giovedì 5 dicembre 2013

#, 02

Il mio cane è malato e perde il pelo, così ho dovuto comprargli un cappottino, marca Fashion Dog.
Ora lui mi guarda con odio.

DEVENDRA BANHART, "Mala" (2013) - KURT VILE, "Wakin’ on a pretty daze" (2013) - IRON & WINE, "Ghost on ghost" (2013)

La geografia USA è immensa, e spostandoci da una costa all’altra andiamo a scovare alcuni tra i migliori cantautori di questo inizio millennio. 
Banhart ormai non è più un novellino. Questo strambo hippie fuori tempo, cresciuto in Venezuela e poi trasferitosi in California (prima a Frisco e poi a Los Angeles), è giunto all’ottavo disco. “Mala” - dal serbo, lingua della sua compagna, la fotografa Ana Kras - non è uno dei suoi migliori, leggero e a tratti sfocato, ma non tradirà le attese dei fan più duri, con la consueta miscela di indie-folk fricchettone e ritmi caraibici e sudamericani. 
Vile, da Philadelphia, è invece assurto da meno tempo alle cronache, anche se ha all’attivo ormai cinque album. In questo “Wakin’ on a pretty daze” si fanno notare l’incedere indolente e sbilenco alla Lou Reed - ci sono almeno tre o quattro pezzi che assomigliano a “Sweet Jane”, in questo disco, anche se la critica preferisce i paragoni con Neil Young - e il gusto per la ripetizione all’infinito di un riff o di un giro di basso – prendete la conclusiva “Goldtone”, lunga quasi dieci minuti e tra le migliori insieme a “Pure pain” e “Shame chamber” (quest’ultima con uno strillo rubato all’hombre lobo degli Eels).
Un doppio album per quasi settanta minuti di musica, forse troppi.
Iron&Wine, al secolo Sam Bean, aveva abbandonato il folk da strada degli esordi per le orchestrazioni raffinate e a più strati di “Kiss each other clean” (2011), che a noi era tanto piaciuto, e per questo era stato accusato di tradimento come un novello Bob Dylan. Prosegue ora il nuovo percorso con un album ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon. Tra i pezzi più riusciti “Caught in the briars”, “Low light buddy of mine” e i gioielli acustici “Joy” e “Sundown (Back in the briars)”.
Notevole.

JAMES BLAKE, "Overgrown" (2013)

Con colpevole ritardo vi parliamo del secondo album di James Blake, enfant prodige della scena dubstep londinese, acclamatissimo dalla critica britannica - e non solo - per il suo debutto eponimo del 2011.
“Overgrown”, questo il significativo titolo del nuovo lavoro (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta – Blake è del 1988), si apre con il brano omonimo che denuncia le sue difficoltà e le sue angosce derivate da un improvviso successo, che tutto travolge (“I don’t wanna be a star/But a stone on the shore/Long door, frame the wall/When everything’s overgrown”). Brano delicato e suggestivo, tra Antony e Bon Iver, la Bjork più sperimentale e il grande Tim Buckley. Una voce emozionante, struggente, matura e personale; quasi nera. Imparentata, oltre che con Antony, con il soul contemporaneo di Drake.
In successione, arrivano le altrettanto ottime e introspettive “I am sold”, che risente dell’influenza del miglior Moby,  e “Life rounds here”, con un groove futurista. Potrebbe affiorare la stanchezza, ed ecco che Blake spiazza tutti con “Take a fall from me”, ove lascia spazio all’hip hop sommesso di RZA. La strepitosa ed epica “Retrograde”, nuovo singolo, chiude nel migliore dei modi l’ipotetica side A (“I’ll wait, so show me why you’re strong/Ignore everybody else/We’re alone now/Suddenly I’m hit/Is this darkness of the dawn/And your friends are gone/When you friends won’t come/So show me where you fit/So show me where you fit...”).
La seconda parte inevitabilmente cala di tensione, e tuttavia “Digital lion” – che vanta la produzione di un mago dell’elettronica come Brian Eno – e “Voyeur” aprono nuovi orizzonti con l’apertura a ritmi più sincopati e a un’elettronica house. In chiusura, due brani minimali e struggenti come “To the last” – con una notevole coda melodica, quasi Bristol sound - e “Our loves come back”.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra. 
Un disco praticamente perfetto.

mercoledì 4 dicembre 2013

BEST_OFF 2013, 01

NME:
1. Arctic Monkeys 
2. Kanye West 
3. Queens of the Stone Age 
4. Foals 
5. Savages 
6. Daft Punk 
7. Arcade Fire  

 
Mojo:
1. B. Callahan (great) 
2. Daft Punk 
3. D. Bowie 
4. A. Monkeys 
5. J. Grant 
6. Deerhunter 
7. Vampire Weekend  

