Non avevo mai visto una farfalla in chiesa.
Solo la notte di Natale.
venerdì 27 dicembre 2013
IL PAGELLONE DI FINE ANNO, 2013
25
ATOMS FOR PEACE - Amok
Snobbata dalla critica, la nuova band di Thom Yorke (Radiohead) propone un’elettronica d’avanguardia, in cui - rispetto al recente passato - appare più solida la base ritmica. La monolitica continuità dell’album è interrotta da episodi notevoli quali “Stuck together pieces”, il singolo (atipico, come singolo) “Judge jury and executioner” e “Unless”, il manifesto della nuova stagione della disillusione: ”Non me ne potrebbe fregare di meno”.
24
DAFT PUNK - Random Access Memories
DISCLOSURE - Settle
Ecco invece due dischi sopravvalutati.
Il caso più clamoroso è quello del duo parigino dei Daft Punk, incensati da VIP, gente comune e nostalgici della disco ‘80. Moroder addirittura in un cameo parla di “the sound of the future”. A noi invece sembrano a volte una stanca riedizione dei Kraftfwerk, e il loro suono metallico pare la colonna sonora di vecchi videogames come Nibbler o Donkey Kong. I pezzi più belli, le collaborazioni con Panda Bear e Gonzales.
Molte parole si sono fatte anche per il debutto dei londinesi Disclosure. In patria sono i nuovi idoli della scena underground danzereccia. Tre-quattro cose da ricordare, come “When a fire start sto burn”, “Latch” e “January”. E, anche qui, tante cose già sentite altrove.
23
DAUGHTER - If You Leave
Incidono per la 4AD, sinonimo di garanzia. Siamo in territori dark, musica da camera scarna, tormentata e delicatamente malinconica, testi poco allegri (eufemismo) e claustrofobici ("Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere").
Riferimenti del nuovo millennio: St.Vincent, Soap&Skin, Bon Iver, XX.
22
PEARL JAM - Lightning Bolt
Il solito disco onesto dei Pearl Jam.
21
DEPECHE MODE - Delta machine
La band di Gore recupera le sonorità cupe e claustrofobiche di uno splendido passato (“Black celebration” e “Songs of faith and devotion”), ammiccando alle atmosfere dark anni ’80 e al minimalismo tech della nuova scena elettronica (Autechre, Four Tet, Seefeel).
Quello che colpisce è la perfezione quasi assoluta del sound.
20
DAVID BOWIE - The Next Day
Un nuovo giorno. Partire dal (glorioso) passato e guardare al futuro.
Un Bowie in gran forma.
19
NATIONAL - Trouble Will Find Me
Ripetersi senza ripetersi è sempre difficile.
Tuttavia, la loro raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale (Joy Division, Leonard Cohen, Nick Cave, Tindersticks) pur non essendo rivoluzionaria funziona sempre alla grande.
18
DEERHUNTER - Monomania
Non può essere eletto capolavoro di una carriera ormai decennale, ma “Monomania” è un concentrato di sonorità made in USA: echi lontani dei Sessanta (Love, Byrds), il lo-fi psichedelico a là Flaming Lips e Sebadoh, il Beck più casinista e artistoide, addirittura il garage degli Stooges (e dei Fall di Mark E Smith).
17
FOALS - Holy fire
Uno dei gruppi inglesi più interessanti degli ultimi tempi, almeno per chi scrive, amante del prog-rock (King Crimson, i primi Genesis, i Van der Graaf) e della scuola di Canterbury (e qui troviamo rimandi all’opera del maestro Bob Wyatt). Ascolto più che gradevole, sul quale spiccano almeno due gemme come “Bad Habit” e la minimale “Stepson”, ballata ipnotica e ripetitiva, oltre al singolo “Inhaler” - che ricorda i Jane’s Addiction.
16
DELOREAN - Apar
Arrivano dai Paesi Baschi e prendono il nome dalla macchina del tempo di “Ritorno al Futuro”.
Suonano un dreampop di gran classe.
15
IRON & WINE - Ghost on ghost
JOHN GRANT - Pale Blue Ghosts
Ovvero: Fantasmi 2.0
Abbandonato il folk da strada degli esordi, Iron&Wine prosegue il suo percorso verso un sound ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon.
Ex-leader degli Czars, Grant si era appena messo alle spalle una fase a dir poco turbolenta della sua vita quando scopre di essere sieropositivo. Smarrite le ultime, poche, certezze, da alle stampe il suo secondo album solista: discontinuo, cupo, drammatico, a tratti ancora magico.
14
MY BLOODY VALENTINE - MBV
Capostipiti della scena shoegaze, gli irlandesi tornano dopo ben 22 anni: è subito trionfo di critica e pubblico.
Meritatissimo.
“MBV” riprende il filo interrotto, costruendo muri di chitarre elettriche e di feedback a fare da sfondo a melodie eteree e ipnotiche.
13
ANNA CALVI - One breath
JULIA HOLTER - Loud city song
Le donne dell’anno.
Per la prima, autrice inglese di origini italiane, è stato scomodato Jeff Buckley.
Per la seconda, dal Michigan, addirittura Robert Wyatt.
Curiosi?
12
GOLDFRAPP - Tales of us
Nativa del Middlesex, Alison Goldfrapp è la splendida voce dell’omonimo duo, da sempre avvicinato dalla critica alla scena di Bristol.
Dopo un lungo silenzio, “Tales of us” è, più che una collezione di brani musicali, una vera e propria raccolta di racconti, dieci tracce dedicate ad altrettanti personaggi.
Musica da camera, senza tempo.
11
FUCK BUTTONS – Slow focus
DARKSIDE - Psychic
A Bristol fanno stanza anche i Fuck Buttons, autori di straordinarie cavalcate elettroniche.
I loro fottuti bottoni ci regalano strumentali tra la psichedelica e il krautrock, con echi dreamy e di danze tribali.
Colonna sonora di un futuro alle porte.
Notevole anche il disco dei Darkside:
Ambient? Elettronica d’avangiardia? Chambertronica?
Al diavolo le etichette, lasciatevi conquistare dai suoni e dalle atmosfere del nuovo progetto di Nicholas Jaar.
10
MUM - Smilewound
I Mum sono noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia minimale e misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa - vengono dall’Islanda - possono immaginare.
9
MASSIMO VOLUME - Aspettando i barbari
A distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica, i bolognesi Massimo Volume riescono ancora a stupire e a emozionare.
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto impietoso di un tempo corrotto come il nostro.
8
VAMPIRE WEEKEND - Modern vampire of the city
Ne abbiamo spesso parlato male, in passato. Li avevamo accusati di non volere crescere. E invece i ragazzi newyorchesi sono diventati grandi, ma grandi davvero. Un bel passo in avanti per un disco godibile: il migliore pop in circolazione.
7
THESE NEW PURITANS - Field of reeds
Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea.
Il loro terzo album è lontano dalla nu-wave degli esordi, e suona come un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, con orchestrazioni raffinate e minimali.
“Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.
6
KANYE WEST - Yeezus
Il genere non ci fa strepitare, ma come si può definire il genere di un disco come “Yeezus”: un sound più minimale rispetto al passato, ripulito e portato all’essenziale, quasi sperimentale; tracce di psichedelica e di suoni sixties - addirittura un sample di “Strange fruit”, nella versione di Nina Simone; ospiti illustri come Frank Ocean e Justin Vernon - aka Bon Iver -, tra i nostri preferiti.
E un diluvio di fuck: “Fuck you and your corporation/Y’all niggas can’t control me”, che nemmeno il Grande lebowski.
Insomma, lui è davvero gradasso (“I am God” (featuring God), “I just talked to Jesus, he said, ‘what up Yeezus?’” – oppure: "Ora, faccio solamente ciò che voglio, quando voglio, come cazzo voglio. Vaffanculo è il mio messaggio"), però è impossibile non ammettere che è proprio bravo.
(Fuck).
5
BILL CALLAHAN - Dream river
MARK KOZELEK & DESERTSHORE - Mark Kozelek & Desertshore
Chi ha detto che non nascono più grandi cantautori?
Bill Callahan, ad esempio, è uno di quelli che in futuro potrebbe essere affiancato a Cohen, Waits, Newman, Dylan…
L’ex leader degli Smog ha un magnifico timbro vocale, quasi baritonale, con il quale interpreta in modo personale e sofisticato le sue canzoni quiete, minimali, notturne. Canzoni che parlano della grande periferia americana, di praterie sconfinate e di motel fatiscenti, di lunghe strade che si perdono all’orizzonte e di pickup sgangherati. Canzoni che narrano di solitudine e paura, di angoscia e alienazione.
Prolifico come pochi, l’ex Red House Painters e Sun Kil Moon è uscito nel 2013 addirittura con due album. Il più notevole nasce dalla sua collaborazione con i Desertshore. Qui l’atmosfera è meno rilassata e più elettrica, il tono meno monocorde, c’è spazio per cambi di ritmo e divagazioni.
4
ARCTIC MONKEYS - AM
La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è più complessa.
L’album si apre con una spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” e “R U Mine?” - due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo – e si chiude con una mielosa “Mad sounds” che termina in un Ullallà-ù di cui le scimmie sembrano non avere vergogna, a dimostrazione di una maturità raggiunta.
(Chissà cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).
3.
NICK CAVE & THE BAD SEEDS - Push the sky away
Era dai tempi del bellissimo “No More Shall We Part” che l’artista australiano non trovava una simile ispirazione.
“Push the Sky Away”, quindicesimo album ufficiale del nostro con i Bad Seeds (che nel frattempo hanno perso Bargeld e Harvey, ma ritrovato Adamson), è un clamoroso ritorno alle atmosfere languide e rarefatte dei suoi capolavori.
2.
JAMES BLAKE - Overgrown
“Overgrown” (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta - Blake è del 1988) è il significativo titolo del nuovo lavoro di questo enfant prodige della scena dubstep londinese.
Una voce emozionante, struggente, matura e personale. Brani minimali e aspri, quasi spettrali, e poche concessioni a ritmi più sincopati e a un’elettronica house.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra.
1
ARCADE FIRE - Reflektor
“Reflektor” non e’ il disco dance della straordinaria band di Montreal, Canada.
E’ molto di più.
C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi, forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari - il mito di Orfeo, Camus - e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.
Pronti a entrare nell’olimpo dei grandi.
ATOMS FOR PEACE - Amok
Snobbata dalla critica, la nuova band di Thom Yorke (Radiohead) propone un’elettronica d’avanguardia, in cui - rispetto al recente passato - appare più solida la base ritmica. La monolitica continuità dell’album è interrotta da episodi notevoli quali “Stuck together pieces”, il singolo (atipico, come singolo) “Judge jury and executioner” e “Unless”, il manifesto della nuova stagione della disillusione: ”Non me ne potrebbe fregare di meno”.
24
DAFT PUNK - Random Access Memories
DISCLOSURE - Settle
Ecco invece due dischi sopravvalutati.
Il caso più clamoroso è quello del duo parigino dei Daft Punk, incensati da VIP, gente comune e nostalgici della disco ‘80. Moroder addirittura in un cameo parla di “the sound of the future”. A noi invece sembrano a volte una stanca riedizione dei Kraftfwerk, e il loro suono metallico pare la colonna sonora di vecchi videogames come Nibbler o Donkey Kong. I pezzi più belli, le collaborazioni con Panda Bear e Gonzales.
Molte parole si sono fatte anche per il debutto dei londinesi Disclosure. In patria sono i nuovi idoli della scena underground danzereccia. Tre-quattro cose da ricordare, come “When a fire start sto burn”, “Latch” e “January”. E, anche qui, tante cose già sentite altrove.
