimo, nonostante il suo titolo: semplicemente "Wilco (The Album)". La titletrack, addirittura, si intitola “Wilco (The Song)” ed è un pezzo in stile Pavement: il batterista Glenn Kotche l’ha descritta come una grande dichiarazione d'amore da parte della band per i propri fan.
Il precedente “Blue Sky Day” (2007) aveva avuto il difficile compito di succedere a due capolavori assoluti di un intero decennio di rock alternativo come “Yankee Hotel Foxtrot” (2002) e “A Ghost Is Born” (2004); per riuscire nell’intento, il gruppo capitanato da Jeff Tweedy aveva ripiegato sulle atmosfere piu’ sobrie e rilassate degli esordi.
La critica, non a caso, per lungo tempo li ha considerati gli alfieri dell’Alt Country, paragonandoli spesso a Gram Parsons e Neil Young.
“Wilco-The Album” recupera invece una dimensione piu’ rock-oriented (“You Never Know”, “Bull Black Nova”), aprendosi a sonorità piu’ aspre e spigolose
Ovviamente, come tradizione c’è spazio per un paio di delicate ballate folk (“Deeper Down”, “Solitaire” e “Country Disappear”) e anche per un duetto - a là Belle And Sebastian - con la cantante canadese Feist (“You And I”), anche se va detto che nessuno dei suddetti pezzi sembrerebbe in grado di raggiungere i vertici di “Ashes Of American Flag” e “Jesus Etc”.
I Wilco hanno da poco iniziato una lunga tournèe estiva che li sta portando, tra l’altro, in Spagna per una serie di otto concerti.
Purtroppo, almeno sinora, nessuna data è prevista in Italia.
Altro segno del declino, inesorabile, del nostro paese (c'è dell'ironia, ma non troppa).
sabato 23 maggio 2009
Il Drugo e i fottuti Eagles
(da: http://www.associatedcontent.com/article/1398436/ten_reasons_why_the_big_lebowski_was_pg3.html?cat=9)
10. The Brilliance of One of These Nights. In many ways, I believe this is the most underrated ways, I believe this is the most underrated song in the Eagles' catalogue. It combines the blue eyed raspy voiced soul of Don Henley at its absolute best, combined with nasty guitar riffs from a very underrated Don Felder, the rhythm and blues Detroit sensibility of Glenn Frey and the impossibly high background singing of Randy Mesiner. In some ways, that might be part of the problem for rock critics and the Big Lebowski as the 'mutt' aspect of the Eagles meant that they would never be the thoroughbred that the music intelligentsia always seems to crave.
9. The Hotel California Album. Yes, you've heard the title track 19 million times by now, and I'm not a big fan of Life in the Fast Lane, but this is simply one of the all time greatest classic rock albums. Some of the supposedly "second tier" songs on this album are its best: New Kid in Town, Try and Love Again, and The Last Resort are all brilliant while simple. This was a band at its zenith.
8. Victim of Love was Recorded Live. In my opinion, the hardest rocking song ever by the Eagles was done all at once and recorded live, with no overdubbing, according to the notes on the record itself. Thank Joe Walsh and a new producer, Bill Szymczyk, for the Eagles much harder, and welcomed, edge on their later work and Victim of Love was the best of it. That they did it live with no over dubbing is an example of how this band COULD rock, but just chose not to quite often.
7. Don Henley's Solo Career. Whereas Glenn Frey either just mailed it in or couldn't do it, Henley provided some of the cornerstone music of the 1980's. Boys of Summer is every bit the masterpiece that Hotel California was, Dirty Laundry, if anything, was BEFORE its time and little known nuggets such as Driving With Your Eyes Closed and Talking to the Moon are better than anything Billy Joel could ever conceive of.
6. Waiting In the Weeds Since only fans buy cd's anymore, and there's no slot for new Eagles music on the radio anymore, a relative few have heard this gem off of the Long Road Out of Eden album. This ranks with the best they have ever done; it's build and pay off are worth all seven minutes and 45 seconds. Put it on in your car when alone and absorb it. This is an incredible piece of songwriting with a pacing and patience that only come with maturity; which the Eagles certainly have now.
