domenica 13 marzo 2011

QUASI COME KEROUAC, 12


July 1994, 27th
La colazione, qui nella Valle degli Dei, consiste in un paio di tazze di the bollente, un blueberry pancakes, ovvero una sorta di bortolina ai mirtilli, uno spicchio di pomplemo rosa e poi kiwi, di kiwi ce n'è quanti ne vogliamo.
Stanotte abbiamo riposato bene, immersi nella tranquillità quasi surreale di questo enorme silenzio che ormai ci accompagna da giorni, e dunque siamo pronti per metterci subito in strada, Statale 98, verso nord.
La strada attraversa il territorio Navaho, tra scenari di ampiezza inusitata e di chiarore abbacinante. Alla nostra sinistra, i Mormon Ridges, sulla destra prima la Grey Mesa e poi la l'Antelope Creek, che ci accompagnerà sino a Page, frequentato porto sul Powell Lake.
Una volta sulla spiaggia, una piccola striscia di sabbia delimitata da una staccionata di legno e da baracche in lamiera, ci spogliamo e abbandoniamo tutti i nostri indumenti, soldi e documenti compresi, in un fagotto nei pressi della risacca, poi ci addentriamo nell'acqua del lago.
Piu' tardi ci imbarchiamo sul Canyon King, un barcone tutto rabberciato e costruito di tavole di legno sbiancate dal sole che ricorda tanto, con la sua grande ruota smaltata di rosso posizionata sulla poppa, i battelli che solcano le acque del Mississippi.
Nessun giocatore d'azzardo, però, e nemmeno i neri che suonano il blues.
Solo turisti bianchi e orientali, con le loro macchinette fotografiche e le coca-cola, i chewing-gum e i sacchetti di chips in mano.
La vecchia imbarcazione costeggia le chiare scogliere e, piu' sopra, le rocce rossastre incombenti, quasi a picco sull'acqua azzurra e limpida che le riflette in nmodo quasi esatto, capovolte, certo, ma esattamente identiche che sembra quasi una suggestione o un miraggio.
Storditi da questo spettacolo, ci lanciamo delle occhiate in segno di approvazione, ammutoliti. Anche per via della temperatura. La morsa del caldo è implacabile, l'afa pomeridiana asfissiante. Fai fatica persino a respirare. Ma l'umore, lo stesso, è alle stelle. Sono solo poche ore che ci siamo lasciati alle spalle quella giungla di lamiere, asfalto e polvere che è Los Angeles.
Il caldo, che si fotta. Tanto noi si va ancora piu' a nord, verso le foreste e i grandi parchi nazionali.
Presto saremo a Yellowstone.
Riusciremo a vedere gli orsi?

giovedì 10 marzo 2011


PiacenzaSera ha ascoltato per voi il quindicesimo titolo dell’ormai sterminata discografia dei R.E.M., nei negozi e in download da ieri martedì 8 marzo.
Il primo approccio – nonostante le difficoltà legate all’immensa e immutata stima nei loro confronti e nonostante la puntuale stroncatura da parte della critica piu’ alternativa (con una puntualità che lascia qualche sospetto sul suo effettivo ascolto) – è positivo: belli la cover e il packaging a cura del grande fotografo Anton Corbjin, e un singolo divertente e orecchiabile, quell’Uberlin disponibile sul web da alcune settimane; a dire il vero, la casa discografica ha scelto diversi singoli per i vari territori: una più rock per l’America, Mine Smell Like Honey; UBerlin per l’Europa e Oh my heart – non se ne capisce il motivo - per la Germania.