23
DAUGHTER - If You Leave
Incidono per la 4AD, sinonimo di garanzia. Siamo in territori dark, musica da camera scarna, tormentata e delicatamente malinconica, testi poco allegri (eufemismo) e claustrofobici ("Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere").
Riferimenti del nuovo millennio: St.Vincent, Soap&Skin, Bon Iver, XX.
22
PEARL JAM - Lightning Bolt
Il solito disco onesto dei Pearl Jam.
21
DEPECHE MODE - Delta machine
La band di Gore recupera le sonorità cupe e claustrofobiche di uno splendido passato (“Black celebration” e “Songs of faith and devotion”), ammiccando alle atmosfere dark anni ’80 e al minimalismo tech della nuova scena elettronica (Autechre, Four Tet, Seefeel).
Quello che colpisce è la perfezione quasi assoluta del sound.
20
DAVID BOWIE - The Next Day
Un nuovo giorno. Partire dal (glorioso) passato e guardare al futuro.
Un Bowie in gran forma.
19
NATIONAL - Trouble Will Find Me
Ripetersi senza ripetersi è sempre difficile.
Tuttavia, la loro raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale (Joy Division, Leonard Cohen, Nick Cave, Tindersticks) pur non essendo rivoluzionaria funziona sempre alla grande.
18
DEERHUNTER - Monomania
Non può essere eletto capolavoro di una carriera ormai decennale, ma “Monomania” è un concentrato di sonorità made in USA: echi lontani dei Sessanta (Love, Byrds), il lo-fi psichedelico a là Flaming Lips e Sebadoh, il Beck più casinista e artistoide, addirittura il garage degli Stooges (e dei Fall di Mark E Smith).
17
FOALS - Holy fire
Uno dei gruppi inglesi più interessanti degli ultimi tempi, almeno per chi scrive, amante del prog-rock (King Crimson, i primi Genesis, i Van der Graaf) e della scuola di Canterbury (e qui troviamo rimandi all’opera del maestro Bob Wyatt). Ascolto più che gradevole, sul quale spiccano almeno due gemme come “Bad Habit” e la minimale “Stepson”, ballata ipnotica e ripetitiva, oltre al singolo “Inhaler” - che ricorda i Jane’s Addiction.
16
DELOREAN - Apar
Arrivano dai Paesi Baschi e prendono il nome dalla macchina del tempo di “Ritorno al Futuro”.
Suonano un dreampop di gran classe.
15
IRON & WINE - Ghost on ghost
JOHN GRANT - Pale Blue Ghosts
Ovvero: Fantasmi 2.0
Abbandonato il folk da strada degli esordi, Iron&Wine prosegue il suo percorso verso un sound ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon.
Ex-leader degli Czars, Grant si era appena messo alle spalle una fase a dir poco turbolenta della sua vita quando scopre di essere sieropositivo. Smarrite le ultime, poche, certezze, da alle stampe il suo secondo album solista: discontinuo, cupo, drammatico, a tratti ancora magico.
14
MY BLOODY VALENTINE - MBV
Capostipiti della scena shoegaze, gli irlandesi tornano dopo ben 22 anni: è subito trionfo di critica e pubblico.
Meritatissimo.
“MBV” riprende il filo interrotto, costruendo muri di chitarre elettriche e di feedback a fare da sfondo a melodie eteree e ipnotiche.
13
ANNA CALVI - One breath
JULIA HOLTER - Loud city song
Le donne dell’anno.
Per la prima, autrice inglese di origini italiane, è stato scomodato Jeff Buckley.
Per la seconda, dal Michigan, addirittura Robert Wyatt.
Curiosi?
12
GOLDFRAPP - Tales of us
Nativa del Middlesex, Alison Goldfrapp è la splendida voce dell’omonimo duo, da sempre avvicinato dalla critica alla scena di Bristol.
Dopo un lungo silenzio, “Tales of us” è, più che una collezione di brani musicali, una vera e propria raccolta di racconti, dieci tracce dedicate ad altrettanti personaggi.
Musica da camera, senza tempo.
11
FUCK BUTTONS – Slow focus
DARKSIDE - Psychic
A Bristol fanno stanza anche i Fuck Buttons, autori di straordinarie cavalcate elettroniche.
I loro fottuti bottoni ci regalano strumentali tra la psichedelica e il krautrock, con echi dreamy e di danze tribali.
Colonna sonora di un futuro alle porte.
Notevole anche il disco dei Darkside:
Ambient? Elettronica d’avangiardia? Chambertronica?
Al diavolo le etichette, lasciatevi conquistare dai suoni e dalle atmosfere del nuovo progetto di Nicholas Jaar.
10
MUM - Smilewound
I Mum sono noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia minimale e misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa - vengono dall’Islanda - possono immaginare.
9
MASSIMO VOLUME - Aspettando i barbari
A distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica, i bolognesi Massimo Volume riescono ancora a stupire e a emozionare.
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto impietoso di un tempo corrotto come il nostro.
8
VAMPIRE WEEKEND - Modern vampire of the city
Ne abbiamo spesso parlato male, in passato. Li avevamo accusati di non volere crescere. E invece i ragazzi newyorchesi sono diventati grandi, ma grandi davvero. Un bel passo in avanti per un disco godibile: il migliore pop in circolazione.
7
THESE NEW PURITANS - Field of reeds
Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea.
Il loro terzo album è lontano dalla nu-wave degli esordi, e suona come un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, con orchestrazioni raffinate e minimali.
“Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.
6
KANYE WEST - Yeezus
Il genere non ci fa strepitare, ma come si può definire il genere di un disco come “Yeezus”: un sound più minimale rispetto al passato, ripulito e portato all’essenziale, quasi sperimentale; tracce di psichedelica e di suoni sixties - addirittura un sample di “Strange fruit”, nella versione di Nina Simone; ospiti illustri come Frank Ocean e Justin Vernon - aka Bon Iver -, tra i nostri preferiti.
E un diluvio di fuck: “Fuck you and your corporation/Y’all niggas can’t control me”, che nemmeno il Grande lebowski.
Insomma, lui è davvero gradasso (“I am God” (featuring God), “I just talked to Jesus, he said, ‘what up Yeezus?’” – oppure: "Ora, faccio solamente ciò che voglio, quando voglio, come cazzo voglio. Vaffanculo è il mio messaggio"), però è impossibile non ammettere che è proprio bravo.
(Fuck).
5
BILL CALLAHAN - Dream river
MARK KOZELEK & DESERTSHORE - Mark Kozelek & Desertshore
Chi ha detto che non nascono più grandi cantautori?
Bill Callahan, ad esempio, è uno di quelli che in futuro potrebbe essere affiancato a Cohen, Waits, Newman, Dylan…
L’ex leader degli Smog ha un magnifico timbro vocale, quasi baritonale, con il quale interpreta in modo personale e sofisticato le sue canzoni quiete, minimali, notturne. Canzoni che parlano della grande periferia americana, di praterie sconfinate e di motel fatiscenti, di lunghe strade che si perdono all’orizzonte e di pickup sgangherati. Canzoni che narrano di solitudine e paura, di angoscia e alienazione.
Prolifico come pochi, l’ex Red House Painters e Sun Kil Moon è uscito nel 2013 addirittura con due album. Il più notevole nasce dalla sua collaborazione con i Desertshore. Qui l’atmosfera è meno rilassata e più elettrica, il tono meno monocorde, c’è spazio per cambi di ritmo e divagazioni.
4
ARCTIC MONKEYS - AM
La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è più complessa.
L’album si apre con una spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” e “R U Mine?” - due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo – e si chiude con una mielosa “Mad sounds” che termina in un Ullallà-ù di cui le scimmie sembrano non avere vergogna, a dimostrazione di una maturità raggiunta.
(Chissà cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).
3.
NICK CAVE & THE BAD SEEDS - Push the sky away
Era dai tempi del bellissimo “No More Shall We Part” che l’artista australiano non trovava una simile ispirazione.
“Push the Sky Away”, quindicesimo album ufficiale del nostro con i Bad Seeds (che nel frattempo hanno perso Bargeld e Harvey, ma ritrovato Adamson), è un clamoroso ritorno alle atmosfere languide e rarefatte dei suoi capolavori.
2.
JAMES BLAKE - Overgrown
“Overgrown” (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta - Blake è del 1988) è il significativo titolo del nuovo lavoro di questo enfant prodige della scena dubstep londinese.
Una voce emozionante, struggente, matura e personale. Brani minimali e aspri, quasi spettrali, e poche concessioni a ritmi più sincopati e a un’elettronica house.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra.
1
ARCADE FIRE - Reflektor
“Reflektor” non e’ il disco dance della straordinaria band di Montreal, Canada.
E’ molto di più.
C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi, forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari - il mito di Orfeo, Camus - e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.
Pronti a entrare nell’olimpo dei grandi.
martedì 24 dicembre 2013
LA LUNA INGABBIATA DI PIAZZA DEI CAVALLI
E’ difficile visitare la luna ingabbiata di Piacenza senza chiedersi il perché.
Ecco qui la storia: non molti anni fa c’era un falconiere che
abitava nei pressi di Piacenza e che aveva bisogno di un aquilone rosso,
che stesse fermo in aria, per addestrare i suoi falchi. Per costruire
un tale oggetto non sapeva a chi rivolgersi, fin quando non venne a
sapere che un siciliano residente in Sabina¹ aveva una fabbrica, o
meglio dire un laboratorio, famoso per rendere reali tutti i desideri
dei clienti che avevano a che fare con l’aria e con il cielo. Infatti, e
non a caso, costui costruiva aquiloni di tutte le misure per mettere in
volo gli oggetti più strani, dalle lettere d’amore alle bottiglie di
spumante, dagli occhiali da sole ai libri. L’uomo accettò la sfida, ma
quando scese dal treno a Piacenza per vedere il cielo sul quale il
falconiere avrebbe dovuto far volare il suo aquilone trovò tanta, ma
così tanta nebbia, che decise che prima di pensare ai falchi, doveva
pensare ai piacentini, spesso tristi e sconsolati per i lunghi periodi
di giorni grigi, senza mai poter vedere il nero profondo del cosmo
illuminato dalle stelle.
La fitta nebbia aveva da tempo reso intollerabile la vita ai poeti,
agli innamorati, ai creativi, i quali avevano iniziato a dare dei
brutti segnali di perdita dell’immaginazione, dell’ispirazione, dei
sogni...
Così il piccolo siciliano pensò a una soluzione brillante: decise
che i piacentini, se non potevano vedere le stelle, avrebbero potuto,
almeno ogni giorno, vedere la luna piena. E allora prese il suo aquilone
più potente e lo fece volare sempre più in alto, finché le sue ali non
sbatterono contro una luna un pochino più piccola di quella che vediamo
nei cieli, una sorta di sorella minore di quella originale, e i suoi
fili si intrecciarono con le pungenti montagne rocciose. Quando l’omino
sentì, attraverso il filo, di averla presa, la tirò giù, e per
proteggerla la depose per un piccolo periodo nella torretta di Piazza
Cavalli. Il suo piano era quello di lasciarla libera e di portarla a
terra solo quando ci fosse stata la nebbia ma, un brutto giorno, i
signori della torre decisero di impadronirsi per sempre della luna,
chiudendo con dei vetri gli archi della torre, e da allora la piccola
luna non può più tornare nello spazio.