martedì 3 dicembre 2013

GLI INSULTI DI MR. BINGO





TROVARSI IN MEZZO A BURROUGHS E GINSBERG

(da "Il Fatto quotidiano". edizione online, 01.12.2013)
Monumentale, mozzafiato, denso, caleidoscopico. Questo e molto altro è Sunnyside, il voluminoso romanzo dello scrittore statunitense Glen David Gold (tradotto da Daniela Liucci e pubblicato in Italia da LiberAria). Il libro si apre su una fredda giornata d’inverno del 1916: una come molte altre, se non fosse che in questa il famoso attore Charlie Chaplin viene avvistato in più di ottocento posti simultaneamente. La successiva e straordinaria delusione collettiva, suscitata dalla scoperta che si tratta solo di presunte, dunque false, apparizioni, legherà per sempre il destino di tre uomini ignoti l’uno all’altro: Leland Wheeler, il figlio dell’ultima (e peggiore) star del Wild West, che scoprirà un amore inaspettato sui campi di battaglia francesi; Hugo Black, arruolato per combattere sotto il comando del generale Edmund Ironside nella spedizione senza speranza contro i bolscevichi; infine lo stesso Chaplin, che sarà alle prese con una serie di infinite complicazioni: i magnati degli studios che metteranno in dubbio il suo patriottismo, il suo cuore irrequieto e, cosa ancor più minacciosa, la propria madre. La narrazione di Glen David Gold è ricca e vasta, tanto quanto l’ambientazione e l’elenco dei personaggi sono arricchiti da una lista strabiliante di persone vere e inventate: Mary Pickford, Douglas Fairbanks, Adolph Zukor, la prima moglie bambina di Chaplin, una scout ladra, il segretario del tesoro, uno studioso di cinema innamorato, tre principesse russe, una quantità industriale di fan e perfino il famoso cane Rin Tin Tin. Leggero ma sempre intenso, coinvolgente nella trama e strabiliante nello stile, Sunnyside è un romanzo ammaliante che ci racconta i sogni, l’ambizione e l’alba dell’epoca moderna.
Sempre per LiberAria è uscito un testo, evocativo e intenso, dell’architetto piacentino Giovanni Battista Menzani: L’odore della plastica bruciata. Tredici racconti conditi di humor allucinato e grottesco. Un’immensa periferia globale e stereotipata fatta di svincoli autostradali, capannoni prefabbricati, outlet di cartapesta e cartelloni pubblicitari. Un paesaggio scorticato, popolato da persone disilluse, incattivite, apparentemente senza prospettive in un contesto sociale caratterizzato da una pesante crisi economica. Cartoline dall’inferno spedite ai lettori. Un’Italia letta e scritta attraverso una lente di ingrandimento deformante dove gli unici sentimenti ancora possibili sono la paura e la conseguente rassegnazione alla pena di vivere in un mondo votato all’eccesso e privo della quotidianità rassicurante ormai ingoiata dai nuovi mostri: esseri senza ribellione e senza via di fuga.
Uno stile secco e diretto, senza fronzoli quello di Nuccio Franco, autore de Il sogno di Safiyya (Arkadia Editore), romanzo che nasce fra le ceneri della Bosnia violentata dalla guerra fratricida per giungere fino al villaggio di Nevè Shalom, un’oasi di pace dove musulmani, ebrei e cristiani convivono in perfetta armonia. Il libro narra la storia del reporter Jan, nella mente esso ha il sorriso di Youssuf e gli occhi della figlia Safiyya, che ha lasciato in Italia prima di partire come cronista. Tornato dai Balcani, abbandonato lo scenario truculento di Sarajevo, Jan deciderà di dare una svolta alla sua vita e convincere Safiyya a seguirlo alla ricerca di una terra in cui ogni essere umano è uguale, dove non si muore perché si appartiene alla fede sbagliata o si possiede un colore di pelle diverso.
Portato sul grande schermo da John Krokidas con il titolo Giovani ribelli-Kill your darlings, è stata pubblicato dal Saggiatore l’opera che ha ispirato il film, Bloodsong, di Allen Ginsberg (a cura di James Grauerholz). Nel 1943 alla Columbia University di New York nacque fra tre giovani un’amicizia che avrebbe dato vita al cuore del movimento beat: in quell’anno Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs frequentavano l’istituto insieme a Lucien Carr, lo studente che li aveva fatti incontrare. Allievo eccezionale dalla mente fertile, sognatore e amante della notte, Carr era il collante che teneva insieme i tre giovani artisti. L’anno successivo Carr venne accusato dell’omicidio di David Kammerer, amico di infanzia di Burroughs e rampollo di una ricca famiglia di St. Louis. Questo omicidio, per il quale Kerouac e Burroughs furono arrestati come testimoni e possibili complici, colpì terribilmente l’immaginazione di Ginsberg, che decise di trarne un romanzo, Bloodsong, rimasto incompiuto. Questo volume raccoglie una scelta di brani dai diari giovanili di Ginsberg, soffermandosi in particolare sul suo rapporto con Carr, sull’omicidio e sulle conseguenze che questo ebbe sui frammenti dell’opera incompiuta.
Può una religione diventare fonte di odio e di morte? Esiste, tra le varie fedi della terra, una più propensa rispetto ad altre a connotarsi in maniera fondamentalista? Se lo chiede, e cerca di rispondere, lo psicologo Christian Zanon in un saggio di facile e veloce lettura, Fondamentalismi. Le chiavi psicologiche per capire l’integralismo religioso (Arkadia Editore). L’autore prende in esame le più grandi religioni del pianeta interpretandole dal punto di vista psicologico per comprendere quali siano i meccanismi di trasformazione e come un messaggio, che dovrebbe essere di pace e amore, possa deviare dal suo cammino e produrre effetti a volte devastanti. Basandosi sulle vicende internazionali degli ultimi decenni, prendendo spunto dalle lunghe interviste con esponenti di diversa matrice religiosa, Zanon ricostruisce un quadro lineare ed esaustivo, arrivando alla conclusione che nessuna fede, di per sé, è fondamentalista. Sono gli uomini che vi aderiscono a determinarne sempre, per i più svariati motivi, le derive che conducono a massacri, guerre, attentati, discriminazioni, persecuzioni.
Di solito non mi occupo di poesia, ma Mattanza dell’incanto (Marco Saya Editore), di Nicola Vacca, una delle voci più originali, attente, indipendenti e coraggiose del panorama intellettuale italiano, va oltre il lirismo per imporsi al lettore come uno spaccato onesto e limpido della condizione attuale del Belpaese. Poesia civile di chiara indignazione ideologica e culturale quella dello scrittore, critico letterario e opinionista gioiese. Nella prefazione, Gian Ruggero Manzoni scrive: “Nicola Vacca indica, in questo suo ultimo libro, oltre che le cause, anche i possibili effetti del crollo, affidandosi alla poesia, la quale ritorna a diventare ‘metodo sociale di lotta’ al fine di sensibilizzare (accusare) poi di spronare una possibile reazione a uno stato, non accettato, putrescente e cancrenoso”. Un antidoto al nichilismo, una scossa per i sensi e per le atrofizzazioni mentali che investono tutti. “Il mondo brucia / anche se non ci sono fuochi / che accendono l’oscurità”. Da leggere e rileggere.
(Lorenzo Mazzoni)

venerdì 29 novembre 2013

GUIDA AI LUOGHI FANTASTICI DI PIACENZA (E PROVINCIA)

Il mondo esiste. E questa è una gran bella notizia. Passato al vaglio dai filosofi un secolo dopo l'altro, scandagliato dai naturalisti e dai biologi, mappato con perizia sempre crescente dai geografi, il mondo senza dubbio esiste. In effetti, esisteva ben prima che filosofi, naturalisti, biologi e geografi ci si mettessero di buzzo buono perché – dobbiamo dirlo – esisteva ben prima della comparsa dell'uomo, ben prima della comparsa del babbo dell'uomo (quello peloso che mangia banane e passa agilmente da un albero all'altro), ben prima della comparsa del nonno minuscolo dell'uomo (quello fatto di qualche cellula che vagola nei mari) e via risalire. D'ogni modo, a quanto pare, tra i tanti abitanti che l'hanno gremito nel tempo e tuttora lo gremiscono, l'uomo è il solo che si è dato la pena di cercare di capirlo nel suo complesso, da tutti i punti di vista possibili. Ma sempre partendo da un presupposto: che il mondo è questo qui che abbiamo sotto i piedi. Non di altro ci si deve occupare.
Nel loro piccolo, le guide turistiche sono un modo per affrontare il mondo, anche se quando le prendiamo in mano le consideriamo strumenti d'uso spiccio. A differenza della maggior parte dei libri non le si legge dalla prima all'ultima pagina, ma le si consulta saltabeccando qua e là e cogliendo quel minimo che ci serve: in fondo loro sono solo un mezzo, l'esplorazione del posto in cui ci troviamo è il fine. Insomma: il ritorno al mondo, è il fine. E tuttavia, col nostro uso spiccio, forse tralasciamo di renderci conto che comporre una guida significa compiere tutta una serie di azioni spregiudicate e a tratti spericolate. Prima azione: rendersi conto di cosa c'è dentro il fazzoletto di mondo prescelto (città, regione, stato che sia), vale a dire percorrerlo e considerarlo, allertare i sensi, farsi capienti di impressioni. Seconda azione: stabilire un'orografia di valori tra tutto quello in cui si è incappati (quali sono i musei da non perdere?, in quali piazze si è fatta davvero la Storia con la esse maiuscola?, quali ristoranti è meglio consigliare?, da dove trarre i souvenir senza che abbiano l'aspetto atroce di souvenir pur essendoli?). Terza azione: stabilire un ordine in cui rilasciare tra le pagine i materiali di cui ci siamo appropriati. Quarta azione: trovare uno stile di rilascio che proceda in equilibrio tra sintesi e analisi, non dilungandosi in frivolezze ma nemmeno tralasciando quello che è importante dire. Insomma, comporre una guida vuol dire prendere per le corna il mondo e farci i conti, dando fuori un manualetto d'uso che sia utile a chi vorrà prenderlo per le corna dopo di noi.
E va bene, okay, tutto questo è vero partendo dal presupposto che il mondo esista e che di quel che è nel mondo ci si voglia occupare. Ma se il presupposto invece cambiasse? Se, pur continuando a esistere il mondo, si volessero esplorare e inventariare cose che non ci sono, ma potrebbero, messe a fianco di quelle vere? Su questo presupposto riposa il lavoro compreso nelle pagine seguenti. Si tratta infatti di una serissima guida a luoghi fantastici, o a dettagli fantastici di luoghi reali. Il fazzoletto di mondo preso in considerazione è la provincia di Piacenza, una strana terra che ha tutte le carte in regola per essere resa fantastica: a partire dalla sua posizione geografica ambigua, che la rende anfibia tra Emilia, Lombardia, Piemonte e Liguria, impossibilitata a dedicarsi davvero anima e corpo a una delle regioni, passando per un clima infarcito di nebbia, vale a dire dell'elemento climatico che favorisce l'invenzione per eccellenza, per arrivare infine alla tanta acqua sventagliata nel territorio, tra il Po e i suoi affluenti, e si sa, l'acqua è quanto di più mutevole si possa trovare ai nostri piedi.
Nella guida dunque troverete musei, luoghi di rilevanza storica, negozi, ristoranti, chiese, sotterranei, vie a vario diritto notevoli, aree verdi e quant'altro, oltre naturalmente a un'appendice dedicata alle principali ricorrenze del territorio, vale a dire feste e manifestazioni: del resto, in un luogo ci si reca non solo per visitarlo, ma anche per immergersi nei suoi usi&costumi. E per una volta, la lettura di una guida vi prenderà dalla prima all'ultima pagina, non sarà un varco di passaggio per arrivare al viaggio vero e proprio ma sarà un viaggio in sé e per sé, compiuto e, appunto, fantastico.
Va da sé che probabilmente desidererete visitare davvero le tappe descritte. O talvolta farci finire qualcuno che vi sta antipatico (non tutto quel che di notevole c'è in un territorio è per forza piacevole...). Purtroppo non è possibile. Oppure sì? A lungo andare qualche cosa colerà fuori dalla guida, attecchirà nella realtà e crescerà fino a esserci davvero e del tutto? Chi lo sa. La guida è piena di proposte, adesso sta al mondo accoglierle.
(prefazione di Gabriele Dadati e Giovanni Battista Menzani)

mercoledì 27 novembre 2013

#, 01

Mia figlia si è accorta che tutti i giocattoli sono Made in China.
Però, ha detto ieri a tavola, questi cinesi fanno proprio delle cose belle.