5. Eagles Concerts. In my "other" list of the top ten reasons the Big Lebowski was right to hate the Eagles, I listed their lack of spontaneity and scripted feel to their concerts as one of the reasons. And while I DO hate that aspect to it, what I have always appreciated is the fact that the concerts are almost completely about the music and the playing. Back in the 1970's, the Eagles avoided all the special effects and laser shows and today, there are no soapbox speeches at an Eagles concert. Yes, I wish they'd loosen up while they still can, but if their tight schedule and pacing is part and parcel of a focus on just the music, then I can live with it. I will say this too, while they set the bar for extremely high ticket prices years ago, like the New York Yankees, they certainly reinvest into the product. The concerts are flawless, long and professional. It's not as if we're getting charged a high price only to watch them mail it in and pocket the dough.
4. Two Words: Joe Walsh. There's something to be said for the Eagles in the 1970's swallowing their pride and signing this free agent. While behind the scenes it wasn't all peaceful and easy, like the Yankees of that era signing Reggie Jackson, the Eagles saw a need and filled it. And it gave the band legs to get to the next level. While plenty love the early Eagles stuff (heck, I do), the sound was played out and Walsh gave them the shot they needed to bring it home across their final two albums and certainly gave their concerts a whole other dimension. Oh, and he just happens to be one of the greatest guitar players of all time.
3. The Eagles Survived. By all accounts, the Eagles were the cocaine cowboys of the 1970's, with enough partying, arrest, all night flights and fist fights to kill anybody. But they hung in, survived, got sober and moved on. Dying in a bathtub or offing oneself is the easy way out. Here they are, forty years later still on the road as sixty-somethings and getting it done. There is an undeniable toughness to these guys; though that's not something you'd hear much about them.
2. The Eagles Live Album. This has to be one of the most criticized live albums of all time, and I don't understand why. While it might be not as 'live' as advertised, how do we really know? And it actually featured some of the script moments, such as "All Night Long" and "Saturday Night" that gave it a freshness at times lacking from the Eagles' studio work. And the simple, confident intros (such as Glenn Frey's intro of Joe Walsh) show the confidence and big time nature that the Eagles knew they cold afford. There's a coolness that comes through from the band while it allows the music to carry the day.
1. The Eagles kicked Rolling Stone Magazine's Ass in Softball. As rock critics and journalists continued to denigrate and criticize the Eagles all through their heyday, in 1978, the band finally had enough and in a humorous fashion told them to meet them on the softball field, whereupon the Eagles and their roadies whupped up on the Rolling Stone geeks 15 to 8. How big were the Eagles then? Well, California governor Jerry Brown showed up to watch from the stands and cheer on the Eagles. And he wasn't the most famous person in attendance.
giovedì 21 maggio 2009
We're not the fucking Eagles

Impazza il dibattito sul prossimo 13 giugno.
Le alternative:
SECONDA LEBOWSKIFEST ITALIANA
SABATO 13 GIUGNO 2009 @ ASTI
c/o Diavolorosso, P.zza San Martino - Asti
L'INGRESSO ALLA FESTA E' LIBERO E GRATUITO MA E' VIVAMENTE CONSIGLIATO UN ABBIGLIAMENTO A TEMA LEBOWSKIANO !
Un tappeto, una valigia piena di dollari (o cartacce), una palla da bowling e una lingua che la lecca voluttuosamente... Un uomo in vestaglia e occhiali scuri soppesa l'acquisto di una busta di latte, del tutto ignaro circa l'avvento dei Nichilisti.
The Big Lebowski è un film di culto, e questo basti. Loschi individui dal passato irriferibile decisero che non bastava una pellicola ma fosse necessaria una festa, a base di whiterussian, pistole puntate (alla cazzo) e rapimenti immotivati.
E dopo il successo di presenze dell'edizione 2008 decisero di riprovarci anche l'anno seguente... Sono ben accetti: ex fricchettoni, maggiordomi lecchini, ex pornoattrici, ninfomani (possibilmente pazienti), commissari incazzosi, maniaci del bowling, veterani del Vietnam e, soprattutto, Nichilisti. Astenersi NON perditempo. Unica sola raccomandazione: Porta il tuo tappeto alla festa, non lasciarlo a casa a dare un tono all’ambiente. Potrebbero rubartelo. O pisciarci sopra.”