E il suo amore, per il fortissimo dolore, piange nel cielo e dal
cielo le lacrime si trasformano, a contatto col suolo, in una nebbia che
si fa sempre più fitta.
P.S.: l’addestratore dei falchi, invece, ha deciso di emigrare verso cieli più sereni.
Note:
1) Sabina, zona collinare a nord della città di Roma, famosa per il Ratto delle Sabine.
Patricia Ferro è di origine argentine e quindi di radici
europee, architetto di professione, specializzata in energie varie.
Eclettica e curiosa di tutto, fatica a vivere in un mondo dove non si
ride molto. Nonostante fosse una frana a scuola in letteratura, è
riuscita solo ora a scrivere qualche racconto degno di essere
pubblicato. Le piace leggere, viaggiare e incontrare gente strana con la
quale spaziare a 360 gradi su temi correlati alla fisica, all’arte,
all’architettura, alla società e alla blue economy. Vive a Piacenza,
città di cui si è innamorata, ma non della sua insistente nebbia alla
quale è sempre più allergica. Ciò si riflette chiaramente nella sua
opera letteraria.
LA TIPOGRAFIA DAL MURON
La tipografia ha sede presso un elegante palazzo residenziale risalente
alla seconda metà del settecento, caratterizzato da una facciata
tripartita, un cornicione finemente lavorato con decorazioni floreali e
putti, e da una piccola edicola votiva sopra il portone principale.
L’ingresso alla tipografia, situato nel cortile oltre l’androne
caratterizzato da una bellissima scala di epoca barocca, dalle curve
sinuose, introduce in uno spazio dedicato all’esposizione di strumenti
utilizzati nelle tipografie dall’Ottocento a oggi: cliché, rulli
inchiostratori, la chiave per serraforma, il compositoio, la battitoia,
il mazzuolo, pinze, spago, il tipometro, piombi, e ancora arnesi come
cacciaviti e chiavi inglesi usati per la regolazione delle macchine da
stampa. Da qui si accede a uno scantinato in cui trova collocazione una
macchina da stampa offset-piana dotata di sbobinatore, calamaio, gruppo
di macinazione, rulli bagnatori, cilindro porta-caucciù, cilindro di
contropressione. La macchina, che può stampare a quattro colori, è nota
per avere l’esclusiva della stampa del “Libar dal Muron”, il celebre
testo che per i piacentini sta a indicare un tipo di formazione elargita
a studenti culturalmente poco dotati che invece si credono detentori di
un livello di istruzione elevato. Si tramanda il detto: “L’ha studiä al
libar dal Muron: pö la studiä, pö al dveinta cuiön”. In passato la
tipografia fu gestita da un unico tipografo di cui non è pervenuta
l’identità, così come del garzone che lo aiutava. I due si avvalevano di
un torchio in metallo, già evoluto rispetto agli esemplari di legno di
inizio Ottocento. Secondo la tradizione, lo scantinato era umido e pieno
di inchiostro, e questo creava una perenne coltre nera nel poco spazio a
disposizione. Il soffitto del locale era talmente basso che i due
uomini passavano tutto il giorno - e sovente anche la notte - chini sul
torchio. Questa tipografia si dedicava per lo più ad attività di
cancelleria e a pubblicazioni di documenti clericali. Fu all’incirca
intorno al 1890 che al tipografo in questione fu commissionata, da parte
di un facoltoso piacentino, la stampa di un libro che doveva costituire
la base per la formazione culturale del suo figliolo, futuro erede di
tutti i possedimenti. Il precettore del giovane era un tale Oliviero
Bosoni, maestro letterato e presunto scrittore, che aveva sentito
parlare dell’esistenza di un testo policulturale, una sorta di
enciclopedia, scritta da un certo Gaetano Moroni intorno alla metà del
1800, sulla scorta dell’esempio di Diderot oltralpe. Il Bosoni si affidò
alle dicerie dei colleghi insegnanti che decantavano le lodi di questo
testo, a parere loro completo di tutte le nozioni necessarie di
geografia, arte, bella scrittura, persino di cucina che nel nostro
territorio di certo non guastava. Alla tipografia furono ordinate dieci
copie che tramite il Bosoni finirono nelle biblioteche dei figli dei
signorotti locali, i quali non persero occasione di riconoscersi
titolari del massimo sapere nel piacentino. Dieci copie che costituivano
una rarità e suscitarono le invidie di chi ne venne a conoscenza troppo
tardi per poterne beneficiare. Luigi Illica, noto commediografo e
librettista, incuriosito dalla fama che il presunto testo enciclopedico
aveva sviluppato in città e persino in provincia, riuscì a procurarsene
una copia. Subito dalle prime pagine si rese conto che si trattava in
realtà di un “Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica” con
qualche appendice su personaggi storici dell’epoca, ma lontano da quella
valenza culturale che il Bosoni gli voleva attribuire. Illica informò
gli intellettuali della sua cerchia del malinteso e ridimensionò dunque
la funzione pedagogico-intellettuale del testo, e descrivendone i reali
contenuti. In ogni caso la tipografia resta ancora oggi conosciuta come
la Tipografia dal Muron e i visitatori possono ammirare il funzionamento
della macchina da stampa offset, nonché commissionare una copia del
libro a soli 10 € se in bianco e nero, a 15 € se a colori.
Bibliografia: AA.VV. , “Libri celebri dell’Ottocento piacentino”, ed. LiberoArbitrio, Milano Lambrate, 1998. G.Lolli: “Al Muron e i sò cuion, storia e curiosità della cultura piacentina”, ed. FantasticiEditori, Parma, 2002.
Manuela Merli nasce come assidua lettrice dai tempi delle medie, e coltiva la passione della scrittura in gran segreto fino a quando decide di iscriversi a un laboratorio di Gabriele Dadati. Nel 2011 partecipa alla Bottega di Narrazione, ideata dallo stesso Dadati e da Giulio Mozzi. E’ laureata in Economia e commercio e lavora come impiegata contabile presso la Groppalli srl. Ha vissuto a Sarmato, poi a Piozzano e da qualche anno si è stabilita a Gragnano. Vive con Nicola in un appartamento affacciato su una via percorsa da tutti gli amici a quattro zampe del paese. Adora la provincia di Piacenza da cui non si allontanerebbe mai per paura di perdere il profumo dei salumi, le balere estive, le colline dolci e quella tipica chiusura dell’emiliano medio che si sa far amare da tutti.
Bibliografia: AA.VV. , “Libri celebri dell’Ottocento piacentino”, ed. LiberoArbitrio, Milano Lambrate, 1998. G.Lolli: “Al Muron e i sò cuion, storia e curiosità della cultura piacentina”, ed. FantasticiEditori, Parma, 2002.
Manuela Merli nasce come assidua lettrice dai tempi delle medie, e coltiva la passione della scrittura in gran segreto fino a quando decide di iscriversi a un laboratorio di Gabriele Dadati. Nel 2011 partecipa alla Bottega di Narrazione, ideata dallo stesso Dadati e da Giulio Mozzi. E’ laureata in Economia e commercio e lavora come impiegata contabile presso la Groppalli srl. Ha vissuto a Sarmato, poi a Piozzano e da qualche anno si è stabilita a Gragnano. Vive con Nicola in un appartamento affacciato su una via percorsa da tutti gli amici a quattro zampe del paese. Adora la provincia di Piacenza da cui non si allontanerebbe mai per paura di perdere il profumo dei salumi, le balere estive, le colline dolci e quella tipica chiusura dell’emiliano medio che si sa far amare da tutti.
LA MURAGLIA BAVARESE
In via Taverna - proprio di fianco al centro per la promozione
patriottica Italia, per Cristo - ha da poco aperto i battenti un nuovo
ristorante multiculturale cino-germanico. La muraglia bavarese si
presenta, già dal suo nome, con un insolito mix tra estremo Oriente e
profonda Baviera.
L’ambiziosa architettura dell’ingresso è composta da due massicce
colonne a forma di dragoni, che stendono tra le grinfie la bandiera a
scacchi bianchi e azzurri tipica della regione tedesca.
All’interno l’arredamento soddisfa le aspettative che si creano
all’entrata. Lunghe tavolate di legno d’abete sono affiancate da robuste
panchine del medesimo materiale e, come da tradizione, vi potrebbe
capitare di condividere il desco con altri clienti. Alle pareti spiccano
grandi arazzi raffiguranti nobili della dinastia Ming, e quadri di
grandi foreste di bambù. Il locale si compone di tre sale divise da
eleganti paravento in carta di riso.
Il personale che si occupa di tutto il servizio è vestito di una
lunga vestaglia di seta rossa, che copre una salopette corta di fustagno
marrone. Ai piedi scarponi rigidi, con l’attacco automatico per i
ramponi da ghiaccio.
Sono da provare nel menu: gli involtini primavera ripieni di
crauti, i canederli di fegato al curry e germogli di soia, i brezel alla
cantonese, i ravioli al vapore con salsiccia di maiale, lo stinco misto
caldo con nuvolette di gamberi, la Sacher torte fritta in pastella e la
coppa Monocina con marmellata di nespole. Se proprio non gradite
l’acqua, potrete trovare una birra miscelata fatta con la pils HB e la
Tsingtao. La cantina è, invece, un luogo vuoto e umido dove si tengono
la scopa e il mocio.
Purtroppo non tutti hanno la sensibilità per apprezzare l’estro
creativo dello chef Adolf Chan. “Provatelo se volete togliervi la
curiosità su che sapore possa avere il contenuto del sacchetto dei
rifiuti”, dice Annibalo Trivulzio sulla rivista culinaria Infornalo.
“Mandateci un amico. Quando perde una scommessa”, consiglia Armande
Parmantier su Enjambement, il giornale francese di cucina interrotta.
Ancora, Giorgio Teroldego ammonisce, nella sua rubrica dedicata ai vini e
al traffico Imbottigliati: “Se vi piace quel posto vi tolgo dagli amici
di facebook”. Ultimo, ma non di minore importanza, il critico Antonicco
Sgarrapazzi sul periodico di cucina minimalista Nutriti: “Questo locale
mi ricorda i profumi di quando i miei genitori mi portavano a passare
l’estate dai nonni. Ma io odio i cimiteri”.
Marco Murgia nasce all’ospedale di Ponte Dell’Olio, il
quale, reo di aver permesso questo, nel giro di pochi anni viene chiuso e
convertito in una clinica riabilitativa. Per vendicarsi di quest’antica
vicenda, Marco si laurea in psicologia con una specialità
neuropsicologica e inizia un periodo di praticantato proprio tra quelle
stesse mura, animando dall’interno rivolte sovversive, scambiando i
referti radiologici e togliendo il tonno dai tramezzini preparati per
l’ufficio amministrativo. Ora, conclusa la sua vendetta, si occupa di
psicogeriatria. Irriducibile giocatore di calcio a cinque, appassionato
di montagna, quando non può farne a meno scrive anche dei racconti. Il
suo ultimo lavoro è la raccolta “I fratelli Ammazzatempo” (ed. Creativa,
2013).
LA TRATTORIA DEL POETA
Piazza Castello sn, Vigolzone.
Orari: il ristorante è aperto tutti i giorni a pranzo e a cena, escluso il lunedì.