domenica 24 novembre 2013

ROCK’n’GOAL: CALCIO E MUSICA. PASSIONI POP, di Antonio Bacciocchi e Alberto Galletti

Sottovalutato anche qui da noi, forse a causa di quella timidezza, di quel garbo e di quella pacatezza che lo contraddistinguono, Antonio “Tony Face” Bacciocchi - coinventore di “Tendenze” e membro storico dei Not Moving - è stato ed è tutt’ora un grande agitatore culturale. Cultura da intendersi nel senso popolare del termine. A differenza di altri intellettuali più snob, Tony non ha mai nascosto le sue simpatie verso passioni pop come la musica e il calcio, oltre che per la politica e i temi sociali. Chi legge il suo blog (http://tonyface.blogspot.it) lo sa bene.
“Entrambi i fenomeni, calcio e rock, sono identitari” - racconta Bacciocchi in una recente intervista a Rolling Stone – “hanno un immaginario simile: come in un concerto la rockstar si esibisce davanti a un pubblico numeroso che lo incita e lo appoggia, lo stesso fa il calciatore…”. Per chiarire meglio il concetto, cita John Peel, storico DJ della BBC: “Sebbene entrambi siano condotti da gente volgare e rozza che non ha cuore altro che il cliente che paga, il prodotto in sé in entrambi i casi mantiene una capacità di partecipazione emotiva che va oltre la comprensione dei suddetti rozzi e volgari”.
Il tema del rapporto tra calcio e musica viene approfondito davvero con dovizia di particolari in “ROCK’n’GOAL. CALCIO E MUSICA. PASSIONI POP”, scritto a due mani con Alberto Galletti ed edito da Vololibero, con prefazione di Jacopo Casoni e postfazione di Claudio Agostoni.
Un libro che parla di calcio e di pop-rock. Ovvero, il sogno di Nick Hornby. Il sogno di molti di noi. "Rock’n’goal" ne analizza tutte le possibili, anche quelle più improbabili e insospettabili, connessioni. Calciatori cantanti, canzoni dedicate al calcio, tifosi eccellenti, il rock e le sottoculture nelle curve. Con stralci di interviste sulle passioni calcistiche di Mick Jagger, Paul McCartney, Roger Daltrey, Clash e decine di musicisti e cantautori italiani.
Il volume ha avuto una vasta eco sui media nazionali: ne hanno parlato i maggiori quotidiani,  il sito del Corriere gli ha dedicato persino una bella galleria fotografica, e Tony è stato ospite di Sky e a Quelli che il calcio.
Gli aneddoti e gli episodi da riportare sarebbero tantissimi, basti citare di un Julio Iglesias portiere della squadra giovanile del Real Madrid, di un piccolo David Bowie ottima ala sinistra, di un Badly Drawn Boy che a diciotto anni fece un provino per il Manchester United. O anche dei 45 giri incisi da Paul Gaiscogne, Kevin Keegan e Giorgio Chinaglia. Delle esibizioni pedatorie di Rod Stewart ed Elton John. Della fede dei fratelli Gallagher per il City, o di quella nerazzurra di Luciano Ligabue, che ha omaggiato Oriali nel brano “Una vita da mediano”. Di “Santa Maradona”, grande successo dei Manonegra. Di Jagger sul palco a Torino, l’11 luglio del 1982, con la maglia azzurra di Paolo Rossi. E del finale di “Fearless” dei Pink Floyd, con il coro della Kop, la curva del Liverpool, che intona “You’ll never walk alone”.
Tra le storie meno conosciute, c’è quella di Billy Bragg: durante un suo viaggio in Bolivia per realizzare un documentario per la BBC, a 4000 metri di quota davanti a un panorama mozzafiato, riuscì a captare una trasmissione inglese in cui si annunciava che il suo West Ham aveva perso 6-0 contro l’Oldham. Commentò: ‘Sentii il mondo crollarmi addosso”. Oppure c’è quella di “Munich Air Disaster 1958”, una bellissima canzone di Morrissey, da ragazzo assiduo frequentatore delle gradinate dell’Old Trafford, omaggio ai calcatori del Manchester United scomparsi in una tragedia aerea: “Li abbiamo amati, li piangiamo, sfortunati ragazzi in rosso”. Tornando in Italia, bella la testimonianza di oSKAr (Oscar Giammarinaro), leader della storica band Statuto, ultrà granata, in cui racconta il suo incontro con l’allora capitano del Torino Giorgio Ferrini: enorme, forte e fiero, (…) sempre pronto a difendere tutti i suoi compagni. “Quando diventai capitano dei pulcini dissi al mio allenatore: ma io dovrei fare come Ferrini? Come Ferrini non c’è nessuno, mi rispose con un’aria lui quasi sconsolata”.
Queste e altre chicche ci racconteranno Tony Face e Alberto Galletti in persona, mercoledì 27 novembre (ore 21), ospiti del Caffè letterario Melville di San Nicolò. 




giovedì 21 novembre 2013

Ora, che nessuno dica che twitter è solo una colossale perdita di tempo.
O che rende stupidi, come dice Jonathan Franzen, dimenticandosi di distinguere chi usa i social network in modo utile e intelligente da chi posta su youtube dei video in cui mescola le Mentos alla Diet Pepsi (cit.)
Insomma, tante cose non vanno nel mondo moderno, sempre per citare l'immenso autore de "Le Correzioni", ma perchè prendersela così tanto con l'unico social decente.
Guardate cosa ci ho trovato stamattina, per esempio.
E' o non è un capolavoro?
Realismo sovietico 100%.
Mutandoni agghiaccianti, e anche il vetromattone non è male, con quelle righe orizzontali e verticali incrociate.
Sono sicuro che anche Franzen apprezzerebbe.


martedì 19 novembre 2013

HO UN LIBRO IN TESTA

Guardatevi attorno: c'è un esordiente particolare.

Fra le notizie belle di questa settimana che entra c’è che giovedì 21 arriverà nelle librerie L’odore della plastica bruciata, libro d’esordio di Giovanni Battista Menzani. Lo pubblica LiberAria e si tratta di tredici storie dove forte è l’immaginario espresso, un immaginario bizzarro e allo stesso tempo sottile, che si pone sotto un segno: quello per cui il mondo in cui viviamo è esattamente come ci appare, ma al contempo è anche diverso, perché nasconde nei suoi anfratti qualcuno che ne paga i conti in maniera inaspettata.
Mi spiego. Nel primo racconto troviamo un outlet come ce ne sono tanti, con i suoi negozi che fingono di essere piccoli edifici, con la sua folla festante e quant’altro. Solo che, a differenza degli outlet che conosciamo, questo ospita anche dipendenti che travestiti da muli non solo fanno manutenzione, ma portano anche le merci sul dorso dai negozi fino alle macchine parcheggiate.
Nel quarto racconto ci troviamo a gironzolare tra le baracche abitate da aspiranti-comparse nei maggiori programmi televisivi: se ne stanno lì a oziare, bevono e litigano tutto il giorno, aspettando «la chiamata» per fare il pubblico in un quiz a premi, ma se va bene anche il finto ospite che racconta la sua finta storia struggente alla presentatrice di turno (un po’ finta anche lei) in studio. O ancora nel racconto seguente due agenti ispezionano l’appartamento di un vecchio – come già in passato – per verificare che abbia rispettato per bene il protocollo, che si sia attenuto a regole che a mano a mano emergono. E così via. Si tratta cioè tredici storie in cui i singoli sono sovrastati da un qualche sistema che li ha integrati – spesso al livello più basso – e li utilizza per far funzionare le cose a vantaggio degli altri. Li sfrutta? Li umilia? Può anche essere, sì, ma non è questo il punto. Se ne serve, ecco. Ed è tutto normale.
Quello che voglio dire è che Giovanni Battista Menzani, col suo libro bello e sbarazzino, sembra quasi aver portato all’eccesso il nostro mondo (o aver visto, dentro il nostro mondo, qualcosa che a tutti noi sfugge) ed essersi dedicato a raccontarlo con estrema precisione, oltre che con dignitosa vicinanza. I suoi personaggi non sono né patetici né macchiettistici, semplicemente sono perché così devono essere. Mi fa venire in mente uno scrittore statunitense tradotto credo con nessun successo da minimum fax una decina di anni fa, Steven Sherrill, e il suo romanzo Il Minotauro esce a fumarsi una sigaretta, storia di M., il Minotauro appunto, che lavora come cuoco in una bisteccheria e sogna di aprire un chiosco di hot dog per starsene tranquillo con la ragazza che ama. Che sia un Minotauro non fa specie a nessuno, e basta.
Giovanni è l’ideatore di quell’impresa che è il Dizionario Biografico Fantastico dei Piacentini Illustri (PiacenzaSera, 2012), di cui ho avuto la fortuna di essere cocuratore. Che dirvi? Le sue idee sono così, un po’ bislacche, ma molto sensate. Ne parleremo insieme mercoledì 20, ore 19, alla libreria Fahrenheit 451 di Piacenza (sta in via Legnano, a cento metri dal Duomo). Alla fine, tra l’altro, mi sa che si beve. Se riuscite a passare fa piacere, o se no L’odore della plastica bruciata lo trovate un po’ ovunque il giorno dopo.