Il lavoro è vario e mai annoia, come invece alcune delle ultime fatiche del terzetto di Athens, e anche il lungo elenco delle collaborazioni e dei cameo (ottimo il duetto con Peaches nella tirata Alligator Aviator Autopilot Antimatter, poi Eddie Vedder e Patti Smith) non disturba troppo, anche se nel caso di quest’ultima, la conclusiva e acidissima Blue assomiglia davvero troppo a E-Bow The Letter: d’altro canto, i remake di vecchi pezzi è una malattia conclamata degli ultimi R.E.M..
Certo, il confronto con i capolavori del passato – dal lontanissimo Murmur e Life Rich Pageant a Document, forse il piu’ bello di tutti, da Out Of Time ad Automatic For The People, fino a Monster – è implacabile, e, per dirla tutta, assurdo.
Il sound è il loro sound classico, curato e inconfondibile; molto mestiere, inventiva meno. In generale le ballate acustiche (Walk It Back, la filastrocca Every Day Is Yours To Win, Oh My Heart) si fanno preferire ai pezzi elettrici, spesso derivativi e raramente graffianti: Discoverer ricorda Finest Worksong, Mine Smell Like Honey sembra uscire da Life Rich Pageant.

Sul web è iniziato il dibattito tra chi, nostalgico, apprezza a prescindere: “a me va bene così: che i REM suonino come i REM”, e chi, invece, lo considera un disco inutile: “c’e’ troppa musica e troppo poco tempo e denaro per un disco come questo”.
Per noi, a prima botta, mantiene l’impostazione sobria e asciutta del penultimo lavoro Accelerate – benché molto meno aggressivo - e si va a posizionare almeno una spanna sopra il dittico Reveal/Around The Sun.

domenica 6 marzo 2011


Tornano di moda gli pseudonimi.
(I nostri preferiti di sempre restano Captain Beefheart, Dr. Octagon e – per ovvi motivi - Country Joe & The Fish).

Nota al pubblico per essere stata l’ultima compagna di Jeff Buckley, la polistrumentista Joan Wasser – in arte Joan As A Police Woman – è da tempo un punto di riferimento per l’universo indie femminile (da noi, sua grande ammiratrice è Cristina Donà, che in gennaio ha dato alle stampe l’ottimo Torno A Casa A Piedi).
La sua quarta fatica, intitolata The Deep Field, è un ascolto assai gradevole: molto black, permeato da venature soul (Marvin Gaye) e da reminiscenze funky (Prince), declinati però in maniera raffinata e personale, tutt’altro che convenzionale, così come sono riusciti a fare anche i Black Keys la passata stagione.
Ascoltate il bel singolo The Magic, per esempio, o le sensualissime The Action Man e The Specific Kiss (Sade). Su un registro piu’ cantautoriale si muovono le eccellenti Forever And A Year e Flash, che a noi ricorda i primi Radiohead. Poco convincente è invece il contributo del pur solitamente bravo Joseph Arthur, che con il suo spoken pseudo-erotico alla Isaac Hayes appesantisce oltre misura Human Condition.

Iron&Wine (“Ferro e Vino”) è invece il moniker del barbutissimo Sam Beam – texano d’adozione ma originario del South Carolina – giunto anch’esso al quarto album, uscito per la storica label 4AD.
Frettolosamente catalogato sotto l’etichetta folk-rock (dal Texas arrivano anche Midlake e John Grant), Kiss Each Other Clean propone una grande varietà di soluzioni sonore: arrangiamenti orchestrali, standard jazz rock a là Steely Dan (Bog Burned Hand), ballate in stile West Coast (Glad Man Singing, Tree By The River), blues e pulsioni etniche (Monkeys Uptown).
I nostri brani preferiti sono il singolo Walking Far From Home, che per la verità non ha le caratteristiche tipiche di un singolo, l’ipnotica Rabbit Will Run e la suggestiva Godless Brother In Love in cui Beam esibisce la stessa tensione emotiva di Rufus Wainwright, oltre all’epico finalone con Your Fake Name Is Good Enough For Me.

domenica 27 febbraio 2011

Codex (10)


La band di Oxford ci ha ormai abituati a scelte radicali – o radical chic?; per i piu’ critici sono solo dei gran furboni… – e a strategie poco convenzionali, spesso in antitesi alle logiche imperanti del mercato discografico.
Eccoli dunque improvvisamente annunciare l’uscita dell’ottavo album, disponibile da pochi giorni solo in download sul sito ufficiale: www.radiohead.com, al modico prezzo di 7 pounds, ovvero poco meno di 9 euro al cambio attuale, per la versione Mp3; 11 pounds per quella WAV, mentre gli sboroni per 36 pounds possono invece ordinare una confezione con vinile, CD, una collezione di 625 (!) artworks e una rivista con la storia del disco.