A partire dalle ore 20, all'interno della suggestiva chiesa sconsacrata di San Michele, dell'attiguo Chiostro e del cortiletto medievale
- Contest travestimenti lebowskiani
- Premio "Jackie Treehorn" per il miglior travestimento (per originalità, dudeness, simpatia) inerente al film
Premio Speciale "Logjammin' " per la miglior Bonnie Lebowski che si presenterà alla festa
- White Russian come se piovesse
- Proiezione "The Big Lebowski" in lingua originale + Mini festival di cortometraggi lebowskiani
- Wii Bowling su maxischermo : Vietnam Cup 2009
- Dance Hall Nichilista Feroce
- Tributo a Donny
Non poteva mancare un gran bel concerto roccherrollo : da Lucca, i Tarantola 31 in "We're not the fucking Eagles tour 2009"
E ricordate... la Lebowski Fest non è come il bowling, è come il Vietnam. Non ci sono regole.
In contemporanea:
THE EAGLES IN CONCERTO
13 giugno 2009 - Milano datchForum Assago ( MEDIOLANUM FORUM )
BIGLIETTI: TICKETONE.IT
PREZZI
1 Anello Numerato Intero € 130,00 (n.d.R: sticazzi...)
2 Anello Non Numerato Intero € 80,00
Parterre Posto in Piedi Intero € 66,00
Seguendo l’acclamato successo dell’album Long Road Out Of Eden al primo posto nella classifica mondiale, la band – Glen Frey, Don Henley, Joe Walsh e Timothy B. Schmit, suoneranno un vasto repertorio che ripercorrere brani del passato fino ad arrivare a quelli appena incisi, includendo nella scaletta 'How long' e 'Busy Being Fabulous', e pezzi classici come 'Hotel California', 'Desperado', 'Take it To The Limit', 'Life in the Fast Lane' e 'Take it Easy'.
Long Road Out of Eden ha avuto grandissimo successo in tutto il mondo, ed è inoltre il primo album della band a raggiungere subito il primo posto nella classifica inglese. Con 800,000 copie vendute, è stato il sesto album più venduto al mondo nel 2007 nonostante fosse stato in vendita per sole 9 settimane dall’uscita.
QUI A FIANCO, POTETE SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE CON IL SONDAGGIO: CHI BUTTERESTE GIU' DALLA TORRE: IL DRUGO O I FOTTUTI EAGLES?
martedì 19 maggio 2009
A voler esser sinceri, il ragazzo non ci è mai stato troppo simpatico, spocchioso e arrogante com’è -come spesso accade ai suoi conterranei, peraltro.
Osannato dalla stampa anglosassone - sempre alla vana ricerca di una “The Next Big Thing” – sin dai tempi del suo esordio con i Libertines, più recentemente è salito all’onore delle cronache unicamente per le sue vicende giudiziarie o per brutte storie di droga, per i continui tira e molla con l'ormai ex Kate Moss e per alcuni dipinti imbrattati di sangue umano che non meritano nemmeno un commento.
Insomma, uno dei personaggi più sopravvalutati dell’ultimo decennio, in ambito musicale.
Ciò nonostante, il suo primo album da solista non è poi così male, anzi.
"Grace/Wasteland" è una raccolta semi-acustica di pezzi che Pete (qui per l’occasione con il nome di battesimo, Peter) teneva nascosti in un qualche cassetto da diversi anni, e che finalmente è riuscito a incidere con l’aiuto di Graham Coxon (Blur), Dot Allison (discreto il duetto in “Sheepskin tearaway”) e ovviamente i suoi Babyshambles Mik Whitnall, Adam Ficek e Drew McConnell.
Il risultato è un prodotto ben confezionato (notevole la cover disegnata dall’artista francese Alize Meurisse): forse non del tutto sincero, forse un po’ troppo ruffiano, anche se con i pregiudizi non si va lontano.
Tra i brani migliori, una manciata di ballate folk scarne ed essenziali (“Salome”, “Palace of bone”, alla Lanegan, “Arcadie”, “1939 Returning”), oltre al singolo in puro Gorillaz-style “The last english roses” - chiaro omaggio a quell’autentico monumento nazionale inglese che è Paul Weller, maestro di Damon Albarn e autore con i suoi Jam della straordinaria “English rose”: e il cerchio si chiude.