(Gabriele Dadati)

 http://www.hounlibrointesta.it/2013/11/18/giovanni-battista-menzani-l-odore-della-plastica-bruciata/

CARTOLINE DALLA FINE DEL MONDO, 01


mercoledì 13 novembre 2013

ORDINE E FLUTTUAZIONE DI DFW

Nel vedere e nel provare qualcosa che somigli a ciò che Barry Dingle prova mentre fissa a bocca aperta da dietro gli occhiali e da dietro la vetrina del negozio il vetro che riflette oscuramente dell’autobus impantanato, lo studioso del fenomeno Barry Dingle deve provarsi a immaginare l’inimmaginabile ricchezza, portata, promessa dei bollettini comunitari di fronti ai quali Myrnaloy si pone come selezionatrice e sentinella, una bacheca di svolazzanti annunci estrosi, sfregi all’Establishment, presentazioni – richieste di attenzione da parte di gruppi di sostegno delle lesbiche cifotiche, bar maoisti, lotti di orti biologici in affitto, dentisti che deprecano mercurio e alluminio, partiti politici dall’orientamento oscuro con nomi più lunghi delle liste dei candidati, insegnanti di sitar, telefoni amici per anoressici, diffusori orientali e mediorientali della coscienza spirituale, telefoni amici per bulimici, medici che curano con cristalli e grano, troupe di ballerini interpretativi di tip tap, massaggiatori olistici, agopuntori, agopuntori chiropati, mimi marxisti che hanno ricavato una pantomima dal Kapital, dattilografe, medium, specialisti in nutrizionismo, compagnie teatrali che rappresentano solo Brecht, riviste letterarie della Pioneer Valley con diffusione a due cifre, e avanti di questo passo – un aggeggio enorme, piatto, tempestato di graffette e puntine da disegno, con una speciale tenda del “Collective Copy” a proteggerlo dalle apatiche vicissitudini delle condizioni atmosferiche del New England. La bacheca è il ganglo avanguardista della zona, una calamita che con forza centripeta attira dal centro città gli ioni diffranti della vasta notte organizzativa di Northampton, che ogni mattina rampolla rinnovate, rutilanti rivendicazioni di esistenza e efficacia, curate, ordinate, setacciate nel tardo pomeriggio da Myrnaloy Trask che, al momento, riflessa nello scudo grigiastro del vetro dell’autobus, col vento di giugno a tracciarle serpenti tra i capelli, un dito dall’unghia mangiucchiata su uno scintillante volantino di leggittimità e valore discutibili, sta lì a decidere se quelle parole abbiano il diritto di esistere (…)

da "Ordine e fluttazione a Northampton", DAVID FOSTER WALLACE ("Questa è l'acqua", Einaudi, 2009)

ACTOR'S CUT OF "FUCK MONOLOGUE" FROM "25TH HOUR"

http://www.youtube.com/v/yXMt4pKRwwY?autohide=1&version=3&attribution_tag=yseXjpzNS8nxAFwsjarEEw&autohide=1&feature=share&showinfo=1&autoplay=1

La venticinquesima ora, SPIKE LEE, 2002.

domenica 10 novembre 2013

INCIPIT, 01 (COSE A CUI STO LAVORANDO ADESSO)

Una piramide rastremata verso l'alto, a tronco di cono, in mezzo all'oceano. Cosi' mi ero sempre immaginato il Purgatorio: una piramide con le balze successive intagliate nella montagna, simili a gradinate, come riprodotto sui libri e sulle enciclopedie. 
Stronzate.
E' solo una immensa e monotona pianura non coltivata, una distesa di erbacce e di terra e di polvere immersa nella nebbia. 
Il nulla come orizzonte.

mercoledì 6 novembre 2013

ARCHITETTURA MODERNA, 01


STEREO BLUES VOL. I: PUNK COLLECTION

L’EP “Stereo Blues Vol. 1: Punk collection” è il primo episodio di quattro omaggi che Lilith e i suoi Sinnersaints vogliono tributare alle radici del proprio sound, un viaggio trasversale e obliquo attraverso la musica rock e non solo; quattro omaggi che verranno successivamente raccolti in un imperdibile metalbox a tiratura limitata.
I brani selezionati per questo Volume One sono tutti datati alla fine dei Settanta. Un periodo fecondo e irripetibile, quando il punk – sporco, nichilista, trasgressivo – fece irruzione in un contesto caratterizzato da una forte crisi economica e dal riflusso di quella rivoluzione dei Sixties, ormai morta e sepolta. Gli anni in cui Lilith (al secolo: Rita Oberti), a soli quindici anni, contribuì a creare la leggenda dei Not Moving.
Un percorso personale, prima di tutto: ma anche un tributo a una generazione.
“Sailin’ On” è un classico dei Bad Brains, gruppo di Washington tra i pionieri dell’hardcore: la versione di Lilith è assai più lenta, un notevole blues indolente a là Nick Cave. 
“i’m stranded” è il singolo di debutto degli australiani Saints, che nel ’76 anticiparono un po’ tutti, persino i Sex Pistols. Qui sembra suonata dagli Husker Du o dai R.E.M. di “Murmur”.
“See no evil” è la prima traccia da “Marquee Moon”, disco d’esordio dei Television di Tom Verlaine e pietra miliare del rock. E’ la più fedele all’originale. Poco male, in questo lotto è la nostra preferita.
Infine, non potevano mancare i Clash. La scelta a prima vista parrebbe inusuale, ma il brano “The sound of sinners” (dall’album triplo “Sandinista”, 1980) è – oltre che una satira irriverente sulla religione cattolica – anche, probabilmente, l’origine del nome dei “santi peccatori”. Cover di grande classe, tra il rockabilly e il vecchio west, impreziosita dai cori gospel di Carla Gatti, Beppe Cassi e Lorenzo “Puccio” De Benedetti. In coda, un omaggio alla blank generation.
L’interpretazione di Rita è impeccabile. La sua voce dura e allo stesso tempo suadente è accompagnata da un’ormai affiatata band composta da Tony Face Bacciocchi alla batteria e Massimo Vercesi alla chitarra; attualmente il gruppo è completato da Christian Josè Cobos (Cj HellectricBass) al basso.
Curiosissimi di ascoltare il seguito.

lunedì 4 novembre 2013

ARCADE FIRE, "Reflektor" (2013)

"Reflektor” non e' il disco dance degli Arcade Fire.
E’ vero, c'e molta elettronica, ci sono le basi, ma anche molto di più. Assurdo paragonare la band di Montreal ai Daft Punk, come hanno fatto alcuni. Più interessanti i parallelismi con album come “Station to station” (un Bowie all’apice del successo sterzò verso una dance wave spiazzando tutti) e “Achtung Baby” (la svolta berlinese degli U2 all’apice del successo).
Anche in “Reflektor”, quarto e doppio album della band più amata del circuito alternativo, c'e voglia di cambiare. C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi (ricordate “The Funeral”?), forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari – il mito di Orfeo, Camus – e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.