7 pounds per soli otto brani, per un totale di soli 37 minuti: mai così stitici.
The King Of Limbs (pare si tratti del nome di un’antica quercia situata nei pressi del loro studio di registrazione) è un’opera divisa in due metà quasi esatte.
Quella che una volta sarebbe stata la side A è minimalismo elettronico, sperimentale e ambizioso, quasi un outtakes da Kid A o Amnesiac, e può risultare indigesta come una teglia di pizzoccheri. Campionamenti e scratch, effetti rumoristici, fruscii di sottofondo, melodie sghembe, percussioni in evidenza: non lascia davvero nulla alla facilità di ascolto. Sarà pure un caso, ma si apre con un brano tribal-psichedelico intitolato Bloom, come il protagonista dell’Ulisse di Joyce, il romanzo del XX secolo inaccessibile per eccellenza. E le successive Morning Mr Magpie (Autechre), Little By Little (forse la migliore del lotto) e Feral – un dustep che sembra allacciarsi al recente debutto di James Blake - non si discostano dal tema.
Il singolo Lotus Flower ha il compito di traghettarci nella seconda metà del disco, composta invece da quattro suggestive e malinconiche ballate in stile Pyramid Song o Sail To The Moon. In particolare nell’intimismo delicato di Codex (il brano migliore in assoluto: che onore, è il nome del nostro editore…) e Give Up The Ghosts emerge il lirismo ispirato di Thom Yorke.

Un disco leggermente sfocato, forse. Per noi inferiore non solo ai capolavori del passato, ma anche al penultimo In Rainbows.
Breve e incompleto: la conclusiva Separator sembra tuttavia il presagio (“If you think this is over, then you're wrong”) di un seguito a breve.
Restiamo trepidi in attesa.

martedì 22 febbraio 2011


Avevamo detto che ci saremmo tornati, su questo James Blake di James Blake, e vogliamo essere di parola.
Il giovanissimo (è nato nel 1989) e talentuoso Dj e produttore inglese – inserito dalla BBC al secondo posto del "Sound of 2011", la prestigiosa classifica che individua i talenti musicali di ogni nuovo anno musicale – ha recentemente raggiunto un insperato successo con la sua straordinaria cover di Limit To Your Love della cantautrice canadese Feist, ormai quasi membro fisso dei Broken Social Scene: una versione scarna, essenziale, spogliata di ogni orpello, assai più bella dell’originale.
Ma è tutto il lavoro a stupire, con le sue basi dubstep e il suo minimalismo elettronico, mai troppo compiaciuto o sintetico, ma anzi permeato da una vena soul (i suoi genitori ascoltano Stevie Wonder, D'Angelo e Sly & The Family Stone), da una voce capace di bassi profondi e di calde intonazioni.
I never learnt to share, ad esempio, oppure la conclusiva Measurements: il gospel come dovrebbe suonare nel XXI secolo. E Willhelm Scream, secondo singolo estratto dall’album, con quell’unica strofa ripetuta in crescendo, o l’accoppiata Lindesfarne/Lindesfarne II, variazioni infinitesimali sullo stesso tema.
Tra le sue influenze il piccolo genio – secondo alcuni un autentico predestinato - cita i connazionali XX; l’iniziale Unluck ricorda i Bon Iver dello straordinario EP del 2009 (Woods), la già citata I never learnt to share e la pianistica Give My Mouth sono in debito con Antony & The Johnsons. A noi tornano in mente anche i Radiohead di Amnesiac e persino il Robert Wyatt di Shleep.
Insomma, questo disco è poco meno di un capolavoro.