Meno riusciti e più scontati, al contrario, i brani più smaccatamente brit-pop, come “I am the rain”, “Broken love song” e “A little death around the eyes”: quest’ultima sembra proprio uno scarto dei Verve.
Dimenticabile, infine, il divertissement in stile vaudeville “Sweet by and by”: certe cose le lasci fare a Randy Newman.
lunedì 11 maggio 2009
K2
Dentro al bar non c'è quasi nessuno, sono tutti fuori sotto la toppia di cannette a giocare a scopone scientifico e a godere di un pallido sole mattutino.
C'è una sciarpa rossoblu in bell'evidenza, appoggiata al portabicchieri sospeso sul bancone in granito sardo.
Decido di tentare l'approccio: cosa fa il Bologna, domenica?
Ah, per mio conto si perde, mi risponde il barista, scrollando la testa sconsolato. E' un uomo di mezz'età, piuttosto stempiato, con uno stuzzicadenti incastrato negli incisivi inferiori.
Loro sono più forti, non dobbiamo nascondercelo, aggiunge lui guardandomi negli occhi con un'intensità tale da mettermi in imbarazzo. Neanche mi stesse rivelando il segreto di Fatima.
Si perde?, dico io.
Lui secco: sì.
Allora è finita, faccio io. Se si perde a Torino si va in B.
Si va in B sì, fa lui.
Accidenti, rispondo io contrariato. E intanto penso, merda, quest'uomo è davvero un gufo, oppure dice così solo per una questione di scaramanzia.
Speravo ci fosse piu' ottimismo, butto lì.
E' un K2, mi risponde lui.
Il K2 che?, domando io.
Guarda, per mio conto è come se avessimo davanti il K2 da scalare...
Sorseggio il mio caffe' scorrendo rapidamente i titoli di Stadio, che qui è più popolare della Gazzetta. Sono in un bar di Sasso Marconi, in una pausa dal cantiere che seguo ormai da alcuni mesi, la ristrutturazione della vecchia casa in sasso della zia Tina, a poche curve dal centro del paese, sulla strada statale Porrettana.
Cazzo, penso, il K2 è una montagna davvero ostica.
La Montagna Selvaggia.
Le statistiche, insegna Wikipedia, dicono che in media per ogni 4 alpinisti che tentano la scalata, uno muore: fra gli Ottomila, il K2 ha il secondo più alto tasso di mortalità di scalata dopo l'Annapurna (dove minchia sarà mai, l'Annapurna...)
Lancio una monetina sul bancone ed esco dal bar, salutando il barista gufo-di-merda con un cenno del capo.
Raggiungo E*** che è in coda in tabaccheria, proprio lì a fianco.
Deve giocare al Superenalotto. Spera di racimolare una somma sufficiente per aggiustare paraurti e carrozzeria dell'auto: la settimana scorsa ha investito un capriolo sulla tangenziale, proprio qui al Sasso.
Due combinazioni da sette numeri, ovvero una probabilità di vincere su qualche milione.
Altro che K2.
Eppure c'è una confusione terrificante, in questo negozio grande poco più di uno sputo. Decine di anziani aspettano pazientemente il loro turno per avere un gratta e vinci. Qualcuno spinge, persino. Cazzo, devo stare attento a dove metto i piedi, dalla calca che c'è.
Questi bastardi ucciderebbero, per un grattino.
Forse è un effetto collaterale della crisi, penso io.
Se ne sentono di tutti i colori.
Un conoscente mi ha raccontato di aver assistito a un episodio sintomatico, recentemente. All'interno di un supermercato ha visto un signore di una certa età, tutto intabarrato in un lungo pastrano nero, avvicinarsi al reparto riviste, sfogliarne una di enigmistica, e poi estrarre un lapis e un piccolo taccuino a quadretti dove con calma si è ricopiato - da cima a fondo - gli schemi di un paio di sudoku, per poi riporre la rivista al suo posto.
Nel viaggio di ritorno verso casa, chiacchero con E***.
E*** viene dalla Bosnia.
Mi racconta che per il primo maggio è stato a casa, al suo villaggio d'origine, per gettare le fondamenta della casa del figlio, perchè prima o poi torneranno a casa. E' un paese immerso in una fitta foresta di querce e conifere. Montagne straordinarie, dice lui.
E*** ama il suo paese, e ne esalta con orgoglio le caratteristiche.