Apre il Disco 1 il singolo omonimo, con il quale la band indica la nuova strada che già “The suburbs”, tre anni fa, aveva anticipato con brani da revival anni ’80 come “Empty room” e “Sprawl II” e i barocchismi di “Rococo”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto.
La seconda traccia, “We exist”, pulsa su uno spettacolare groove. “Normal person” è un blues-rock di classe, mentre “Here comes the nighttime” è un quasi-reggae davvero irresistibile (e questa volta sì, il paragone regge: questo pezzo potrebbe togliere a “Get Lucky” il titolo di tormentone dell'anno) nei suoi continui cambi di ritmo. Questi tre brani rappresentano la soundtrack di un divertente video – autore: Roman Coppola – girato in un anonimo locale della provincia canadese (il Salsatheque) gestito da ispanici che adorano i Mumford & Sons e vorrebbero Bublè: con un cameo di Bono e di Ben Stiller. Come a dire, pronti a entrare nell'olimpo dei grandi. 
Oltre a questi, c’è il punk di “Joan of Arc” con un un gran giro di basso - il basso e' spesso in primo piano, in tutto l'album. “The bassline on Joan of Arc is fucking epic”, commentano gli stessi Arcade Fire - e il pop raffinato
Il Disco 2 è forse leggermente inferiore. Qui in primo piano ci sono le ballate elettroniche “Porno” e “Awful sound” (“I know you can see / Things that we can’t see / But when I say I love you / Your silence covers me / Oh, Eurydice, It’s an awful sound, e subito dopo When you fly away / Will you hit the ground? / It’s an awful sound”), l’electro-funk di “It’s never over” e la classica “Afterlife” (insieme a “You already know” il brano che segna la maggior continuità col passato). Chiude una psichedelica “Supercymmetry”, oltre undici minuti di suoni e riverberi.
Il disco dell’anno?

lunedì 28 ottobre 2013

QUANDO LOU REED SUONO' A PIACENZA (SEMBRA INCREDIBILE, MA E' VERO)

E’ un peccato doverlo dire adesso che Lou Reed ci ha purtroppo lasciati, ma la sua storica esibizione piacentina – avvenuta il 28 febbraio 2006 al Palabanca, davanti a quasi duemila persone - non era stata, per usare un eufemismo, una delle sue migliori performance. Il sessantaquattrenne artista newyorkese si era presentato con il consueto total black: giacca di pelle nera, tshirt nera, pantaloni di pelle, nera, anfibi, occhiali, neri. Era da subito parso in precarie condizioni psicofisiche, al solito taciturno, direi anche piuttosto scazzato: insomma non ne aveva molta voglia. Durante gli assoli di chitarra – lunghi, troppo lunghi, sembrava Neil Young in acido, anche se su quel terreno il canadese è imbattibile – a volte barcollava, gli capitava di inciampare nei cavi. Fissava il vuoto.
L’attesa al Palabanca era di quelle uniche e irripetibili.
Intanto: Lou Reed a Piacenza. Dici poco. Per una volta non ti sembrava di essere alla periferia dell’impero, ai margini di tutto quello che conta.
La setlist aveva - come sempre accede in queste occasioni - suscitato perplessità e delusioni, composta com’era da pezzi recenti, tratti da “Animal Serenade” (2004), “The Raven” (2003) ed “Ecstasy” (2000), oltre che da pezzi minori riarrangiati in versione noise, e da almeno due pezzi inediti. Era ovvio che non ci si poteva aspettare ne’ un greatist hits ne’ tantomeno un amarcord dei Velvet Underground, però le concessioni alla nostalgia furono davvero poche, pochissime: tra esse il bis con “Sweet Jane”, in piedi davanti al palco senza transenna, un grande classico che l’eroe maledetto del rock (oggi tutti i media titolano così…) probabilmente eseguiva solamente per riappropriarsene, dopo lo scippo (splendido) dei Cowboys Junkies. Quindi: niente “Transformer”, niente “Berlin”. Ma nemmeno nessun brano da grandi dischi come “Magic and loss” e “New York”. Altrettanto ovviamente, i fan duri e puri sui forum si fecero beffa di quei poveretti che si aspettavano “Perfect Day” o “Walk on the wild side”…
Ma l’atmosfera era stata comunque vibrante, la platea da subito si era svuotata (in teoria posti a sedere numerati) per andarsi a sedere per terra sotto il palco (e intanto quelli della tribuna erano scesi in platea). C'era stata anche la surreale entrata di un maestro di Tai Chi, il cui kata era stato accompagnato dalla musica.
E tornando a casa, avvolti nella nebbia che trasudava da una distesa di magazzini per la logistica e di piazzali di asfalto per le manovre degli articolati, tra trattorie a menu fisso e prostitute coi collant e la mini, ci era sembrato di aver vissuto - in ogni caso - una indimenticabile serata di rock’n roll.

mercoledì 23 ottobre 2013

PEARL JAM, "Lightning bolt" (2013)

Sembra ieri, che abbiamo iniziato, e invece questo “Lightning Bolt” è il terzo album dei Pearl Jam – su dieci in totale, in studio – che recensiamo in questa rubrica su PiacenzaSera. Avevamo cominciato un po’ in sordina, tanto per fare, e poi invece ci si divertiva ed eccoci qua.

E già due anni fa, parlando del live, avevamo commentato che non capivamo quelli che ogni volta storcevano il naso. Scrivevamo, davvero non li capiamo, quelli: i Pearl Jam sanno fare bene i Pearl Jam, cos’altro dovrebbero fare?
E anche questa volta fanno i Pearl Jam.
Ci sono i consueti pezzacci adrenalinici ed elementari, con in testa “Getaway”/“Mind your manners”, il primo singolo, che tuttavia non scaldano come un tempo, nel mezzo le ballate elettriche “Sirens” (scelta come secondo singolo) e “Shallowed whole”, buone per i live ma forse troppo telefonate, tipo Foo Fighters, oppure il blues rock vecchio stile di “Let the records play” e , in coda, l’acustica intimista di “Yellow moon” e “Future days”, un po’ ruffiane.
Tutto come da copione, a parte una copertina orrenda.
O forse no.
I brani più interessanti a un ascolto prolungato sono quelli più atipici: l’elettrica “My father’s son”, per via di quel ritornello in sospensione, una “Sleeping by myself” che - già parte delle “Ukulele songs”, qui riarrangiata in maniera impeccabile - sembra fare il verso a Weller e una “Pendulum” che viaggia in territori quasi lisergici, scritta a sei mani da Vedder, Jeff Ament e Stone Gossard.
Il solito disco onesto dei Pearl Jam.

La luce accecante di Siviglia


GOLDFRAPP, "Tales of us" (2013) e FUCK BUTTONS, "Slow focus" (2013)

Nativa del Middlesex – per i bibliofili, non è qui ambientato il romanzo di Jeffrey Eugenides, ma in Turchia, Canada e USA – Alison Goldfrapp è la splendida voce dell’omonimo duo, da sempre avvicinato dalla critica alla scena di Bristol a causa delle sue collaborazioni con Tricky e Portishead negli anni Novanta (oltre che per le evidenti affinità stilistiche).
Dopo un lungo silenzio, il duo inglese ritorna con “Tales of us”, che più che una collezione di brani musicali sembra essere una vera e propria raccolta di racconti. Le dieci tracce sono infatti dedicate ad altrettanti personaggi, così come avveniva nella pietra miliare dei Cocteau Twins, “Treasure”. 
Tra i ritratti più indimenticabili, i singoli “Drew” e “Annabel” (“When you dream you only dream your Annabel/All the secrets there inside you Annabel”), delicati e onirici, e la superba “Thea”, adorata e idolatrata da tutti, vera o falsa che sia. Poi troviamo una star hollywoodiana inseguita da un killer (“Laurel”), un soldato che ha perso l'amante (“Clay”).
Musica da camera, impreziosita dal violino dell’italiano Davide Rossi.
Bellissima.
A Bristol fanno stanza anche i Fuck Buttons, autori di straordinarie cavalcate elettroniche. 
I loro fottuti bottoni ci regalano epici strumentali tra la psichedelica e il krautrock, con echi dreamy e di danze tribali. Colonna sonora di un futuro alle porte.

domenica 13 ottobre 2013

SAMUELE BERSANI, "Nuvola numero nove"