Il prossimo 21 aprile Blake si esibirà al Lambretto Art Project di Milano, al Club To Club Festival. L'ingresso al concerto sarà libero fino ad esaurimento posti: le modalità per prenotare il proprio biglietto invece saranno comunicate nei prossimi giorni.
State sul pezzo.

martedì 15 febbraio 2011


Reduce da un’annata, quella appena trascorsa, piuttosto opaca, salvata solamente da leoni antichi o meno antichi come Weller e Albarn, la gloriosa terra d’Inghilterra inizia il nuovo anno con una serie interessante di nuove produzioni: il secondo album degli Chapel Club, “Palace”, subito ribattezzati dalla critica come i nuovi My Bloody Valentine, il debutto (omonimo) di James Blake – sul quale torneremo, magari la prossima settimana – e soprattutto quello di Anna (o Anne) Calvi, da tempo al centro dell’attenzione dopo la sua scoperta da parte dei Coral, le manifestazioni di stima di Nick Cave – che l’ha voluta ad aprire i concerti dell’ultima tournee dei Grinderman – e la benedizione di Brian Eno: “è la cosa piu’ bella successa dopo Patti Smith”, ha dichiarato l’alchimista-genio inventore dell’ambient ed ex-Roxy Music, che offre il suo contributo prezioso in un paio di brani.
E la sacerdotessa del rock piu’ impegnato è il primo nome che viene in mente ascoltando l’opera prima di questa giovane autrice di evidente origine italiana, paragonata anche a PJ Harvey (a proposito, è in uscita il suo nuovo lavoro, intitolato Let England Shake), Diamanda Galas, Soap&Skin, Cat Power, Siouxie, Nina Simone, addirittura Tim Buckley.
Opera prima assai gradevole, anche se non il miracolo a cui ha gridato gran parte della critica specializzata. Una produzione assai raffinata, quasi perfetta, toglie infatti un po’ di sapore al disco – e anche di calore, l’interpretazione di Anna in certi tratti è glaciale.
Un incipit strumentale introduce l’innocua No More Words e un bel pezzo quasi dance, Desire, a là Florence & The Machine. Suzanne & I si apre con percussioni rock ed emerge come uno dei tratti migliori della raccolta, First We Kiss e soprattutto la litania The Devil ne mostrano il lato piu’ tormentato e dark. Notevole la sequenza finale: Blackout, ovvero il brano piu’ pop, la teatrale I’ll Be Your Man, la sexy Morning Light e Love Won’t Be Leaving.

sabato 5 febbraio 2011

482-406

Esistono ormai decine di pubblicazioni del tipo “I 500 album fondamentali del rock”, oppure “I 100 dischi da portare su un’isola deserta”. Io li leggo tutti, per poi rivedere la mia personalissima classifica.
Ebbene, certi dischi o certi autori non mancano mai, nel senso che mettono d’accordo tutti; sono, si può dire, delle autentiche invarianti. I Suicide, ad esempio, che poi a me viene il dubbio che qualcuno non li abbia mai nemmeno ascoltati. Gli Stone Roses. I Jesus And Mary Chain. O i misconosciuti Camper Van Beethoven.
Tra questi ci sono senza dubbio i Gang Of Four e gli Wire, due delle band britanniche piu’ importanti e influenti della generazione postpunk.

I primi, da Leeds, spaccarono tutto nel 1979 con l’album d’esordio Entertainment! (al 482esimo posto del listone di Rolling Stone), ovvero con un funk di matrice marxista e di straordinaria vitalità.
Tornano oggi, a distanza di sedici anni dal penultimo Shrinkwrapped, licenziando il mediocre Content, disco di new-new wave modello Franz Ferdinand suonato fuori tempo massimo.
Molto meglio andarsi a ripescare il mitico Entertainment!

I secondi, londinesi, nella seconda metà dei Settanta furono tra i piu’ autentici traghettatori dal punk alla new wave e diedero alla luce pietre miliari come Pink Flag (una collezione di ventuno tracce scarne e rapidissime, al 406esimo posto della lista di Rolling Stone), Chair Missing e 154.
Giunti alla terza reunion - che vede la rinuncia del chitarrista Bruce Gilbert, rimpiazzato da Robert Grey - tornano con un disco tutt’altro che scontato: Red Barked Tree apre con la raffinata e asimmetrica Please Take, che a noi riporta in mente i Japan, seguita da Now Was e dalla malinconica Adapt, una delle nostre preferite, per poi proseguire con l’heavy primitivo di Two Minutes e dalla bellissima Clay, in odore shoegaze.
La seconda parte dell’album si mantiene su livelli notevoli, in particolare con la rumoristica Moreover e con il powerrock bislacco di A Flat Tent.
Anche la chiusura si rivela all’altezza della situazione, con la traccia che offre il titolo all’intera collezione, una ipnotica e ossessiva ballata in stile Stereolab.