È gradita la prenotazione al numero 0523.0989898 o scrivendo una mail all’indirizzo trattoriadelpoeta@tclc.it
Si trova nella parte più antica del paese una trattoria che offre
piatti tipici della cucina piacentina, primo fra tutti quello che ha
fama di aver avuto origine proprio a Vigolzone e che è protetto con il
marchio DeCO. (denominazione comunale d’origine) dal comune stesso: i
tortelli alla piacentina con la coda e il ripieno di magro. La
tradizione vuole che una cuoca della corte degli Anguissola avesse
appreso, lavorando presso nobili casate in altre parti d’Italia, la
ricetta di una sorta di gnocchi composti da ricotta, bietole e formaggio
grana, che nella vicina provincia di Alessandria si chiamavano rabaton,
in Toscana gnudi, a Bobbio malfatti e altrove prendevano il nome di
strozzapreti. Per quanto gustosi risultavano tuttavia piuttosto scomodi
da maneggiare, dal momento che non si conosceva l’uso delle posate. Fu
per questo che, quando nel 1351 Francesco Petrarca fu ospite dell’amico
Bernardo Anguissola¹ e si volle rendergli onore con uno splendido
banchetto, la cuoca decise di racchiudere il ripieno in una sottile
sfoglia chiusa a treccia, con una breve coda da afferrare con le dita.
Il nome tortello, dal latino tortus o tortulus, significa infatti
intrecciato.
La Trattoria del Poeta presenta i tortelli conditi semplicemente
con burro fuso profumato da una foglia di salvia, servendo a parte un
sugo ai funghi porcini, per chi volesse arricchire il piatto con i
sapori dei boschi dell’alta val Nure. La costruzione in cui si trova il
ristorante è una casa rurale di origine medievale, riconoscibile per gli
spessi muri scarpati e le piccole finestre a strombo che si affacciano
sulla piazzetta del castello. Di recente nella parte posteriore è stato
ricavato un giardino estivo porticato per consumare i pasti all’aperto e
un parcheggio riservato agli ospiti. Internamente il locale si presenta
suddiviso in due ambienti dai soffitti bassi con travi a vista,
arredati sobriamente con antichi tavoli di noce scuro e sedie
impagliate.
La Trattoria del Poeta fu fondata sui primi del Novecento dalla
bisnonna della signora Lucia, attuale proprietaria, e, al contrario di
quanto si potrebbe credere, non è affatto intitolata al Petrarca, la cui
presenza a Vigolzone è collegata all’invenzione dei tortelli con la
coda. Il poeta cui si allude nel titolo, forse meno illustre, ma caro ai
piacentini, è il cantore di casa nostra Valente Faustini², assiduo
frequentatore della trattoria, al cui piatto forte dedicò nel 1913 l’ode
I turtei. La possiamo leggere suddivisa in strofe e trascritta a grandi
lettere in corsivo, che riproducono la grafia dell’autore, sui
tabelloni permanenti che tappezzano le pareti del locale. In apertura il
poeta ci ricorda che, per quanto si possa essere fortunati, non c’è da
sperare di avere sempre “i tortelli a misura di bocca”; siccome a questo
mondo è questione di farcela, il tortello, quando capita, è come il
libro della vita: “Dimmi come sono i tuoi tortelli e ti dirò chi sei”.
Perché anche per il tortello esistono regole ben precise: deve
essere svelto di coda e ben unto di sterzo, con la schiena ampia, ma
affusolata, che scivoli dentro la bocca come un topo giù per la
condotta. Dopo aver illustrato le fasi ideali per la sua fabbricazione e
gli ingredienti che ne garantiscono la perfetta riuscita, il
buongustaio Faustini, rivolgendosi alla moglie da poco defunta, non può
che affermare “E il tortello, o mia Giuditta, l’è al conforto de la
vitta!”
Note:
1) La famiglia Anguissola risulta presente sul territorio della
provincia di Piacenza dal X secolo e si afferma in età comunale
ricoprendo i maggiori incarichi cittadini. Con le successive signorie
stabilitesi a Piacenza seppe conquistarsi titoli, feudi e privilegi.
Bernardo Anguissola, generale della cavalleria di Galeazzo Visconti e
grande amico di Francesco Petrarca, ebbe il merito di ricostruire sulla
sponda ovest del Nure la Rocca di Vigolzone.
2) Valente Faustini (Piacenza, 1858-1922) nacque in un palazzo
di Corso Garibaldi, dove, al numero 77, possiamo ancora leggere
l’epigrafe: “Il comune di Piacenza ricorda che in questa casa nacque il 4
marzo 1858 Valente Faustini, poeta vernacolo mirabile interprete
dell’anima popolare piacentina”.
Paola Cerri è nata in città, dove vive e lavora per la
maggior parte dell’anno, ma appena può si rifugia tra le colline della
Val Vezzeno, che ama per la natura, le leggende e le persone, con le
quali condivide i ricordi delle estati passate e le speranze per quelle
future. Archeologa per motivi di studio, insegnante e impiegata per
motivi di sopravvivenza, pratica la lettura e la scrittura per sentirsi
felice. Prima di dedicarsi a descrivere improbabili luoghi fantastici a
potenziali turisti è stata biografa di personaggi illustri immaginari.
Alle strane creature che popolano la sua casa, un marito, un figlio, un
gatto, si è di recente affiancata una Dionaea, pianta carnivora
senz’altro più discreta, ma altrettanto intrigante.
L'ANTICA PALESTRA PER I PELLEGRINI DELLA VIA FRANCIGENA
Il Monte Aserei, mt 1432 slm, sorge tra val Trebbia, val Nure e val
Perino. Nel Medioevo qui passava un tratto della via Francigena di
montagna, detta oggi Via degli Abati. Questo antico percorso univa
Bobbio a Pontremoli e alla via di Monte Bardone (oggi ricalcata dalla
strada della Cisa), ed era uno dei cammini utilizzati dai pellegrini che
dal nord si recavano verso Roma o la Terra Santa.
Scavi archeologici nei pressi della vetta del monte, lungo il
tratto che collega Mareto a Coli, hanno riportato alla luce un campo di
allenamento per pellegrini francigeni. Si tratta di una sorta di
palestra primitiva, suddivisa in varie aree nelle quali gli aspiranti
pellegrini potevano allenarsi in più discipline fisiche così da avviarsi
meglio preparati al faticoso viaggio.
Tra le strutture rintracciate vi sono:
1) una pista ellittica di circa 400 metri: si ritiene servisse per
la preparazione alla corsa giubilante in prossimità della meta, oppure
per le accelerazioni necessarie a sfuggire a briganti e malviventi
dislocati lungo il percorso;
2) una vasca, larga cinque metri e profonda tre, probabilmente utilizzata per l’allenamento al guado di fiumi a nuoto;
3) una vasca, larga due metri e profonda uno, con fondo melmoso e
scivoloso, utilizzata verosimilmente per l’allenamento al passaggio di
torrenti e canali;
4) un salone con grossi macigni. In origine si pensava che i massi,
del peso di alcune decine di chilogrammi, venissero sollevati dagli
aspiranti pellegrini per allenarsi al trasporto dei loro bagagli per le
migliaia di chilometri di cammino. Studi più recenti hanno dimostrato
che i pellegrini avevano ben misere masserizie, per cui si ritiene che
il sollevamento dei massi servisse invece come allenamento muscolare per
meglio reagire agli attacchi fisici (qualora non fosse stata
sufficiente l’accelerazione di cui al punto 1);
5) una pista di circa 10 km che si snoda intorno alla vetta
dell’Aserei. La forte compressione del terreno lungo questo tracciato
dimostra che il percorso veniva ripetuto decine di volte dall’aspirante
pellegrino, si ritiene quindi che fosse una sorta di tracciato da
maratona per preparare al lungo percorso quotidiano;
6) una parete lunga circa 50 metri, con 15 porte costruite in
diversi tipi di legno. La forte consunzione dei batacchi, ovvero (nelle
porte più semplici) del legno a circa 1,5 metri di altezza, ha fatto
ritenere che esse servissero per allenarsi a chiedere ospitalità. Le
diverse tipologie di usci fanno anzi pensare che il pellegrino dovesse
saper bussare a qualunque porta, vista l’alta probabilità di rifiuto
all’accoglienza.
Altre strutture non sono purtroppo più leggibili, essendo state
distrutte dal passaggio di moto e auto fuoristrada che hanno scavato
profondi solchi nel terreno fino a intaccare gli strati archeologici.
Pietro Chiappelloni, piacentino, ama la sua città sin da
quando, transitando in volo sulla Pianura Padana, dirottò la cicogna
proprio qui. Alcuni anni dopo, mise nero su bianco il suo interesse per
il turismo conseguendo il titolo di “Manager per lo sviluppo turistico
territoriale e per la valorizzazione dei Beni Culturali”. Grazie
all’ammirazione suscitata dalla lunghezza di questa e di altre
qualifiche, come quella di “Tecnico per il censimento e il recupero del
patrimonio architettonico rurale e montano”, può permettersi di scrivere
sia cose serie sia stupidaggini senza che i lettori capiscano se ciò
che stanno leggendo siano cose serie o stupidaggini. Se necessario può
comunque esibire anche altri titoli, che vanno dalla laurea in Economia e
Commercio alla qualifica di Ispettore del Club di Topolino.
IL COMPLEANNO DI EVA
E’ in
libreria da settembre la nuova prova letteraria di Francesco Rago, giovane scrittore
piacentino, in passato autore dei romanzi “La porta del mare” (0111 edizioni, 2009)
e “Dolce come il piombo” (Montag, 2011), oltre a numerosi racconti sparsi in
varie antologie.
Si
intitola “Il compleanno di Eva” ed è edito da Parallelo45.
La festa
che da il titolo al romanzo è quella di una giovane rampolla della Piacenza
bene, che si svolge in una grande villa sul Bagnolo: i suoi diciotto anni diventano
lo scenario per un finale pirotecnico, durante il quale si risolvono le storie
parallele su cui si basa l’intreccio narrativo. E’ qui che si ritrovano, dopo
oltre venti anni, i vari personaggi del romanzo.
Ci sono Matteo
e Giovanni, due ragazzi assai diversi (“pesci d’acqua dolce e pesci d’acqua
salata”) che si incontrano a metà degli anni Novanta sui banchi di scuola. Il
primo, genialoide e introverso, è il classico nerd che non ci sa fare con le
ragazze; il secondo, più scafato e temerario, è attratto dal talento artistico
del primo e lo prende sotto la sua ala protettrice, diventando in breve tempo
una sorta di guida spirituale. La storia della loro tenera amicizia, che
deflagra irrimediabilmente durante un interrail in Spagna, è per chi scrive la
parte più bella del romanzo: il tema dell'iniziazione alla vita e' trattato con
garbo e sensibilità, le situazioni sono credibili e rimandano al nostro vissuto
di quella generazione.
Ma Rago
se la cava egregiamente anche con un tema più vischioso come il riscatto di una
prostituta ungherese dal passato torbido (Vera), poco più che adolescente, da
parte di un viscido gestore di locali notturni, Paride, dedito ai vizi e agli
eccessi. A differenza di “Un amore” di Dino Buzzati, qui di amore e di redenzione non c’è nulla, solo la volontà
di soddisfare i desideri più lascivi da parte di Paride. Vera è costretta a
seguirlo perché non ha nulla da perdere (“Non ci sarebbero più state occhiate
bovine da dietro il vetro di un finestrino, e nemmeno più il contatto con quei
copri tozzi e indelicati che emanavano odori bruschi e sgradevoli. Nessun
inverno cinico a irrigidire i vasi sanguigni e a mordere la gola”): il suo
vivere è solo un galleggiare mesto nel corso degli eventi, segnata com’è per
sempre dal suo gesto estremo, compiuto in patria prima di una precipitosa fuga
verso l’Italia chiusa in un baule di legno, ovvero l’accoltellamento del padre
incestuoso.