E’ uno dei più bravi – il più bravo? - cantautori italiani, oggi, e questo lo abbiamo già detto.
Anche il pubblico sembra averlo capito: il suo “Nuvola numero nove” - dall’inglese “Cloud 9”, ovvero “Settimo Cielo” come il titolo di uno dei dieci pezzi - è stato per alcuni giorni al primo posto nella classifica dei download su iTunes.
Ciò nonostante, è comunque difficile, dopo più di venti anni di carriera (l’esordio, “C’hanno preso tutto”, è del 1992) e otto lp, riuscire a non deludere le aspettative.
Bersani ci riesce, e lo fa con un disco bello e leggero, dall’aria quasi scanzonata, anche ispirato alle dinamiche della sua sfera privata, ma non privo della solita lucida e spietata satira sul nostro paese, “stivale ridotto a pantofola”. Come in “DAMS”, dove ironizza sulla ribellione forzata di uno studente, oppure in “Chiamami Napoleone”, dove l’impietoso confronto tra l’attualità scontata e banale e il glorioso pasaato della cultura italiana (e non) ha come vittima i Modà: “Non c’è più niente qui da musicare, a parte un disco dei Modà”.
L’album è stato registrato nello studio utilizzato anche da Lucio Dalla, suo antico mentore a cui è stato dedicato. Rispetto al passato anche recente, i testi – sempre di alto, altissimo livello:  – appaiono meno complessi e cervellotici, più diretti, e il consueto uso/abuso delle metafore è più  limitato.
Interessanti gli arrangiamenti, più stratificati e meno pop, grazie anche ad alcune collaborazioni con artisti e band emergenti.
Tra i brani migliori, il singolo “En e Xanax”, ballata forse autobiografica sull’incontro con una ragazza anch’essa succube degli ansiolitici (“In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore/e su di me puoi contare per una rivoluzione”), la raffinata “Ultima chance” e le notevoli “Desiree” (“Desirée torna in sé dopo un sogno/svegliandosi tra gli scoiattoli di una città/su una panchina aspetta l’autobus /e si strofina le mani dal freddo che fa/è una mattina in cui le nuvole battono i taxi in velocità/e le altalene si credono libere di dondolare per propria volontà”) e “Il re muore” (“Rimango a farmi tenerezza/perché è cambiato il giorno/ma non tutto l’odio che vedo qui intorno/Ma quale ironia, servono soldi/muscoli e strada da fare per dimenticare”).

lunedì 23 settembre 2013

ARCTIC MONKEYS, "AM" - FRANZ FERDINAND, "Right thoughts right words right action" - EDITORS, "The weight of your love" (2013)

Il tempo è un bastardo. (cit.)*
Scorre per tutti, inesorabilmente. Ma non per tutti alla stessa velocità. Il mio cane, ad esempio. Zoppo e spelacchiato, abbaia rauco che sembra più una foca, che un cane. Per lui il tempo scorre più rapidamente. Lo stesso accade per le bands. 
Tra quelle emerse a inizio millennio in Gran Bretagna, ecco di nuovo in pista i Franz Ferdinand.
Artefici di un art-rock molto influenzato dal funky e dai Talking Heads, gli scozzesi tornano con un album dalla consueta grafica costruttivista e zeppo di brani ballabili, ridondanti, purtroppo schiavi di una formula ormai scontata e che invece tendono a ripetere all’infinito. Senza sussulti.
Discorso diverso per gli Editors.
Il gruppo di Birmingham si smarca dall’accusa di essere un clone dei Joy Division e vira, dopo la sfortunata parentesi elettronica del penultimo e assai deludente “In this light and on this evening”, verso un sound AOR e verso un’epica da stadio. La critica, spietata, cita U2, Muse e Coldplay. 
Peccato, perché le bonus track acustiche, “Hyena” e “Nothing”, lasciano intravvedere nuovi percorsi, se decidessero di abbandonare enfasi e magniloquenza.
Se la cavano egregiamente, invece, gli Arctic Monkeys, anche loro come gli Editors al quinto disco (i FF al quarto).
La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è più complessa, i temi più profondi.
L'album - semplicemente intitolato AM - si apre con una spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” (atipico primo singolo) e “R U Mine?”: due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo.
“One for the road” è fiacca, ma non c'è tempo per recriminare. “Arabella” e la lennoniana “No. 1 party anthem” sono tra i pezzi più convincenti, e tra loro “I want it all” scorre tutto sommato innocua.
La seconda metà soffre il rischio della ripetizione e appare nel suo complesso meno urgente, anche se un cenno lo meritano “Fireside” e l’altro singolo “Why’d you only call me when you’re high”, mentre “Knee socks” sembra rubare l'intro a “Miss you” degli Stones e la mielosa “Mad sounds” termina - tra organi sixties e una chitarra dolcemente ripegata su sè stessa - in un Ullallà-ù di cui le scimmie artiche sembrano non avere vergogna, ed è una dimostrazione di maturità raggiunta (chissà cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).
* Jennifer Egan

mercoledì 11 settembre 2013

Scritture pazze, 02

La pioggia (in questa parte ricca del mondo)

Sanguina la terra
per l’aratro
l’affilata lama taglia,
sminuzza,
sconvolge,
distrugge
linee parallele in’infinita sequenza
perdendosi suggeriscono
l’urgenza
di un orizzonte.
Urla la terra ferita
e aspetta il seme fecondo
in questa parte ricca del mondo.

domenica 27 maggio 2012

DECEMBERISTS, "We all raise our voices to the air" (2012)

Il lettore più attento potrà lamentarsi: ancora i Decemberists. Vero, seguiamo con attenzione le mosse della band di Portland, e l’ennesima occasione per parlare di loro è l’uscita del loro primo live, un cd doppio – addirittura triplo nell’edizione in vinile. La recente riscoperta della tradizione e delle radici folk si riflette in questa torrenziale (126 minuti!) raccolta di brani incisi in ben 12 diverse performance tenute da Colin Meloy e soci dal mese di aprile ad agosto del 2011, durante il Popes of Pendarvia World Tour, comprese le ultime due date nella loro città natale (alcuni episodi si avvalgono di una sezione fiati aggiuntiva). Tale generosità permette loro di farsi perdonare qualche piccola sbavatura. La raccolta si caratterizza per una sapiente alternanza tra struggenti e languide ballate e pezzi più ritmati e festaioli, con grande profusione di mandolini, fise e armoniche a bocca, e si distingue per la sua immediatezza e il suo potente impatto emotivo. La track-list ripercorre una breve ma intensa carriera, se album e una mancita di EP (32 solo nel corso del 2011): da Oceanside (dall’EP di debutto, Five Songs, 2001) alle storie epiche di soldati e marinai tratte dal celebrato Picaresque (2005: The Infanta, The Bagman’s Gambit, We Both Go Down Together, The Mariner's Revenge Song, per lungo tempo l’epilogo consueto dei loro concerti, questa volta egregiamente sostituita dalla più datata I Was Meant For The Stage), dalla suite The Crane Wife alle recenti Rise To Me, All Arise, June Hymn, This Is Why We Fight, Down By The Water, Rox In The Box, che ripropone nel mezzo un’aria in stile Irish Heartbeat, e Calamity Song, ispirata a una novella di David Foster Wallace. Bravi a saper coniugare la scuola del folk elettrico britannico di fine ’60 (Fairport Convention, Pentangle) e degli anni ’80 (Pogues, Waterboys) con il roots americano, la lezione dei R.E.M. e dei grandi maestri (The Band, Byrds, Grateful Dead).