Colin Newman e soci suoneranno presto in Italia; ecco le date riportate sul loro sito ufficiale: Feb 19: Velvet, Rimini; Feb 21: Circolo Degli Arti, Roma; Feb 22: Bloom, Mezzago (Milano).

lunedì 31 gennaio 2011

100.000 lire


Non avevamo trovato biglietti in prevendita, e allora eravamo partiti dal bar assai presto. Nell’abitacolo della vecchia utilitaria regnava un alone di pessimismo. Era la prima volta dei Pearl Jam in Italia: tutto esaurito da mesi. Ma noi si era deciso di andare su a Milano lo stesso. Vediamo come butta, ci eravamo detti. Una volta arrivati, neanche il tempo di parcheggiare e Big ti acquista da un bagarino quattro biglietti al modico prezzo di centomila lire l’uno, che a quei tempi – era appena uscito Vitalogy, nel 1994, se non ricordo male - con un centino ci facevi il signore un mese, se non avevi vizi particolari: una briscola in cinque ogni tanto e i gintonic della Pieve il sabato sera. Cazzo, Big, potevamo almeno parlarne prima, mi ero lamentato senza troppa convinzione, mentre lui silenziosamente soddisfatto, coi nostri biglietti in tasca, si dirigeva verso l’ingresso al palazzetto.
D’altro canto era il nostro periodo grunge: capelli lunghi sino alle spalle e camicie di flanella a quadri scozzesi comprate sul mercato, che ancora adesso sono buone per andare a funghi. A quei tempi, un Ep in vinile colorato di Touch I’m Sick dei Mudhoney, noi si era capaci di spendere una fortuna.
Inutile dire che non ci pentimmo affatto.

E’ con questi ricordi appena sfocati in testa che mi accingo ad ascoltare questo nuovo (ennesimo) live della band di Seattle, dato alle stampe per festeggiare il ventesimo compleanno a quasi tredici anni di distanza dal suo celebre predecessore, Live On Two Legs, ovvero il loro primo disco dal vivo ufficiale (con il quale, particolare curioso che ai fan piu’ accaniti non sfuggirà, non condivide alcun brano in scaletta). Tredici anni durante i quali Vedder e soci hanno pubblicato una serie impressionante di concerti, bootleg, performance acustiche.
C’era poco da aggiungere, quindi, e per questo la scelta dei pezzi è poco ortodossa: tutt’altro che un “Best Of”, Live On Ten Legs privilegia i rock’n’roll tirati e adrenalinici, per la gioia dei patiti del pogo: su tutti i classici Animal e Rearviewmirror (da Vs, 1993), Spin The Black Circle (da Vitalogy, 1994) e State Of Love And Trust (dalla soundtrack di Singles, 1991). Pesca poi ad ampie mani nel repertorio piu’ recente, con ben quattro brani dall’ultimo album Backspacer (bene Unthought Known e la ballata acustica Just Breathe), una sporca World Wide Suicide dal penultimo omonimo del 2006 e le riflessive I Am Mine e Nothing As It Seems, per recuperare solo nel finale i fasti degli esordi con il fantastico tris Alive, Jeremy e Porch. C’è spazio infine per le cover, a dire il vero non indimenticabili: Arms Aloft di Joe Strummer (Clash) in apertura e Public Image dei P.I.L., la creatura di John Lydon post Sex Pistols: come a dire, veniamo proprio da lì, dal punk.