A volte con effetti quasi comici.
Da noi, mi disse una volta, si mangia da Dio (non come qua, avrebbe forse voluto aggiungere, non lo fece perchè ogni tanto probabilmente si rende conto di esagerare un pò...).
Un'altra volta, ammirando gli svincoli autostradali che si avviluppano labirintici attorno Piacenza, mi disse: cazzo, come è cambiata questa città in questi dieci anni. Sullo sfondo il capannone-monstre dell'Ikea emergeva dalla foschia densa di polveri e di odori. Cazzo, mi fa, guarda che bello: sembra Sarajevo, cazzo.
(anzi, no: lui dice "figa", è incredibile quante volte dice "figa" all'interno della stessa strada, per lui nato in Bosnia. Evidentemente è assai contagioso).
Procediamo lentamente, zigzagando tra le corsie dell'autostrada.
Un cartello vecchio di un paio d'anni ci dice che hanno steso asfalto drenante.
E*** mi dice di una fabbrica che una volta aveva piu' di trentamila operai, e adesso è praticamente deserta. Facevano di tutto, in quella fabbrica.
Tutto cosa, chiedo io.
Tutto quello che puoi immaginare: scarpe, macchine, vestiti, mobili, attrezzi, tutto.
Erano i tempi della grande Jugoslavia, dice lui.
Che nostalgia, aggiunge.
Piu' o meno i tempi del grande Bologna, dico io.
domenica 10 maggio 2009
Il popolo indie ha (forse) trovato l’erede di Antony & the Johnson.
Per la verità, con il talentuoso newyorchese questa ragazza austriaca di soli diciannove anni, il cui vero nome è Anja Plaschg, condivide solamente una voce fuori dal comune, eterea e terrificante, un total-look piuttosto dark - viso tumefatto e pallido, abiti neri, sguardo inquietante - e una certa aura da artista maledetta, perennemente in preda a un grande tormento interiore.
Bambina prodigio, cresciuta in un piccolo villaggio di allevatori di mucche della Stiria, Anja studia musica (pianoforte e violino) sin dall’età di sette anni. Dopo un breve periodo all’Accademia delle Belle Arti di Vienna, dove sceglie la pittura, decide di concentrarsi interamente sulla sua musica. Pubblica così le sue prime canzoni su Myspace nel 2006 - a soli sedici anni – venendo scoperta dall’etichetta indipendente Shitkatapult che inserisce in una compilation un suo brano, “Mr. Gaunt PT 1000” , aprendole di fatto la strada verso una popolarità improvvisa, culminata nel novembre del 2008 con l’invito al prestigioso tributo a Nico – storica vocalist dei Velvet Underground - organizzato da John Cale a Berlino (Antony invece duetta con Lou Reed…).
“Lovetune For Vacuum” è il suo notevole album di debutto, un album oscuro, tetro, profondamente malinconico. Si compone di tredici, brevi, tracce scritte da Anja tra il 2005 e il 2008, da lei completamente arrangiate e da lei persino registrate, nella rigorosa penombra del suo appartamento viennese.
Interprete sensibile e terribilmente matura, Soap&Skin – paragonata dalla critica a Cat Power e alla prima Kate Bush - stupisce per la sua grande potenza espressiva e per i suoi testi intrisi di ingenuo romanticismo.
Emergono dalla raccolta il singolo “Spiracle”, la gotica ed elettronica “Marche Funebre” (in odore di Dead Can Dance), la pianistica “Thanatos” e la conclusiva “Brother of Sleep”, ovvero uno degli episodi più quieti e meno drammatici.
Il prossimo 12 maggio Soap&Skin si esibirà a Milano al club La Casa 139 (Ingresso: 10 euro più tessera Arci, ore 21,00; prevendite su: www.ticketone.it – tel. 892 101), mentre il domenica 10 maggio prenderà parte a un nuovo Tributo a Nico che si terrà a Ferrara il 10 maggio, dove sarà presente, fra gli altri, anche Mark Linkous degli Sparklehorse.
mercoledì 6 maggio 2009
Prog-rock is not dead!
Solo poche settimane orsono si era fatto apprezzare l’ultimo album dei Trail Of Dead, il cui vero nome, ...And You Will Know Us by the Trail of Dead, si riferisce all’antico culto Maya per i morti.