giovedì 17 maggio 2012

Padania, 2012

Le recenti vicende di cronaca – in particolare la grottesca storia della laurea comprata dal Trota in Albania, qualcuno dice con una rivoluzionaria tesi sulla tabellina del due – rappresentano un ottimo traino per l’attesissimo nuovo album della band milanese, al rientro su lunga distanza dopo oltre quattro anni. Le polemiche su una presunta svolta pop e sul cedimento al mainstream, come anche le accuse di tradimento da parte dei fan della prima ora, paiono qui lontane anni luce: “Padania” è infatti un disco di rock ruvido e spigoloso, urgente e ispirato come agli esordi. Tutt’altro che di facile ascolto. A partire dall’incipit, “Metamorfosi”, con un Manuel Agnelli che sperimenta vocalizzi degni di un Demetrio Stratos, accompagnato dalle sfuriate del rientrante chitarrista storico Xabier Iriondo (se ne è andato Gabrielli) e dal violino distorto di Rodrigo D’Erasmo: spiazzante, così come “Ci sarà una bella luce”, obliqua e scomposta come mai prima d’ora, tra Captain Beefheart e Frank Zappa. “Terra di nessuno” (“ti ho guardato troppo abbassare il tuo viso/sussurrando che è perchè noi siamo forti/aspettando il colpo che ci avrebbe steso/proprio mentre ci stan rubando la forza”) e l’elettrica “La tempesta in arrivo” (“ognuno pensi a se’ stesso”) , scelta per la colonna sonora di una fiction Sky, ci riportano in territori già battuti. Poi arriva la straordinaria ballad “Costruire per distruggere” (“cadremo tutti e poi sarà il piacere/cadremo tutti e poi festeggeremo/la liberazione dal nostro dovere/costruire per distruggere/una lunghissima rincorsa e finalmente poi/e finalmente poi poter morire”), il brano migliore e tra i loro più belli di sempre. La furiosa “Fosforo e blu” inaugura il lotto dei pezzacci più tirati, che si completa con “Spreca una vita”, “Giù nei tuoi occhi” e “Io so che sono”. La title-track, bellissima, è degna erede di “Quello che non c’è” e sottolinea la continuità, insieme alle notevoli e mai banali “Nostro anche se ci fa male” (“con il veleno che ti ho messo in cuore/non si sopravvive mai/ma tu hai imparato ad amare il tuo dolore/piuttosto che non amarmi più”) e “La terra promessa si scioglie di colpo”, che chiude l’album con classe e lucidità (“senza cori nè bandiere/è uno stato nella mente e so/che c’è una dittatura/perchè c’è qui dentro me”). Completano la raccolta lo strumentale “Iceberg” e i due sarcastici Messaggi Promozionali, il primo dei quali pare imparentato con i Verdena dello straordinario “Wow”. Un panorama desolante e spietato, quello della loro (nostra) Padania. Una landa desolatamente in declino, disillusa e incattivita, disorientata e senza prospettive. Triste e gelida come la cover dell’album, con un cancello solitario e arrugginito nella neve fradicia. Un grande disco, che fa arrossire alcune bands italiane recentemente sponsorizzate dalla critica specializzata. Per ribadire chi sono, qui da noi, i fuoriclasse autentici.

PERFUME GENIUS, SHINS, MOSS

La rubrica delle segnalazioni musicali di PiacenzaSera riparte dopo un breve periodo di silenzio dovuto, niente scuse, alla pigrizia proverbiale del recensore. E, per farsi perdonare, lo fa proponendovi addirittura tre nuove uscite. Perfume Genius è lo pseudonimo di Mike Hadreas, da Seattle. Cantautore dalla vena intimista e tormentata, in questa sua seconda opera mostra segni di maggiore maturità rispetto all’esordio, tra Antony e Wainwright. Si è parlato di lui a causa del video di “Hood”, nel quale ha recitato un noto attore gay porno, ma merita maggiore considerazione per la sua musica e le sue canzoni, tra le qualki “Normal Song” e “Dark Pants”, che narra delle violenze subite dalla nonna a opera di suo marito (“I will take the dark parts of your heart into my heart”). Certamente più accessibili e scanzonati gli Shins, band di Albuquerque (New Mexico, resa celebre da Neil Young) ma di stanza a Portland, Oregon, una delle nuove mecche della geografia rock USA, e capitanata da un nerd incallito come James Mercer (amante di Weezer e Big Star). Il loro terzo album contiene la solita serie di pezzi lounge-pop dalla sonorità sixties, ma alla fine l’ascolto lascia poche tracce. Citazione d’obbligo per la superba, e mielosa, “It’s Only Life”. Per ultimi gli olandesi Moss, da Amsterdam (quanta buona musica dall’Olanda…), giunti anch’essi al terzo album e autori di un pop-rock sofisticato, assai gradevole e senza sbavature. Poco più di quaranta minuti per undici brani scritti bene, davvero bene, tra i quali spiccano l’opener “I’m Human”, eterea e sfuggente, la notevole “Tiny Love”, che è stata accostata ai Beach House e ai Fleet Foxes, poi “The Hunter”, tra i primi Placebo e il krautrock anni ‘70, e infine “Almost a Year” e “What You Want”, che sfodera un riff di chitarra semplice e tuttavia irresistibile, un singolo che potrebbe anche sfondare.

domenica 18 marzo 2012

W la Bolide



Sono nato nel palazzo di fronte, un’anonima costruzione in cemento armato che svetta per cinque piani all’angolo tra le vie Alberoni e via Abbadia. Quante volte l’avevo notata, ai tempi della scuola, mentre ripetevo la lezione nella mia camera affacciata sui giardini. E quante volte mi sono affidato a lei, mentre con lo zaino in spalla andavo a scuola senza aver nemmeno finito i compiti.
Eppure solo adesso me ne sono ricordato.
La cosa curiosa è che, chiedendo a parenti e amici che vivono da sempre nel mio quartiere d’origine, ho appreso con stupore che quasi nessuno si è mai accorto di lei. Quale Madonna?, mi hanno risposto.
Dice bene Enrico Garlaschelli, nel presentare questa iniziativa (Libertà, 19.01.2012): “L’uomo moderno ha uno sguardo e un’andatura diversi: quelli frettolosi dell’automobile, quelli curiosi o indifferenti dei passanti”.

Pensare che lei è in quella nicchia, sormontata da un timpano triangolare retto da esili lesene, da oltre un secolo. Non conosco l’anno di costruzione del fabbricato del civico 57 di via Alberoni, oggetto di un sopralzo nel secondo dopoguerra. Sobrio e severo, questo palazzo residenziale riprende le modanature della più bassa e antica costruzione alla sua destra, di origine settecentesca. Esso è stato sovrapposto nel XX secolo al lato sinistro di San Savino, nel corso del tempo accerchiata da un coacervo disomogeneo di costruzioni. All’esterno, gli unici tratti oggi visibili della basilica romanica sono la facciata del XVIII secolo e le due absidi ricostruite durante i lavori di restauro di fine Ottocento, quando Ettore Martini – che abitò proprio qui - fu incaricato di spogliare il tempio dal pesante apparato decorativo di epoca barocca e di riportarlo al suo splendore originario. Pragmatico e fedele alla scuola di Viollet Le Duc («Restaurare una costruzione è ristabilirla in uno stato completo che può anche non essere mai esistito fino a quel momento»), l’ingegnere usò la mano pesante, decidendo di ricostruire alcuni dei capitelli antropomorfi e zoomorfi dei pilastri cruciformi che reggono le volte costolonate, oltre a inventarsi la scenografica scalinata di accesso alla cripta, posta sul fondo della navata centrale.

Da quando ne ho memoria, la facciata del palazzo è senza colore.
Solo intonaco grigio, ormai annerito dal traffico e dalle polveri sottili, sul quale spicca la statua in pietra - opera di discreta fattura ma convenzionale - che raffigura la Madonna con le mani congiunte nell’atto di pregare, con una mezzaluna rovesciata ai suoi piedi che allude all’Apocalisse: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”. Un’iconografia popolare e diffusa a partire dal XV secolo (così la rappresenta nel 1498 Jean Bourdichon nel trittico della Cattedrale di Moulins: in piedi, giovane e bella, con i capelli sciolti, che poggia sulla falce lunare; e per togliere ogni dubbio il cartiglio ai suoi piedi reca la scritta: “Sole amicta, lunam habens sub pedibus, coronata stellis”).
L’androne sottostante la statua reca un’iscrizione nel cancello in ferro battuto:
“MATER ILIIS”.
Devo ammettere di non aver studiato il latino, tuttavia posso avanzare il dubbio che alla scritta manchi una “F”:
“MATER FILIIS”.
La madre per i figli.

Oltrepassando l’androne si accede al cortile dell’oratorio, il cortile dove io e i miei amici abbiamo tirato i primi calci a un pallone, nella mitica “Bolide”. Era allora, e lo è ancora, un piazzale di cemento pieno di buche e di pozzanghere, dalla forma irregolare, vagamente trapezoidale. Sul lato sinistro, era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo: questo almeno in teoria, perché era costantemente lavata via dalle piogge invernali. Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato; bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Quando veniva buio, il parroco mandava la perpetua a requisirci la palla: era questo l'unico modo per far terminare le partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità.