Qualcuno, sul web, storce il naso.
Io davvero non lo capisco, quel qualcuno: i Pearl Jam sanno fare bene i Pearl Jam, cos’altro dovrebbero fare?
Qualcuno insiste cioè a dire che da decenni non fanno altro che canonizzare se stessi, riproponendo la solita minestra della nonna. Mah, forse perché il mio povero nonno non era davvero un drago in cucina – per dirne una: mescolava lo sciroppo di tamarindo con quello di orzata per ottenere un orrendo beverone -, noi da quella nonna ci andremmo tutti i giorni, a mettere le gambe sotto il tavolo.

sabato 22 gennaio 2011


Pronti:via!, ed ecco il primo grande album del 2011.
Abbandonate le velleità progressive e la ricerca di nuove e piu’ complesse sonorità che avevano caratterizzato il pur ottimo The Hazards Of Love (2009), i Decemberists – una curiosità: la loro sigla non deriva, come era presumibile, dal mese di dicembre, bensì dal nome dei rivoluzionari russi che nel 1925 si ribellarono allo zar – riscoprono le radici e l’amore per la tradizione.
Una sorta di Bringing It All Back Home, insomma.
A questo scopo si ritirano nella tranquillità agreste di un granaio ai piedi del monte Hood, nei pressi della loro Portland – la stessa Portland che recentemente ha portato alla ribalta bands come Menomena, Tu Fawning e Phoenix – e danno alla luce The King Is Dead (omaggio agli Smiths), un album di classico folk-rock, apparentemente semplice, ma di grande immediatezza e impatto emotivo.

Si parte alla grande con Don’t Carry It All, poi Calamity Song è la prima, esplicita ammissione dell’adorazione per il jingle-jangle dei Byrds e dei primi R.E.M. (pare uscire da Murmur o da Reckoning; e infatti Peter Buck collabora in tre pezzi) e Rise To Me è una languida ballata in stile Nashville (Gram Parsons).
Con un disinvolto copia e incolla, Rox In The Box ripropone nel mezzo un’aria in stile Irish Heartbeat, e le successive January Hymn e June Hymn si reggono su delicati arpeggi di chitarra Gibson.
E’ una profusione di mandolini, fise e armoniche a bocca, tra Young, Dylan e Springsteen: prendete l’intro del potente (e bellissimo) singolo Down By The Water, par di sentire The Promised Land.
All Arise! è invece quasi una cover dei Creedence, e prima della conclusiva, malinconica Dear Avery (Red House Painters) c’è ancora tempo per un perfetto brano pop come This Is Why We Fight.
Girerà a lungo sui nostri Ipod.

Viene gennaio silenzioso e lieve (cit)







(foto di Sandra e Giovanni)
Il progetto Captain Spock nasce dall’inattesa (tardiva?) fusione tra Sagrada Familia e Perla Madre, bands attivissime sulla scena piacentina nella seconda metà degli anni ’90.
La line-up ufficiale comprende infatti il songwriter Romolo Stanco alla voce, dobro e chitarre varie, Paolo Stabellini alle chitarre elettriche, Enrico Scotti alla batteria, Alberto Callegari al basso, Andrea Cravedi e Giorgio Tartaro, volto televisivo di Leonardo su SKY, alla chitarra classica.
La geografia del sestetto resta in territori già battuti - soprattutto dai Sagrada Familia -ovvero il rock americano della grande tradizione roots (ascolare The Seagulls Show The Way e Birthday Show, quasi country), seppur rivisitato in chiave contemporanea alla maniera di mostri sacri quali Eels, Calexico e Cake.
Il loro album di debutto – registrato allo Studio Elfo di Tavernago e rimasterizzato addirittura in California - parte quasi sottovoce, con la blueseggiante Miracles, per prendere immediatamente quota con l’ottimo e solido rock chitarroso – tra Tom Petty e Screaming Trees - di Jack&Devil e Derogatory. Ma c’è spazio anche per malinconiche ballate acustiche (The Peaceful Place I Miss e Climbing Up A Star, che sembrano essere influenzate dal Vedder di Into The Wild), mentre un arrangiamento elegante e raffinato tiene in corsa anche i pezzi piu’ radiofonici come Two ed Everyday. Un cenno a parte per la conclusiva ed eclettica I Came From Mars, e per Dr Beginner, che inizia con un parlato alla Lou Reed e termina in un fantastico pezzone grunge, a nostro giudizio il brano migliore dell’intera raccolta.