In questi giorni, si segnala invece positivamente un altro disco dalla chiara ispirazione progressive: si tratta del nuovo lavoro della band di Portland, Oregon, così ricco di improvvise accelerazioni e di continui cambi di ritmo che riportano la mente ai Jethro Tull di “Acqualung”.
Concepito inizialmente come musical, “The Hazards Of Love” (il cui titolo è ripreso dall’EP di esordio della cantautrice folk Anne Briggs, stiamo parlando del lontano 1964) è una rock-opera di vecchio stampo, che rinnova la tradizione inaugurata da capolavori come “Tommy” e “Quadrophenia” dei Who e “Arthur” dei Kinks.
Più che una collezione di canzoni – le tracce sono complessivamente diciassette – l’album è costituito da un’unica lunga suite che si dipana assai piacevolmente, e senza soluzione di continuità, per quasi un’ora (rispetto ai suoi illustri predecessori, qui non c’è più nemmeno il problema di girare il lato del vinile…), e la cui ossatura è costituita dalle molteplici versioni della title-trak e di “The Wanting Comes In Waves”.
Il frontman Colin Meloy è accompagnato dalle splendide voci di Becky Stark dei Lavender Diamond, che interpreta Margaret, l’eroina della storia, e di Shara Warden, ovvero My Brightest Diamond, che dà voce alla Regina della Foresta.
L’impianto è ancora solidamente folk, ma c’è spazio anche per un rock poderoso, l’ottima “The rake’s song”: la ascolteremo certamente il 6 maggio prossimo, alla grande festa di compleanno di PiacenzaSera in programma al Baciccia, a meno che i DJ Looka e Paulette non si siano definitivamente bevuti il cervello…
Solo poche settimane orsono si era fatto apprezzare l’ultimo album dei Trail Of Dead, il cui vero nome, ...And You Will Know Us by the Trail of Dead, si riferisce all’antico culto Maya per i morti.
In questi giorni, si segnala invece positivamente un altro disco dalla chiara ispirazione progressive: si tratta del nuovo lavoro della band di Portland, Oregon, così ricco di improvvise accelerazioni e di continui cambi di ritmo che riportano la mente ai Jethro Tull di “Acqualung”.
Concepito inizialmente come musical, “The Hazards Of Love” (il cui titolo è ripreso dall’EP di esordio della cantautrice folk Anne Briggs, stiamo parlando del lontano 1964) è una rock-opera di vecchio stampo, che rinnova la tradizione inaugurata da capolavori come “Tommy” e “Quadrophenia” dei Who e “Arthur” dei Kinks.
Più che una collezione di canzoni – le tracce sono complessivamente diciassette – l’album è costituito da un’unica lunga suite che si dipana assai piacevolmente, e senza soluzione di continuità, per quasi un’ora (rispetto ai suoi illustri predecessori, qui non c’è più nemmeno il problema di girare il lato del vinile…), e la cui ossatura è costituita dalle molteplici versioni della title-trak e di “The Wanting Comes In Waves”.
Il frontman Colin Meloy è accompagnato dalle splendide voci di Becky Stark dei Lavender Diamond, che interpreta Margaret, l’eroina della storia, e di Shara Warden, ovvero My Brightest Diamond, che dà voce alla Regina della Foresta.
L’impianto è ancora solidamente folk, ma c’è spazio anche per un rock poderoso, l’ottima “The rake’s song”: la ascolteremo certamente il 6 maggio prossimo, alla grande festa di compleanno di PiacenzaSera in programma al Baciccia, a meno che i DJ Looka e Paulette non si siano definitivamente bevuti il cervello…
lunedì 4 maggio 2009
1/1.000.000

Ray "Big Daddy" arriva da Vancouver, Canada.
Non è nuovo a Cervia, anzi qui al 29° International Kite Festival direi che lo conoscono un pò tutti.
E' infatti da anni uno dei grandi vecchi dell'aquilonismo, ovvero "l'indiscutibile ed ineguagliabile re del volo acrobatico", così come recita la brochure stampata ad hoc per l'evento: il solito libretto di quasi cento pagine, pieno zeppo di inutili annunci pubblicitari.
Ray ha qualcosa come ottant'anni e più.
E' uno strano e curioso personaggio. Carismatico.
