E’ in
libreria da settembre la nuova prova letteraria di Francesco Rago, giovane scrittore
piacentino, in passato autore dei romanzi “La porta del mare” (0111 edizioni, 2009)
e “Dolce come il piombo” (Montag, 2011), oltre a numerosi racconti sparsi in
varie antologie.
Si
intitola “Il compleanno di Eva” ed è edito da Parallelo45.
La festa
che da il titolo al romanzo è quella di una giovane rampolla della Piacenza
bene, che si svolge in una grande villa sul Bagnolo: i suoi diciotto anni diventano
lo scenario per un finale pirotecnico, durante il quale si risolvono le storie
parallele su cui si basa l’intreccio narrativo. E’ qui che si ritrovano, dopo
oltre venti anni, i vari personaggi del romanzo.
Ci sono Matteo
e Giovanni, due ragazzi assai diversi (“pesci d’acqua dolce e pesci d’acqua
salata”) che si incontrano a metà degli anni Novanta sui banchi di scuola. Il
primo, genialoide e introverso, è il classico nerd che non ci sa fare con le
ragazze; il secondo, più scafato e temerario, è attratto dal talento artistico
del primo e lo prende sotto la sua ala protettrice, diventando in breve tempo
una sorta di guida spirituale. La storia della loro tenera amicizia, che
deflagra irrimediabilmente durante un interrail in Spagna, è per chi scrive la
parte più bella del romanzo: il tema dell'iniziazione alla vita e' trattato con
garbo e sensibilità, le situazioni sono credibili e rimandano al nostro vissuto
di quella generazione.
Ma Rago
se la cava egregiamente anche con un tema più vischioso come il riscatto di una
prostituta ungherese dal passato torbido (Vera), poco più che adolescente, da
parte di un viscido gestore di locali notturni, Paride, dedito ai vizi e agli
eccessi. A differenza di “Un amore” di Dino Buzzati, qui di amore e di redenzione non c’è nulla, solo la volontà
di soddisfare i desideri più lascivi da parte di Paride. Vera è costretta a
seguirlo perché non ha nulla da perdere (“Non ci sarebbero più state occhiate
bovine da dietro il vetro di un finestrino, e nemmeno più il contatto con quei
copri tozzi e indelicati che emanavano odori bruschi e sgradevoli. Nessun
inverno cinico a irrigidire i vasi sanguigni e a mordere la gola”): il suo
vivere è solo un galleggiare mesto nel corso degli eventi, segnata com’è per
sempre dal suo gesto estremo, compiuto in patria prima di una precipitosa fuga
verso l’Italia chiusa in un baule di legno, ovvero l’accoltellamento del padre
incestuoso.
La scrittura
è precisa e gradevole, e il contesto della nostra città è tratteggiato con
crudezza e senza sconti:
“Giovanni
alzò il bavero della giacca per riparasi dal vento gelido. Con un calcio fece
rotolare un sampietrino contro lo spigolo del marciapiede. Una signora anziana
gli gettò addosso uno sguardo di profonda disapprovazione.
Lui se
ne accorse ed esclamò con sprezzo: Questa città mi ha proprio rotto i coglioni!
Matteo
strinse leggermente le spalle (…)
E’
noiosa e grama come ‘sto tempo di merda, continuò Giovanni accompagnando la
frase con un gesto delle mani, come se stesse sostenendo un oggetto invisibile.”
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