Ignorance, tuttavia, non vuole essere solo un disco.
Durante le esibizioni live, al pubblico viene offerto quello che è apparentemente un packaging “da disco in vinile”, realizzato in cartone riciclato e customizzato da noti artisti e writers (il primo è stato Emiliano Cataldo), all’interno del quale si trova una t-shirt disegnata dal designer Romolo Stanco con un QR code stampato sulla nuca che permette, con un semplice scatto fotografico, il download gratuito dell’intero album. Un’idea geniale.

venerdì 14 gennaio 2011

Real Estate su "Vibrisse"


http://vibrisse.wordpress.com/

Filastrocche bislacche

di Marina, con un cut'n'paste dal mio classificone di fine anno:

Il personaggio è alquanto strambo, e con irriverenza mi apostrofa - There Is Love In You – il mio è stupore allo stato liquido, anzi sonoro.
Siamo in un locale, affollato, sottofondo di chitarre abrasive e fisarmoniche gitane, litanie trip-hop e cori terribilmente tetri.
La mia amica, la nuova regina della black music, è in bagno a rifarsi il trucco e mi ha lasciata sola in questo spazio fluido in continuo divenire, dove la gente cambia a ogni secondo, e sembran tutti creature solitarie impossibili da catalogare.
Questo però è diverso, pavento sia alienato e disturbato, a tratti persino paranoico, perché i suoi occhi ti guardano ma non sembra mica ti vedano veramente, chissà in quale vortice impressionante di suoni psichedelici è aggrovigliata la sua mente. Il suo abbigliamento lo si potrebbe definire bucolico e naif, piuttosto dimesso ma non cupo, invero originale. Non puzza, e questo è già una notizia in questo posto. Perché siamo in un posto fuori mano, il centro città è lontano e se guardo fuori dalle vetrate un po’ sporchine vedo un paesaggio contemporaneo alienato e alienante, di fronte un centro commerciale col suo bel parcheggio e a fianco un autolavaggio, più in là un groviglio di svincoli autostradali, dietro si lasciano immaginare le schiere interminabili di villette a schiera. Siamo finite qua alla ricerca dell’ultimo amore perduto della regina, lei d’altronde si innamora spesso, a modo suo con freschezza e immediatezza, poi la prende sempre nel culo, ma senza tema di smentite si può affermare che nelle sue storie non manca mai di intensità e originalità, mai una caduta di tensione o di stile.
Io la prego sempre di trovare un soggetto un cicinino meno claustrofobico e teso di quelli che con cui si accoppia di solito, magari più sofisticato e malinconico. Ma lei niente, le sue storie nascono e muoiono sempre in un caleidoscopio di emozioni allo stato puro, e quasi mai belle emozioni.
E adesso che cazzo starà facendo in bagno che non torna più, mentre il mio nuovo amico non ci pensa neanche a spostarsi dalla mia aura vitale, poi però ci ripensa e sale sul palchetto di pallets, imbraccia una chitarra elettrica e improvvisa un riff, c’è dentro di tutto, ma sopra quel tutto ci stanno una rabbia mai sopita e un sound graffiante, e passaggi fottutamente geniali. E non ero io l’oggetto del suo amore, non mi guarda neanche più perso nel suo mondo. Peccato.