Gira sempre a piedi scalzi e a torso nudo, anche dopo il tramonto, come i vecchi marinai, mettendo in bella mostra la sua pelle raggrinziata dal tempo e bruciata dal sole, e anche i tatuaggi da vecchio pirata avventuriero. In testa porta un berretto di stoffa ricoperto di spillette metalliche che ricordano i suoi numerosi trofei.
Dovreste vederlo all'opera con i suoi tre aquiloni.
E' uno spettacolo.
Dopo il loro decollo, fulmineo, Ray riesce con straordinaria precisione a farli volare in simultanea, grazie a una personalissima tecnica di volo sincronizzato messa a punto in tanti anni di allenamento in un parco pubblico della città canadese: se non "vola" almeno otto ore al girono, ha confidato lui ad alcuni amici, sta male.
Ray pilota un aquilone con la mano sinistra, un altro con la destra e un terzo attraverso il movimento sinuoso dei fianchi: "sei fili manovrati con una destrezza stupefacente che delude qualsiasi tentativo di emulazione anche da parte di aitanti giovani atleti", recita ancora il depliant.
Nel 2000, a Long Beach, questo vecchio squilibrato ha stabilito uno dei suoi tanti record mondiali, facendo volare contemporaneamente ben 21 aquiloni.
Cosa ancora più incredibile, li fa danzare a ritmo di musica.
Incredibile, certo, perchè Ray - come un novello Beethoven - da diversi anni è completamente sordo.
All'inizio non la prese affatto bene. Da qualche tempo aveva un forte mal di testa, e sentiva un ronzìo incessante all'interno dei padiglioni auricolari.
Il medico che lo visitò, che conosceva Ray dai tempi della scuola, non ebbe la forza di mentirgli: diventerai sordo, Ray.
Completamente sordo?
Sì. Mi spiace. Si tratta di un virus assai raro, che colpisce solo 1 uomo su un 1.000.000, gli spiegò il dottore.
Un 1 uomo su un 1.000.000?, fece Ray: e allora perchè proprio io?
Perchè tu sei un 1 uomo su un 1.000.000, Ray, rispose allora il suo vecchio amico. Come te non se ne trovano tanti.
Intanto è tornato il sereno, sulla spiaggia di Cervia. Il vento finalmente ha spazzato via le nuvole grigiastre gonfie di pioggia. E il vento è proprio quello che ci vuole, se vuoi far alzare un aquilone. Il cielo è punteggiato da un'infinità di piccole macchie colorate che piroettano senza mai fermarsi un attimo.
Tutti qui camminano con il naso all'insu', ed è facile inciampare in una corda lasciata sulla sabbia o scontrarsi con qualche malcapitato.
Ray esegue con grande abilità le sue evoluzioni.
La gente sulla spiaggia lo applaude alla sua maniera, sventolando in alto le mani.
Verso sera ritroviamo Ray in uno stand gastronomico della Sagra della tagliatella, sotto uno di quei tendoni con struttura in ferro zincato che da queste parti, in tempi ormai lontani, servivano per le Feste dell'Unità.
Indossa un giubbino di pelle, tutto rovinato, direttamente sulla pelle nuda, e gesticola in direzione di una tavolata di improbabili aquilonisti arrivati sin qui dall'Indonesia e da altri paesi asiatici.
Mi avvicino per salutarlo, e gli chiedo se può posare per una fotoricordo con le bambine. Strano, non mi capita spesso di fare fotografie con persone famose, non ci ho mai tenuto piu' di tanto, ma Ray è un tipo affascinanate, ispira fiducia e simpatia.
E non è nemmeno famoso, a dire il vero.
Lui si mette in posa, abbraccia Sandra con forza, sorride all'obiettivo e accarezza sul capo le piccole.
Subito dopo mi sgancia un cinque con un tale vigore da rischiare di slogarmi un polso.
I suoi occhi azzurri brillano, non so dirvi il motivo, ma sembra contento.
E allora lo accompagno con lo sguardo mentre si allontana dal tendone tenendo sotto braccio, con orgoglio, la sua anziana moglie. Lei ha in testa un curioso copricapo bianco, e inciampa passo dopo passo, ridendo sguaiatamente (devono aver esagerato col Sangiovese, questi due ragazzi).
God bless you, Ray, mormoro.
www.raybethell.com
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