La scrittura
è precisa e gradevole, e il contesto della nostra città è tratteggiato con
crudezza e senza sconti:
“Giovanni
alzò il bavero della giacca per riparasi dal vento gelido. Con un calcio fece
rotolare un sampietrino contro lo spigolo del marciapiede. Una signora anziana
gli gettò addosso uno sguardo di profonda disapprovazione.
Lui se
ne accorse ed esclamò con sprezzo: Questa città mi ha proprio rotto i coglioni!
Matteo
strinse leggermente le spalle (…)
E’
noiosa e grama come ‘sto tempo di merda, continuò Giovanni accompagnando la
frase con un gesto delle mani, come se stesse sostenendo un oggetto invisibile.”
mercoledì 18 dicembre 2013
DECLINO
Non credo ci siano molti dubbi sul fatto che il mondo occidentale si
affanni a rimodularsi, a tappare paurose falle sociali, a cercare
modelli che non siano già stati usurati o abiurati. Alcuni scrittori,
per vie dirette oppure per allegoriche scorciatoie, riescono a entrare
nell’occhio dei vari tifoni internazionali, senza dimenticarsi che lo
sbalordimento, o lo sbandamento, da tempesta riguarda l’intero pianeta.
In fondo i grandi flussi migratori si basano quasi sempre sull’illusione
che esistano da qualche parte le cosiddette isole felici. Un ancora
giovane architetto-narratore di Piacenza, Giovanni Battista Menzani, ha scombussolato il vecchio, e un po’ ingessato, canone narrativo, e ha scritto per LiberAria (vivace e attenta casa editrice di Bari) una serie di racconti (L’odore della plastica bruciata,
164 pagine, 12 euro) che scandagliano, fino a giungere al surreale, la
solitudine, la resa, il precoce invecchiamento dei singoli, oppure arene
sulle quali danzano macabri spettri di un futuro immaginato e che a
immaginarlo fa rabbrividire. Nel racconto intitolato A stomaco vuoto,
Menzani, sempre modulando una scrittura che è molto vicina alla
sceneggiatura, descrive una insegnante quarantenne, dai capelli
ingrigiti, che dorme (male) solo dopo aver ingurgitato pastiglie. Vive
in solitudine. Ricorda di aver stretto una tenera amicizia con un
collega, il quale, dopo una sua esitazione, si alzò dalla panchina
accampando una scusa lasciandola piangere, lì, per tutta la notte.
L’insegnante è ancora precaria, e i precari per l’assegnazione di una
cattedra devono entrare in uno stanzone a metà tra la bolgia e una
sala-Bingo. Le emozioni, sue e di tutti gli altri, non sono indirizzate
verso l’alto, semmai si attorcigliano attorno a un ennesimo rinvio senza
che per questo ci siano movimenti di nuvole gioiose all’orizzonte.
L’insegnante aspetta ore e ore, poi la chiamano e lei, inzuppata di
sudore, ha finalmente il suo posticino in periferia, tra alunni che
insultano e volgarizzano tutto, proprio tutto. Nel racconto Un brutto quarto d’ora
un ragazzo, pur laureato e con specializzazione, tira a campare facendo
l’intrattenitore alle feste organizzate per i bambini. Piccoli giochi,
sorprese poco apprezzate, fiacchi sguardi del pubblico (giovanissimi e
genitori: uniti da un malcelato disprezzo). Finché il protagonista, che
ha sempre detestato i compleanni, a cominciare dal suo che fissò nella
sua mente l’indifferenza del padre, si trova invischiato in una scena da
rapina. Scombussolamento generale, paura. Paura anche sua. Nessuno
l’aveva avvertito. È, ancora una volta, al margine di un mondo al
margine.
Il racconto che chiude la racconta di Menzani, il cui titolo è lo stesso della collezione di queste prose brevi e oggettivamente nevrotiche, descrive una specie di stadio. Si vendono, all’entrata, cartoline che ritraggono uomini e donne «nell’atto del morire». Padre, madre e due figli entrano, e si dispongono su seggiole «su più file, ad assistere in religioso silenzio. Nessun cenno di compassione». Un dubbio: ci sarà il Ministro per la Vendetta del Popolo. Pare di no, si sussurra in giro. Uno dopo l’altro salgono sul palco i colpevoli di reati. Svariati reati. Alcuni efferati. «Mai visto un uomo morire» pensa uno dei figli, il cui padre, che a casa ha abbattuto l’esitazione della moglie, è eccitatissimo e convintissimo che quel circo della morte autorizzata sia educativo, fortificante. Peccato che i suoi ragazzi, dopo la prima morte in diretta, vadano nei bagni a vomitare. I sussulti finali dei predestinati sono più o meno lunghi, a seconda di come resistono alle scariche elettriche (anche 2000 volt). Il circo della giustizia sommaria che assomiglia a un centro commerciale si riempie di puzza di plastica bruciata. Un uomo dalla pelle scura si contorce, impiega tanto a tirare le cuoia. Eppoi la sorpresa: si fa vedere il Ministro per la Vendetta del Popolo, «accolto da un’ovazione». Ringrazia tutti, come si fa al Festival di Sanremo. Ultima frase del suo intervento: «Ringrazio Dio». Nessuno ha modo di contestare o riflettere sulle colpe. Si gridano vari “Amen”. E basta. E quel ragazzo appena diciottenne chiamato a morire bruciato che avrà mai fatto? L’organizzazione fornisce sempre una spiegazione: «Non è proprio uno stinco di santo… è reo confesso di un numero imprecisato di anziane signore benestanti». I bambini, uno dei quali orina in piedi per il ribrezzo e il terrore, di quella futuribile famiglia hanno dato segni di insofferenza. Così pensa il padre, che esce dallo stadio scuro in volto: «Non ne posso più di voi due», sbraita. «Siete proprio due bambini disobbedienti».
Pier Mario Fasanotti, da "Succede oggi", 17 dicembre 2013
Il racconto che chiude la racconta di Menzani, il cui titolo è lo stesso della collezione di queste prose brevi e oggettivamente nevrotiche, descrive una specie di stadio. Si vendono, all’entrata, cartoline che ritraggono uomini e donne «nell’atto del morire». Padre, madre e due figli entrano, e si dispongono su seggiole «su più file, ad assistere in religioso silenzio. Nessun cenno di compassione». Un dubbio: ci sarà il Ministro per la Vendetta del Popolo. Pare di no, si sussurra in giro. Uno dopo l’altro salgono sul palco i colpevoli di reati. Svariati reati. Alcuni efferati. «Mai visto un uomo morire» pensa uno dei figli, il cui padre, che a casa ha abbattuto l’esitazione della moglie, è eccitatissimo e convintissimo che quel circo della morte autorizzata sia educativo, fortificante. Peccato che i suoi ragazzi, dopo la prima morte in diretta, vadano nei bagni a vomitare. I sussulti finali dei predestinati sono più o meno lunghi, a seconda di come resistono alle scariche elettriche (anche 2000 volt). Il circo della giustizia sommaria che assomiglia a un centro commerciale si riempie di puzza di plastica bruciata. Un uomo dalla pelle scura si contorce, impiega tanto a tirare le cuoia. Eppoi la sorpresa: si fa vedere il Ministro per la Vendetta del Popolo, «accolto da un’ovazione». Ringrazia tutti, come si fa al Festival di Sanremo. Ultima frase del suo intervento: «Ringrazio Dio». Nessuno ha modo di contestare o riflettere sulle colpe. Si gridano vari “Amen”. E basta. E quel ragazzo appena diciottenne chiamato a morire bruciato che avrà mai fatto? L’organizzazione fornisce sempre una spiegazione: «Non è proprio uno stinco di santo… è reo confesso di un numero imprecisato di anziane signore benestanti». I bambini, uno dei quali orina in piedi per il ribrezzo e il terrore, di quella futuribile famiglia hanno dato segni di insofferenza. Così pensa il padre, che esce dallo stadio scuro in volto: «Non ne posso più di voi due», sbraita. «Siete proprio due bambini disobbedienti».
Pier Mario Fasanotti, da "Succede oggi", 17 dicembre 2013
martedì 17 dicembre 2013
LA BUSA DAL MISSIL
Ambiente naturalistico nel Parco fluviale del Trebbia
caratterizzato dalla totale assenza di acqua superficiale anche nei mesi
più piovosi.
L'alveo ghiaioso conserva le tracce di impetuosi riversamenti di
acqua le cui memorie si perdono nel passato. Nascosti nei cespugli e
negli arbusti, sulle rive, nidificano specie particolari di volatili,
mentre nei fondali dei cosiddetti buconi non sono rari gli incontri con
animali selvatici quali faine, volpi, lepri, orsi e pantegane. Le rive
del fiume sono ideali per passeggiate in bicicletta e a piedi, con
percorsi che iniziano dalla foce del Trebbia e arrivano fino al medio
corso del fiume. Le anse e le depressioni dell'alveo nascondono reperti
storici e in alcuni punti si verificano delle alterazioni del campo
magnetico terrestre. Nella büsa non sono rari gli avvistamenti di luci e
creature non identificate specie nelle ore notturne, tanto che la zona
viene frequentata dagli appassionati di ufologia e dagli ornitofili.
All'inizio degli anni Settanta si diffuse la voce - in quel di
Gragnano Trebbiense - che in un tratto del greto del Trebbia, posto
all'incirca tra la Noce di San Nicolò e Rivalta, si potevano incontrare
gli UFO, termine all'epoca coniato da poco e molto di moda, riflesso
delle esplorazioni lunari effettuate dalla NASA. Nelle sere estive
divenne consuetudine, tra i ragazzini del paese, andare in bicicletta in
Trebbia per cercare un incontro ravvicinato del terzo tipo. Si
raccontava, infatti, di luci in rapido movimento, seguite da gemiti ed
urla di persone che venivano rapite dagli alieni.
Fu così che una sera un gruppo di giovani in sella alle loro
biciclette, dopo una sosta alla Cassulana a mangiare le aspre mele della
pianta vicino alla strada di Sordello, si recò in Trebbia e si appostò
in una radura sul greto del fiume, nella zona suppergiù indicata dalle
persone informate dei fatti, compresa all'incirca tra Mamago e
Casaliggio. Dopo una interminabile attesa finalmente si videro in
lontananza delle luci in rapido avvicinamento. Il gruppo venne preso da
un terrore da gelare il sangue nelle vene, ma anche da una forte
curiosità. Le luci scomparvero improvvisamente dietro una montagna di
ghiaia nei pressi dell'appostamento. Dopo pochi minuti si udirono delle
grida sconvolgenti: una donna stava per essere rapita dagli UFO! La
poveretta urlava a squarciagola “Cielo!!!!! Vengoooooooo!!!!!”
I ragazzini, presi dal panico, inforcarono le biciclette e
fuggirono, tornando in paese. Arrivati a casa, trascorsero la notte
insonne, sognando esseri verdi e mostruosi che rapivano l'innocente
fanciulla.
Il giorno dopo la notizia dell'incontro con gli extraterrestri fece
velocemente il giro del paese; al bar Gatti, in piazza, non si parlava
di altro. I più informati localizzavano il sito in un bucone dove
qualche anno prima era annegato un ragazzo, il cui corpo non venne mai
ritrovato.
Sfruttando la moda degli UFO in Trebbia, venne allora aperta una
discoteca chiamata addirittura Cosmo, che divenne il ritrovo dei giovani
e punto di partenza per l'osservazione delle creature aliene. Si narra
che anche una assidua e procace frequentatrice del locale confermasse
più incontri ravvicinati, sostenendo che “un missil azzè gross 'n l'èva
mèi vist!”