L’oratorio era anche, allora, un punto di riferimento per tutti noi ragazzi, adolescenti e non, un vero e proprio centro di aggregazione sociale.
Erano quelli i tempi difficili - del terrorismo e della strategia della tensione - che seguirono la ricostruzione del dopoguerra, il mito del progresso e della crescita continua.
Piacenza appariva trasformata, reduce dal saccheggio della speculazione edilizia e di un’attività edilizia frenetica che produsse una periferia caotica e disordinata. In un paio di decenni la città consolidata – oltre duemila anni di storia urbana – duplicò, anzi triplicò, le sue dimensioni; il centro perse la sua tradizionale importanza produttiva e iniziò a spopolarsi. A pochi metri dalla Mater, ecco tuttavia in quegli anni erigersi il Grattacielo dei Mille, simbolo e paradigma di un boom economico ormai sgonfiatosi e dei suoi inutili eccessi, svettare tra le case umili dei maestri e dei ferrovieri, costruite senza ferro e con poco cemento. Sembra di udire l’anatema di Ginsberg nel suo celebre “Urlo” (1956): “si sono rotti la schiena a innalzare moloch al cielo!”

Allora in via Alberoni c’erano ben due fruttivendoli, a distanza di trenta metri uno dall’altro. Poi c’era un rivenditore di elettrodomestici, un fotografo, la parrucchiera, il negozio di fiori, una latteria, una merceria, le tre sorelle che vendevano il pane, così devote alla Madonna, l’alimentari e il Bar Sport.
Il Bar Sport c’è anche adesso. Intorno, resiste solo la parrucchiera, il fotografo ha chiuso da un pezzo. Adesso ci sono due o tre kebab, un take away pakistano, un centro massaggi con arredamento minimal-giapponese, un callcenter con transfer money, una lavanderia a gettone, una copisteria e qualche vetrina sfitta.

E’ la città tradizionale che implode e si smaterializza sotto i nostri occhi, inglobata dall’attuale indiscriminata urbanizzazione del territorio agricolo - la "geography of nowhere" descritta da Kunstler, scrittore e osservatore di un paesaggio occidentale in costante evoluzione. Inizialmente mosso dal legittimo desiderio di accedere a una casa di proprietà, di garantire alla propria famiglia la privacy, di stabilire un più diretto rapporto con la natura, l’abitante postmoderno soffre oggi della congestione del traffico e dell’inquinamento, ma anche di un crescente senso di isolamento, che è certa¬mente reso più acuto dalla mancanza di spazi pubblici degni di questo nome. E la scomparsa dello spazio pubblico avviene a vantaggio di una progressiva privatizzazione del territorio, e in ultima analisi della trasformazione del cittadino in consumatore. I luoghi di socializzazione tipici della contemporaneità e del sistema globale delle reti sono infatti i grandi contenitori, i Centri Commerciali e le Multisala cinematografiche, ovvero quelli che paradossalmente Augè – l’etnologo della solitudine – aveva definito i “non-luoghi”: parallelepipedi privi di significato e senza riferimenti al loro contenuto, accostati uno all’altro lungo strade a scorrimento rapido, ma ormai affermatisi come punti di ritrovo d’elezione dagli adolescenti.

L’oratorio per fortuna c’è ancora.
Possiamo considerarlo uno degli ultimi avamposti della città, la città così come storicamente l’abbiamo sempre intesa, ovvero uno dei rituali antichi che la modernità non riesce a cancellare ma che pone sullo sfondo, indicatori del tempo che passa e sopravvive.
E anche oggi è uno straordinario luogo di incontro e di contaminazione. Un crocevia di culture e di religioni.
Luogo di inclusione, non di esclusione.
Oltre a esprimere la devozione e la gratitudine dei fedeli, tradizione vuole che la Madonna del mistadello indicasse ai pellegrini stanchi – i moderni migranti - che in quel luogo avrebbero trovato cibo e accoglienza.
Al pomeriggio, qui vengono a giocare ragazzi dell’Ecuador e del Burkina Faso, della Macedonia e dell’Algeria, dell’Albania e del Marocco: cattolici, ortodossi e musulmani.
Tutti figli della stessa madre.

The revolution will bw not televised


Appuntamento di grande interesse, quello svoltasi lo scorso mercoledì al Caffè Letterario Baciccia. Nel corso della serata – che ha visto la speciale partecipazione di Luca Frazzi, redattore del mensile musicale “Rumore” e di Alioscia, vocalist storico dei Casino Royale - sono stati infatti presentati i due volumi “ORIGINAL RUDE BOY, DALLA GIAMAICA AGLI SPECIALS”, sottotitolo: l'autobiografia dello Ska Inglese, e “GIL SCOTT-HERON, The Bluesologist”, Storia e discografia del padre del Rap.
Il primo testo è l’autobiografia di Neville Staple – scritta in collaborazione con il giornalista inglese Tony McMahon e tradotta in italiano da Antonio "TONY FACE" Bacciocchi, con la prefazione di Alioscia - ovvero il frontman di colore della band di culto degli Specials - leader incontrastati dello ska inglese e tra gli animatori dell’opposizione al governo Thatcher - , poi del trio pop Fun Boy Three e adesso del gruppo ska The Neville Staple Band.
Il secondo invece è opera dello stesso Bacciocchi, ed è un intenso ritratto della figura di Gil Scott-Heron, poeta, musicista, cantante, autore, scrittore, cantore dell'America del Vietnam e dell’emancipazione del popolo nero (fu ribattezzato dalla critica statunitense “il Bob Dylan nero”).
Nella prefazione al testo, Tony Face elenca i motivi per cui ha iniziato ad amare questo grande artista: “Qualcuno ha scritto che le sue canzoni sono piene di rabbia triste. Gil sa essere Malcolm X e James Brown, Curtis Mayfiled e Walt Withman, tragico e ironico, divertente e implacabile. Sa accostare stupende ballate a pungenti e devastanti inni politici.”
Il libro ripercorre la travagliata vita dell’artista nero, segnata da abusi di ogni tipo: dall’infanzia vissuta in casa della nonna paterna nel Tennessee, che gli garantì una solida educazione e studi prestigiosi, alle prime prese di coscienza a livello politico e sociale, che coincisero con le morti di Kennedy, di Malcolm X e soprattutto di Martin Luther King (un periodo che lui ribattezzò “Winter in America”, che è anche il titolo del suo terzo album di studio del 1973); dal debutto come romanziere (“The Vulture”, 1970 e “The Nigger’s Factory”, 1971) ai primi esperimenti musicali con un album di spoken words, in cui legge le sue poesie sull’orgoglio Blackness e che contiene una primissima versione dell’immortale “The Revolution Will Be Not Televised”, certamente il suo brano più noto ma anche controverso (lui stesso rinnegherà alcune interpretazioni troppo politicizzate del brano, come quella del Wu Tang Clan); dalla collaborazione con Brian Jackson e con la Midnight Band alla partecipazione al concerto “No Nukes” contro il nucleare (1979), e ai tour di Stevie Wonder; dai problemi con la droga al recente, grandissimo ritorno dopo un lungo periodo buio con l’eccellente “I’m New Here”, sino alla sua improvvisa scomparsa avvenuta lo scorso 27 maggio al St.Luke Hospital di New York, reduce da un lungo tour europeo.
Ironico e aggressivo, brutale e diretto, Gil voleva “gettare qualche informazione in faccia alla gente che altrimenti non avrebbe mai potuto avere”.
Considerato da molti artisti rap e hip-hop alla stregua di un padre spirituale (lui stesso apprezzava artisti come Common, Mos Def e Kanye West, anche se i suoi preferiti rimasero i grandi classici della musica afroamericana: Miles Davis, Nina Simone, John Coltrane, Billie Holiday), non ebbe forse il successo che avrebbe meritato. Colpa, anche, di un carattere non facile: “Se non fossi stato l’eccentrico, l’odioso, l’arrogante, l’aggressivo, l’introspettivo, l’egoista quale sono stato, non sarei stato io. Non mi pento di aver fatto quello che ho fatto o del modo in cui l’ho fatto. So che se fossi stato zitto su un paio di cose probabilmente avrei fatto un po’ di soldi, ma non avrebbe dato più senso a quello che ho fatto. E non sarei stato capace di dire ai miei figli: ho alzato la testa per questo”.
La sua vita, suggerisce Bacciocchi nell’epilogo del breve saggio introduttivo sulla sua parabola umana ed artistica, può essere suggellata dal fatto che “Io credo nelle mie convinzioni, sono stato condannato per ciò in cui credo”.