Banhart ormai non è più un novellino. Questo strambo hippie fuori tempo, cresciuto in Venezuela e poi trasferitosi in California (prima a Frisco e poi a Los Angeles), è giunto all’ottavo disco. “Mala” - dal serbo, lingua della sua compagna, la fotografa Ana Kras - non è uno dei suoi migliori, leggero e a tratti sfocato, ma non tradirà le attese dei fan più duri, con la consueta miscela di indie-folk fricchettone e ritmi caraibici e sudamericani.
Vile, da Philadelphia, è invece assurto da meno tempo alle cronache, anche se ha all’attivo ormai cinque album. In questo “Wakin’ on a pretty daze” si fanno notare l’incedere indolente e sbilenco alla Lou Reed - ci sono almeno tre o quattro pezzi che assomigliano a “Sweet Jane”, in questo disco, anche se la critica preferisce i paragoni con Neil Young - e il gusto per la ripetizione all’infinito di un riff o di un giro di basso – prendete la conclusiva “Goldtone”, lunga quasi dieci minuti e tra le migliori insieme a “Pure pain” e “Shame chamber” (quest’ultima con uno strillo rubato all’hombre lobo degli Eels).
Un doppio album per quasi
settanta minuti di musica, forse troppi.
Iron&Wine, al secolo
Sam Bean, aveva abbandonato il folk da strada degli esordi per le
orchestrazioni raffinate e a più strati di “Kiss each other clean” (2011), che
a noi era tanto piaciuto, e per questo era stato accusato di tradimento come un
novello Bob Dylan. Prosegue ora il nuovo percorso con un album ricco ed
elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e
Paul Simon. Tra i pezzi più riusciti “Caught in the briars”, “Low light buddy
of mine” e i gioielli acustici “Joy” e “Sundown (Back in the briars)”.
Notevole.
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