La discoteca però chiuse i battenti dopo pochi anni e venne
trasformata in un allevamento di polli. Rimane ancora il mistero del
luogo degli avvistamenti delle strane luci nel Trebbia, che pare
ritornino periodicamente, tanto che anche i moderni media trattano del
misterioso argomento: un luogo misterioso del nostrano fiume, che rimane
definito come la Büsa negra dàl missil.
Claudio Sesenna è un architetto libero professionista. Ha
insegnato per dodici anni alla Scuola Edile, ove ha approfondito e
sperimentato con successo innovative modalità di comunicazione con le
maestranze del settore, spesso extracomunitarie, basandosi sull’ironia e
l’allusione. Queste caratteristiche ricorrono nel suo stile di vita e
di lavoro: infatti oltre alla scrittura si diletta realizzando
caricature - firmandosi con lo pseudonimo Priapus - con le quali ottiene
i maggiori successi professionali.
domenica 15 dicembre 2013
I RIPESCAGGI DI DICEMBRE (MUM, THESE NEW PURITANS, MASSIMO VOLUME)
Dicembre, è tempo di
ripescaggi.
In prima fila segnaliamo la sesta fatica dei Mum, dall’Islanda, noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica eterea e fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia caleidoscopica ma misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa possono immaginare. Il singolo “Tootwheels”, che apre l’album, non può mancare nelle compilation di fine anno, ma tutta la raccolta è di alto livello: fanno meglio anche dei conterranei Sigur Ros, che con “Kveivur” confermano i segnali di stanchezza degli ultimi tempi.
Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea, Inghilterra, e sono costituiti dai gemelli Barnett e da Thomas Hein (Sophie Sleigh-Johnson ha recentemente abbandonato il gruppo). Il loro terzo album è lontanissimo dalla nu-wave degli esordi: il loro è un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, vicino alle atmosfere della prima 4AD, con orchestrazioni raffinate e minimali. “Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.
Ultima segnalazione del 2013, prima del consueto pagellone di fine anno (prossimamente su questi schermi), è per i bolognesi Massimo Volume, che a distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica riescono ancora a stupire e a emozionare con “Aspettando i barbari”.
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto doloroso e impietoso di un tempo inquieto come il nostro.
In prima fila segnaliamo la sesta fatica dei Mum, dall’Islanda, noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica eterea e fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia caleidoscopica ma misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa possono immaginare. Il singolo “Tootwheels”, che apre l’album, non può mancare nelle compilation di fine anno, ma tutta la raccolta è di alto livello: fanno meglio anche dei conterranei Sigur Ros, che con “Kveivur” confermano i segnali di stanchezza degli ultimi tempi.
Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea, Inghilterra, e sono costituiti dai gemelli Barnett e da Thomas Hein (Sophie Sleigh-Johnson ha recentemente abbandonato il gruppo). Il loro terzo album è lontanissimo dalla nu-wave degli esordi: il loro è un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, vicino alle atmosfere della prima 4AD, con orchestrazioni raffinate e minimali. “Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.
Ultima segnalazione del 2013, prima del consueto pagellone di fine anno (prossimamente su questi schermi), è per i bolognesi Massimo Volume, che a distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica riescono ancora a stupire e a emozionare con “Aspettando i barbari”.
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto doloroso e impietoso di un tempo inquieto come il nostro.
sabato 14 dicembre 2013
FIORI APPASSITI
"Le piante stanno progressivamente
spegnendosi, e lo fanno a una velocità insperata. Le foglie
ingialliscono e cadono rinsecchite nei vasi colmi di terriccio arido e
polveroso. I fiori appassiscono e perdono petali. Solo i gerani
oppongono una strenua resistenza. Alla fine, ne sono convinto, crolleranno anche loro sotto il peso della grandiosità del mio disegno".
("L'odore della plastica bruciata", Giovanni B. Menzani, collana Meduse)
("L'odore della plastica bruciata", Giovanni B. Menzani, collana Meduse)
venerdì 13 dicembre 2013
IL VILLAGGIO TURISTICO BELSABBA
Zona Ronco, ingresso tra il settimo e l’ottavo faggio. Il
villaggio, inaugurato nel 1208, è ubicato nella zona boschiva sopra
Velleia Romana. L’entrata si trova lungo la mulattiera che da Velleia
sale al Parco Provinciale del Monte Moria, appena prima della quercia
contorta.
Il resort è rinomato luogo di soggiorno per stregoni e streghe.
Satana in persona è stato gradito ospite della struttura e ha lasciato
come ricordo l’impronta dei suoi zoccoli all’ingresso della villaggio
turistico, che a fronte di questa frequentazione eccellente si è
guadagnato un’ottima recensione nella guida Witchy planet. Nel villaggio
sono ben accetti elfi, folletti e altre creature magiche, che
soggiornano gratuitamente se accompagnate da una strega o da uno
stregone.
I servizi disponibili sono: parcheggio per scope volanti, officina
riparazione bacchette magiche con pregiati legnami locali, ampia
selezione di ingredienti per pozioni magiche, noleggio di pentoloni e
altri accessori per la preparazione di incantesimi. Sistemazione in
chalet singoli, doppi o per famiglie, con opzione invisibilità inclusa
nel prezzo base. Per avere maggiori informazioni clicca qui
A proposito del villaggio turistico Belsabba, pur con qualche
cautela, vale forse la pena ricordare un episodio. Nella nebbiosa
mattina del 13 luglio 1985, dopo che un temporale aveva inumidito il
bosco, il signor Giuseppe Ronchi, detto Peppone della chiesa, si
avventurava incautamente nell’area adiacente il villaggio. Il buon
Peppone era alla ricerca di funghi e aveva pensato di anticipare i
concorrenti partendo di buon ora e arrivando in loco alle cinque meno un
quarto.
Una volta giunto nei pressi dell’ingresso del villaggio credette di
essersi alzato così presto invano, poiché aveva avvistato un gruppetto
di arzille vecchiette equipaggiate con canestri di vimini, fazzolettoni
colorati e scarponi consunti. Evidentemente le anziane si erano alzate
ancora prima di lui per assicurarsi una buona raccolta di porcini. Quasi
sicuro di ritrovare nel gruppo la vecchissima e famigerata Annetta,
fungaiola di fama nella zona, si avvicinò alle signore e rimase stupito
nel constatare trattavasi di forestiere. Pensò al tentacolare turismo
milanese e, nello specifico, all’intervento di qualche prete che si
portava gli anziani in villeggiatura nel piacentino. Invece il gruppo
era composto dalle ospiti del Belsabba, riunite per una delle attività
organizzate dall’animazione del resort: la caccia al Rossignanaso.
Questa attività era ed è molto popolare tra i clienti del Belsabba,
vista l’ottima qualità dei Rossignanasi della zona, che riescono a
rendere ancora più speciale ogni intruglio magico. Il Peppone decise di
aggregarsi alla comitiva in modo da controllare che non si avvicinassero
troppo ai suoi luoghi segreti, cosa che avrebbe potuto provocare
conseguenze tragiche quali la divulgazione nel milanese della mappa
delle fungaie più rigogliose. Alle streghe fu subito simpatico, con quel
suo pancione e il cappellaccio calato sul naso. Di lui si sono perse
ufficialmente le tracce. Tuttavia c’è chi dice di parlarci qualche volta
nel bosco all’alba e che sia stato assunto come addetto alla security
del villaggio, col compito di pattugliare i dintorni per evitare che
altri fungaioli interferiscano con le attività dei magici villeggianti.
Cristina Longinotti ha vissuto a Piacenza, Milano e
Liverpool e attualmente risiede nel bacino Euganeo, dove lavora
nell’ambito della ricerca in medicina rigenerativa. Dall’età di 7 anni,
nel tempo libero scrive poesie e racconti. Ha pubblicato il volume
“Onirica-storie di fuoco e cielo” (ed. Il filo, 2008), oltre a diversi
testi su giornali e riviste. Dalla sua collaborazione, non solo
artistica, con il fotografo, musicista e chimico Marco Martin, nel 2012
nasce Francesco.
IL WINEBAR DEI MORTI
Situato all'angolo tra via Astorri e via Ghittoni, nelle vicinanze
dell'obitorio, questo locale è aperto solo dalle 3.00 alle 5.00 del
mattino ed è frequentato da persone morte. Gli avventori vi si recano in
genere per l'ultimo bicchiere prima del loro funerale o commiato. Non
possono invitare amici o parenti e devono accontentarsi di brindare con
quelli che sono spirati nella loro stessa giornata. Anche chi non può
pagare, può entrare e bere un bicchiere (di quello sfuso) o leggere un
giornale; se piove, il cliente può prendere in prestito un ombrello per
non più di 15 min.
No telefono, no fax, no mail. Si sconsiglia di rivolgersi al medium Carmelo. Per maggiori informazioni clicca qui
Il Winebar dei Morti esiste dal 1831, proprio come il Caffè Pedrocchi di Padova.
Arredato con mobili in arte povera, sembra una tipica vecchia
osteria, dove girano pochi soldi e l'aria è molto viziata. In passato,
qualche essere vivente – ovvero qualcuno che non aveva varcato
completamente la soglia tra la vita e la morte – riuscì a entrare in
questa enoteca, fissandone alcuni particolari e tentandone in qualche
caso una descrizione. Esistono infatti alcune testimonianze, conservate
in una zona al momento non accessibile della Biblioteca Passerini Landi,
in cui si parla genericamente dell'enoteca del trapasso o del bar dei
defunti. Ne hanno parlato il drammaturgo francese Victorien Sardou, lo
storico russo Michail Petrovic Pogodin e, in tempi più recenti, lo
storico e ricercatore italiano Gerardo Bamonte. Persino il conduttore
televisivo Cino Tortorella, meglio noto come Mago Zurlì. Infine, sembra
che l'idea di un bar dei morti sia stata presa in considerazione dagli
autori del fumetto Dylan Dog, ma per il momento non è stato realizzato
un racconto specifico sul tema.
Pochi sono a conoscenza del fatto che un' ampia descrizione
dell'enoteca dei morti sia stata fornita da Anselmo Piacentini, un
attore e cantante che nel 2009 rimase per quasi un mese in coma
profondo. Costui, che negli anni Settanta e Ottanta faceva l'animatore
di feste pubbliche e private nei territori di Piacenza, Pavia e Cremona
(dove era considerato il sosia di Ugo Tognazzi), ebbe modo di raccontare
più volte la sua incredibile esperienza, ma il pubblico pensò sempre a
una invenzione per strappare qualche applauso supplementare. Dispiaciuto
di non essere creduto, Piacentini rinunciò a parlarne durante i suoi
spettacoli, ma in occasione della sua morte, avvenuta nel settembre del
2011, diede ancora una prova dell'esistenza di questo locale. L'artista
morì improvvisamente durante un'esibizione di karaoke e il medico che
aveva redatto il certificato di morte, dopo aver ricevuto alcune lettere
anonime, tormentato dal dubbio, chiese alla magistratura la
riesumazione della salma, temendo che il vero motivo del decesso fosse
legato a una forma di avvelenamento. L'autopsia confermò invece
l'arresto cardiaco, ma una piccola stranezza fu rilevata: in un angolo
della bara fu trovato un bicchiere di vetro contenente ancora tracce di
ortrugo: un fatto che rimase senza spiegazione.
Un paio di esercizi pubblici di via Campagna sono stati
soprannominati bar o caffè “dei morti”. Si tratta di forme
dispregiative, tese a sottolineare l'avidità dei proprietari che
approfittano dei funerali per rimpolpare i loro guadagni. Questi locali
non hanno niente a che vedere con il vero Winebar dei Morti, da sempre
al numero civico 2 di via Astorri.
Nota:
su Anselmo Piacentini vedi: a cura di G.Dadati e G.B.Menzani,
“Dizionario Biografico Fantastico dei Piacentini Illustri”, ed. Codex
10, Piacenza, 2012
Brunello Buonocore porta il nome di un prezioso vino toscano
da lui assaggiato solo pochissime volte e un cognome tipico napoletano,
pur non avendo alcun parente in quella città. La sua produzione
letteraria varia tra il serio e il faceto, ma quasi tutti gli
consigliano di insistere su questa seconda caratteristica. Lavora da
molti anni nell’ambito del sociale, dal quale coglie molti spunti per i
suoi racconti, guardandosi bene dal riportare fino in fondo fatti
realmente accaduti, che sembrerebbero al lettore assolutamente
esagerati. È veramente laureato in Scienze Politiche, è realmente
sposato e padre di due figli, gioca regolarmente a calcetto. Tempo fa il
diavolo, travestito da incaricato dell’Olio Vezze, con la scusa di
sottoporlo a un’indagine di mercato, ha cercato di comprargli l’anima,
ma la trattativa non è andata in porto.
mercoledì 11 dicembre 2013
#, 03
Incontro un amico davanti alla biblioteca del paese. Mi accompagni?, dico. Non ho soldi, dice. Non si paga, dico. Ma va?, dice.
#provinciagrassa
#provinciagrassa
IL NASCONDIGLIO DELLA MADONNA SISTINA
La Caminata di San Sisto è un antico complesso rurale sito in
aperta campagna nel comune di Gragnano Trebbiense. Nel medioevo era una
fattoria fortificata; il centro aziendale, con caratteristiche castrensi
ancora visibilissime, era circondato da un fossato alimentato dalle
acque del Trebbia.
Nel 1433 fu portata dal suo proprietario in dote al Monastero di
San Sisto. Vi risiedeva tutto l’anno un frate incaricato dal monastero
di controllare la coltivazione del fondo e curare gli interessi della
proprietà. Fu per due giorni (18 e 19 giugno 1799) il quartier generale
austro-russo durante la battaglia del Trebbia; vi risiedette in quei
giorni il generale Suvorov. Confiscata da Napoleone nel 1805 insieme a
tutto il patrimonio di San Sisto, restò di proprietà del demanio dello
Stato fino al 1864, quando il Regno d’Italia la privatizzò.
Nel novembre del 2012 un geometra, che faceva i rilievi necessari a
trasferire alcuni edifici antichi, fino a quella data considerati
rustici, dal catasto terreni al catasto fabbricati, attraverso le sue
misurazioni scoprì in uno di quegli edifici l’esistenza, ignota a tutti,
di un piccolo locale privo di accessi. Un pertugio praticato in uno dei
muri mostrò che il locale conteneva solo uno scartafaccio ingiallito.
La storia che lo scartafaccio racconta, se fosse vera, sarebbe di un certo interesse.
È noto che, all’inizio del Cinquecento, il Papa Giulio II incaricò
Raffaello, che stava lavorando per lui nelle Stanze Vaticane, di
dipingere un quadro per l’altar maggiore della nuova chiesa del
monastero di San Sisto a Piacenza. Ne risultò un grandissimo capolavoro,
uno dei quadri più belli dipinti dalla mano dell’uomo: la Madonna
Sistina. Essa fu inaugurata con la chiesa nel 1514. I padri di San Sisto
fecero fare nel corso dei due secoli successivi alcune copie del
dipinto, una delle quali risultò di qualità miracolosamente vicina a
quella del quadro di Raffaello; per sicurezza e per pigrizia, questa
copia fu utilizzata per periodi sempre più lunghi al posto
dell’originale, che era invece spesso chiuso nel suo nascondiglio
segreto. Pochissimi anche tra i padri sapevano dell’esistenza della
copia, che divenne sostanzialmente un segreto che si trasmettevano gli
abati e i loro segretari. A chi si recava a Piacenza per vedere la
Madonna Sistina veniva mostrata con probabilità molto alta la copia, che
però era quasi bella quanto l’originale. Capitò così anche all’abate
Bianconi, che nel 1752-53 negoziò con il monastero l’acquisto del
dipinto per conto dell’Elettore di Sassonia, e al pittore-restauratore
Carlo Giovannini, che fu incaricato dall’Elettore di fare una perizia
sul quadro prima della partenza e lo accompagnò nel suo viaggio da
Piacenza a Dresda.
A quel tempo, uno dei segretari dell’abate e il frate comandato
alla Caminata erano fratelli di sangue. Nessuno dei frati era più
contrario alla cessione della Madonna Sistina dei due fratelli.
Consegnarono a Giovannini la copia anziché l’originale; quando la copia
fu imballata per la partenza, convinsero l’abate (che aveva altro per la
testa) a nascondere l’altro dipinto (che era in realtà l’originale)
alla Caminata per evitare la facile accusa di aver spedito la copia. Il
frate di stanza alla Caminata affidò la sua verità allo scartafaccio,
che murò col dipinto. Sull’altare fu messa un’altra copia, di qualità
enormemente inferiore, quella siglata G.M. che ancora vi si trova. I
fratelli pensavano di far riaffiorare l’originale quando la situazione
in Sassonia e in generale in Europa l’avesse permesso. Ma non avevano
previsto rivolgimenti così profondi come quelli di fine Settecento, che
travolsero anche il monastero.
In quale momento, tra il gennaio del 1754 e il novembre del 2012,
venne estratto dal suo rifugio segreto l’originale di Raffaello? A opera
di chi? Per portarlo dove? Nel 1892, lo storico svizzero Ludwig
Jelinek, non si sa sulla base di quali indizi, suggerì che, al momento
della spedizione del dipinto, fosse successo qualcosa di simile a quanto
raccontato nello scartafaccio. Fu sonoramente smentito con una batteria
di documenti autentici, che furono accettati da tutti anche se non
provavano niente.
Bibliografia: E. Gazzola, “La Madonna Sistina di Raffaello. Storia e destino di un quadro”, ed. Quodlibet, Macerata, 2013.
Domenico Ferrari Cesena è nato in un mondo governato da
Roosevelt, Stalin, Hitler e Churchill, quando l’Italia era un regno
retto da Pio XII e da Benito. Però, ha visto la luce in aperta campagna,
ma non proprio sotto un cavolo, anche se c’è mancato poco. Nella grande
casa che gli ha dato i natali è tornato ad abitare da 18 anni, dopo i
25 trascorsi in California a Berkeley nelle vesti di docente e
ricercatore di computer science. Oltre ad alcuni libri illeggibili ai
più, nel 2010 ha pubblicato “Terre piacentine” con Giovanni Zilioli.
Lotta da anni contro i deturpatori del paesaggio e dei nostri beni
culturali come Don Chisciotte contro i mulini a vento, con gli stessi
risultati.
IL GIARDINO DELL'ABBAZIA DELLE ROSE
Confinante con l’unica ala che nel 1793 sopravvisse all’incendio
che devastò l’abbazia, il Giardino Botanico è un’autentica chicca.
Sviluppato su tre livelli, per un totale di circa 1800 mq.
Nella parte adiacente il convento si trovano le tre enormi serre,
risalenti al 1780, dedicate rispettivamente alle orchidee, ai gigli e
alle peonie. Serre minori, leggermente defilate rispetto al viale
principale, servivano per la coltivazione degli ortaggi necessari al
sostentamento della comunità, mentre oggi sono sede del Piccolo museo
attivo dell’Agricoltura, un progetto di orti per i bambini delle scuole
materne ed elementari della zona. Nel secondo livello, oltre alle
fontane a cascata troviamo i prestigiosi roseti a cui l’abbazia deve il
nome: più di 750 specie differenti, tutte indicate per nome per
consentire al visitatore di distinguerle, si succedono in uno spettacolo
silenzioso e maestoso. Al centro dei roseti trova spazio il celebre
Labirinto delle Rose, che ricopre una superficie complessiva di 300 mq.
Il labirinto è stato realizzato secondo un mirabile progetto che unisce
tipologie differenti di rose, dalle rampicanti alle cespugliose,
integrate in modo che la sfioritura dell’una coincida sempre con la
fioritura dell’altra, per far sì che non risulti mai spoglio. Nel cuore
del labirinto, circondata da un laghetto, si trova la statua della
Ss.Maria delle Rose, col bambino in braccio. E’ qui possibile fare una
sosta approfittando della quiete e dei meravigliosi profumi che
caratterizzano l’aria. Il labirinto è aperto solo la mattina, e non è
consentito l’accesso ai minori non accompagnati.
Scendendo ulteriormente si arriva alla zona delle passeggiate e dei
frutteti, dove alberi da frutto potati ad arte sono i protagonisti dei
tre tragitti: il Percorso dei Peri, il Percorso dei Meli e quello dei
Ciliegi. Questi tre itinerari, della durata stimata di circa 45’
ciascuno, sono debitamente segnalati e portano alla scoperta di
curiosità inerenti alle tre specie, notizie circa le qualità dei loro
frutti e particolarità di ogni diversa tipologia.
La leggenda narra che, tra le tante piante strane ed esotiche che
si possono ammirare al Giardino Botanico, la più importante sia l’araba
Rosa Pulcra Coeli, una rarissima specie tipica del deserto e delle zone
nord africane che durante le notti di maggio canterebbe una specie di
litania; secondo la tradizione indicherebbe la strada alle persone buone
e pure di cuore, mentre farebbe girare a vuoto i cattivi e i
prepotenti.
Anna Costanza Tassotto Verdi vive nella bassa tra Lodi e Piacenza,
con la madre, e le sue piante grasse e i suoi due cani. La sua grande
cultura enogastronomica la rende piacentina se non di nascita,
quantomeno di predisposizione. Sempre più amante della scrittura, sta
cercando le regole auree per relazionarsi col prossimo, applicando
ovviamente la meravigliosa sequenza di Fibonacci. E’ discalculica:
inverte i numeri. Motivo per cui non le riesce molto bene l’applicazione
della sequenza per la quale ha, ciò nonostante, un riguardo pressoché
religioso.
IL FARO DI BETTOLA
Situata sulla sommità del Monte Osero, a mt 1308 slm, la Lanterna
di Bettola è un autentico faro, risalente al 1800 circa, alto 75 metri,
oltre alla lanterna vera e propria; la struttura ha base quadrata e lato
di 7 metri; all’altezza di 5, tre piccoli gradini riducono la
dimensione del monumento fino all’inizio della parte conica, che parte
con un diametro di 5,80 metri e arriva alla sommità, con un diametro di
2,70 metri. Il faro vero e proprio ha un’altezza di 3 metri.
Monumento architettonico di pregio, il faro mostra, nella prima
parte del cono, gli altorilievi delle tre caravelle di Colombo, e sulla
base 4 bassorilievi che narrano le fasi salienti della sua vita. Il più
famoso, visibile in foto anche nella pagina facebook del faro -
www.facebook.com/faro.bettola - narra la vicenda del giovanissimo
Cristoforo nella sua casa natale nella Torre Medievale di Pradello.
Da sempre vicini per tradizioni e contiguità geografica alla
Liguria, con la quale in passato, attraverso la famosa via di Genova, i
mercanti scambiavano grano e olio, i bettolesi costruirono il Faro per
dare ai viaggiatori per terra e per mare un punto di riferimento che
fosse visibile da lontano e segnalasse a tutti la loro cittadina. Posto
sulla sommità del Monte Osero, il faro era ed è tuttora raggiungibile da
parte dei custodi, si dice discendenti in linea femminile della
famiglia di Colombo, attraverso un sistema di tunnel e gallerie.
L’aspetto attuale del faro, frutto di ripetuti abbellimenti e
restauri, costituisce un’ulteriore manifestazione dell’attaccamento dei
bettolesi al famoso navigatore.
Con una sistema di illuminazione moderno, basato sulla luce
crepuscolare, oltre che azionato direttamente dal custode, il faro è
attualmente costituito da lampade elettriche e con motorizzazione
dell’ottica; un tempo alimentato da un generatore diesel, oggi funziona
anche grazie all’energia eolica e ad accumulatori fotovoltaici. Una luce
fissa ad alta intensità emette brevi lampi luminosi omnidirezionali;
caratteristica e periodo sono stati concordati con il Comando di zona di
La Spezia.
La colorazione esterna del faro riprende il turchese e il verde
dello stemma di Bettola, mentre altorilievi e bassorilievi sono in marmo
bianco. Le luci intermittenti funzionano sia di notte sia di giorno, e
un vero guardiano, con cappellino da marinaio, pipa e scarponi da
montanaro, controlla che navi e altri mezzi – si racconta che negli anni
in cui fu in uso, anche la Littorina utilizzasse il faro come
riferimento – non perdano la rotta e assiste chi per caso giunge da lui
offrendo prodotti tipici locali e un boccale di birra: da sempre nel
faro si può gustare la birra prodotta dal Birrificio di Bobbio [cfr. in
merito la voce omonima]. Oggi il ruolo del guardiano del faro è
ricoperto da un eccentrico bettolese in pensione. Grazie all’iniziativa
del suo predecessore, oltre a regolari visite guidate del monumento ogni
seconda domenica del mese si organizzano simulazioni della vita del
Guardiano, con azionamento manuale della lanterna e relativa
manutenzione e visite nelle gallerie che dal faro conducono al paese,
principalmente per bambini, ma anche per gruppi di ogni età.
Preso da modello dal famoso scrittore romano dei lucchetti per uno
dei suoi ultimi romanzi e successivamente utilizzato come location per
alcune scene del film tratto dal romanzo stesso, il faro non è stato
citato nei titoli di coda a causa del rifiuto da parte del Birrificio di
Bobbio, fornitore unico della birra offerta nel faro, e del più famoso
distributore di carburante di Bettola di contribuire alla
sponsorizzazione del film stesso.
Barbara Tagliaferri è nata il giorno dell’attraversamento del Rubicone da parte di Annibale, prima nata in città di una stirpe di nati in campagna. Ama la provincia di Piacenza perché ci è nata e la sente casa sua, ha un affetto speciale per la val Trebbia, perché è da lì che trae le sue origini, ed è felice quando cammina per le vie del suo quartiere con il suo adorato Tobia: lì, certi giardini, all’interno di piccoli complessi di case una volta popolari, per lei sono meglio di Notting Hill per Julia Roberts. Campionessa di briscola in cinque ai tempi del liceo, nuota sin da piccola, ma senza aver mai neanche pensato di applicarsi da un punto di vista agonistico, e ama la pallavolo femminile, che segue in veste di tifosa appassionata. Ama leggere e ogni tanto scrive. Vorrebbe riuscire a finire un romanzo iniziato alla Bottega di Narrazione, nel lontano 2011. Tutte le circostanze sono sinora state sfavorevoli, ma il vento sta cambiando.
Barbara Tagliaferri è nata il giorno dell’attraversamento del Rubicone da parte di Annibale, prima nata in città di una stirpe di nati in campagna. Ama la provincia di Piacenza perché ci è nata e la sente casa sua, ha un affetto speciale per la val Trebbia, perché è da lì che trae le sue origini, ed è felice quando cammina per le vie del suo quartiere con il suo adorato Tobia: lì, certi giardini, all’interno di piccoli complessi di case una volta popolari, per lei sono meglio di Notting Hill per Julia Roberts. Campionessa di briscola in cinque ai tempi del liceo, nuota sin da piccola, ma senza aver mai neanche pensato di applicarsi da un punto di vista agonistico, e ama la pallavolo femminile, che segue in veste di tifosa appassionata. Ama leggere e ogni tanto scrive. Vorrebbe riuscire a finire un romanzo iniziato alla Bottega di Narrazione, nel lontano 2011. Tutte le circostanze sono sinora state sfavorevoli, ma il vento sta cambiando.
IL CIMITERO DEI FONDI DI PROSCIUTTO
Terra di cerniera tra Emilia e Lombardia, tra le valli del
Piacentino l’alta val Tidone può vantare i pendii più dolci e riccamente
punteggiati di vigneti, boschi, antichi borghi, rocche, castelli e
casali ristrutturati. Si snoda attorno al fiume Tidone che dalle pendici
del Monte Penice (mt 1.460 slm) scende al Po tra i comuni di Pianello,
Nibbiano, Caminata e Pecorara. Quest’ultimo è il borgo più alto e qui
svettano i monti Pietra Corva (mt 1.078 slm) e Mosso (mt 1.008 slm).
Un tempo terra di mulini (tradizione recuperata grazie alla Strada dei Mulini), oggi la valle è nota per i suoi prelibati tartufi (celebrati da una rassegna che si tiene in ottobre a Pecorara), la sua tradizione enogastronomica e la sua tranquillità.
È in questi luoghi, tra le località Salenzo e Ca’ del Diavolo, in un’area fra Pecorara e Pianello, che nel 2001 un assessore regionale - poi processato per aggiotaggio, abigeato e concubinato - si incaponì a creare un progetto presentato come “la risposta concreta a un annoso problema”: un impianto di smaltimento dei fondi di prosciutto, salame, coppa e affettati vari che intasano gli scaffali dei supermercati emiliani. “Tranci di lardo, avanzi di mortadelle e bresaola, rimasugli di cotto e culatello parcheggiati per mesi sugli scaffali”, sottolineò in conferenza stampa l’assessore, “intasano il ciclo produttivo, rallentano l’economia territoriale, frenano il rilancio della filiera enogastronomica del Sistema paese. Toglieremo questo granello di sabbia dagli ingranaggi”.
Per indorare la pillola, l’impianto fu chiamato Centro Unico Lavorazione. Gli uffici stampa snocciolarono studi di geologi e di università che ne certificavano l’impatto zero. Nei rendering distribuiti ai media l’impianto era appena visibile, circondato da alberi e siepi, con uno stabilimento per il recupero delle confezioni costruito secondo i dettami della bioedilizia e una vasca di raccolta degli insaccati, il tutto su un’area di 28mila metri quadrati.
La risposta della società civile piacentina contro il maxi impianto fu immediata. La mobilitazione abbracciò un fronte che andava dai centri sociali ai Digiunatori per la Pace, dalla Confraternita dei Grass all’Associazione Amici del Vombato. Ben presto però il fronte “No CUL” si frantumò fra le istanze anarchico-global-insurrezionaliste dell’ala dei movimenti (“Uscire dalla gabbia del conformismo, generare percorsi di lotta e riproporre le istanze del territorio tramutandole in mobilitazione globale contro il profitto dei Poteri Forti. Con lo Stato borghese non si discute, lo si abbatte. NO al cimitero dei prosciutti”) e le rivendicazioni pragmatico-localiste dell’associazionismo di base (“I culi delle coppe dateli a noi”, scrissero i Grass al Prefetto). Fu incendiato qualche escavatore, lanciata qualche molotov ma poi calò il silenzio.
Un tempo terra di mulini (tradizione recuperata grazie alla Strada dei Mulini), oggi la valle è nota per i suoi prelibati tartufi (celebrati da una rassegna che si tiene in ottobre a Pecorara), la sua tradizione enogastronomica e la sua tranquillità.
È in questi luoghi, tra le località Salenzo e Ca’ del Diavolo, in un’area fra Pecorara e Pianello, che nel 2001 un assessore regionale - poi processato per aggiotaggio, abigeato e concubinato - si incaponì a creare un progetto presentato come “la risposta concreta a un annoso problema”: un impianto di smaltimento dei fondi di prosciutto, salame, coppa e affettati vari che intasano gli scaffali dei supermercati emiliani. “Tranci di lardo, avanzi di mortadelle e bresaola, rimasugli di cotto e culatello parcheggiati per mesi sugli scaffali”, sottolineò in conferenza stampa l’assessore, “intasano il ciclo produttivo, rallentano l’economia territoriale, frenano il rilancio della filiera enogastronomica del Sistema paese. Toglieremo questo granello di sabbia dagli ingranaggi”.
Per indorare la pillola, l’impianto fu chiamato Centro Unico Lavorazione. Gli uffici stampa snocciolarono studi di geologi e di università che ne certificavano l’impatto zero. Nei rendering distribuiti ai media l’impianto era appena visibile, circondato da alberi e siepi, con uno stabilimento per il recupero delle confezioni costruito secondo i dettami della bioedilizia e una vasca di raccolta degli insaccati, il tutto su un’area di 28mila metri quadrati.
La risposta della società civile piacentina contro il maxi impianto fu immediata. La mobilitazione abbracciò un fronte che andava dai centri sociali ai Digiunatori per la Pace, dalla Confraternita dei Grass all’Associazione Amici del Vombato. Ben presto però il fronte “No CUL” si frantumò fra le istanze anarchico-global-insurrezionaliste dell’ala dei movimenti (“Uscire dalla gabbia del conformismo, generare percorsi di lotta e riproporre le istanze del territorio tramutandole in mobilitazione globale contro il profitto dei Poteri Forti. Con lo Stato borghese non si discute, lo si abbatte. NO al cimitero dei prosciutti”) e le rivendicazioni pragmatico-localiste dell’associazionismo di base (“I culi delle coppe dateli a noi”, scrissero i Grass al Prefetto). Fu incendiato qualche escavatore, lanciata qualche molotov ma poi calò il silenzio.
Tre mesi dopo l’inaugurazione mezza giunta regionale fu arrestata e
il CUL messo sotto sequestro. Il tempo, i vandali e il sale degli
insaccati fecero il resto: i macchinari si arrugginirono, una frana
spaccò il vascone in due come una noce e nel capannone presero a farci
le gare di softair.
Fabrizio Tummolillo è nato a Milano e vive a Pecorara, sulle
amate colline piacentine della val Tidone, con la moglie e il gatto
Fennec*. Laureato in Scienze dell'Educazione all'Università di Bologna, è
giornalista professionista dal 2004 e redattore del quotidiano Il
Cittadino. Con l'attore e regista teatrale Giulio Cavali ha scritto
"Linate 8 ottobre 2001 - La strage", spettacolo-inchiesta sulla strage
di Linate, la cui prima si è tenuta nel 2006 nel Piccolo Teatro di
Milano, con repliche in numerose città d'Italia. Dallo spettacolo è
stato tratto un libro pubblicato da Edizioni XII. Con il cantautore
Riccardo Maffoni ha scritto la canzone “A saperlo prima”, dedicata alla
strage. Ha anche pubblicato una raccolta di racconti brevi intitolata
"Un'altra sera" (ed. Il Papiro/Altrastoria). Probiviro della
Confraternita dei Grass, convive con un’inestinguibile tendenza
all’obesità.
* Nessun collegamento con l’attrice, che peraltro di cognome fa
“Fenech”. Il fennec (vulpes zerda) è una piccola volpe che abita il
deserto del Nordafrica (coste escluse).
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