lunedì 10 gennaio 2011


Colpevolizzato a dismisura dagli amici per non aver inserito l’ottava fatica dei Marlene Kuntz nel Best Off 2010, il recensore cerca di porre rimedio dedicando loro la prima recensione del nuovo anno.
La musica della band di Cuneo può forse risultare indigesta ad alcuni, a causa di una certa fredda autoindulgenza e di un’innegabile spocchia, in primo luogo del leader Cristiano Godano. Che non si smentisce nemmeno questa volta. Con la graphic art del disco, nella quale si mostra tutto nero intabarrato e con un improbabile e bizzarro cappello, sulla cover addirittura a solcare le acque come Caronte. E con l’invettiva iniziale di Ricovero Virtuale – gran pezzo rock, peraltro – con la quale attacca i maniaci del downloading (E sento puzza di sfigato/brutto e storto e avviluppato/sul suo trionfo sentenziare/auto-riflesso e marginale … Canta con me questo pezzo: "Son borioso e schifosetto") e ancor piu’, con inaudita violenza in Pornorima, i fan che li hanno criticati nei forum e nei blog per un presunto cedimento alle logiche del mercato: "Che pensino a scopare i farisei dell’indie-rock/le anti-sbrodoline snob/gli alternativi a pacchi e stock/Facciamogli capire, dai!/che siamo qui a godere/e poi a quelli più stronzetti/gli facciamo anche sentire/Come provi il tuo piacere/E poi potranno anche vedere/gli ebefrenici fighetti dell’Olimpo indie-rock/ le frigidine blah-blah-blog/gli avanguardisti a pacchi e stock/Sai che c’è?/Sei la mia porno-rima".
Tuttavia, Ricoveri Virtuali e Sexy Solitudini è un album teso e nervoso, bello e sincero, che segna un ritorno alle atmosfere del passato, e contiene diversi ottimi pezzi, tra i quali il singolo Paolo Anima Salva – ennesimo omaggio a Fabrizio De Andrè, che stia diventando una moda? –, l’ottima L’Artista, Vivo e la conclusiva, splendida ballata Scatti, mentre Orizzonti è puro Sonic Youth sound: sembra di sentire Ranaldo e Moore e le loro chitarre.
Certo, un po’ di ironia e maggiore umiltà non sarebbero guastate.

mercoledì 22 dicembre 2010

Il pagellone del 2011


20
JONSI – Go
Jonsi – vero nome: Jón Þor Birgisson - è il leader degli islandesi Sigur Ros, band tra le piu’ importanti dello scorso decennio. Al suo debutto solista, lo straordinario vocalist cerca di smarcarsi puntando su filastrocche bislacche e su un’immediatezza e una freschezza pop che lasciano il segno.

19
GONJASUFI - A Sufi And A Killer
Gonjasufi – vero nome: Sumach Valentine – è un personaggio alquanto strambo: rasta, insegnante di yoga, intellettuale mistico e inquieto, Dj ed ex-rapper, oggi artista di punta della scuderia WARP. La sua opera prima mescola con classe e irriverenza i piu’ disparati generi musicali: trip hop e blues-rock, elettronica vintage e disco-music, citazioni terzomondiste e acid-rock psichedelico, e lo fa con un’inclinazione rigorosamente lo-fi che fa pensare – oltre che a Frank Zappa - al primo, grandissimo, Beck.

18
FOUR TET – There Is Love In You
La categoria: elettronica anche nel 2010 vede una serie di ottimi lavori.
Notevoli l’ambient di Balmorhea e The Album Leaf, il drone di Yellow Swans e Pan Sonic, le alchimie groove e i campionamenti di Flying Lotus.
Su tutti, i Four Tet del capolavoro Angel Echoes: stupore allo stato liquido, anzi sonoro.

17
RADIO DEPT - Clinging To A Scheme
La Svezia si fa notare per una scena pop viva e vegeta (XX, Sonnets).
I Radio Dept sono un terzetto di Lund che ha dato alle stampe il terzo album verso l’inizio dell’anno, sull’etichetta apripista Labrador. Suonano un pop sofisticato e malinconico, senza grosse pretese o ambizioni, ma straordinariamente gradevole.

16
HINDI ZAHRA – Handmade
Originaria del Marocco, Hindi Zahra esordisce riproducendo in musica il melting pot culturale tipico del sud della Francia, nel quale le tradizioni arabe e berbere si fondono col sofisticato patrimonio del cantautorato di scuola transalpina.

15
AMPARO SANCHEZ - Tucson Habana
Dopo dodici anni alla guida degli Amparanoia, la cantante andalusa Amparo Sánchez intraprende la carriera solista chiedendo aiuto ai Calexico. Il risultato non poteva che essere eccellente: Tucson Habana è un disco elegante e raffinato, caratterizzato da una malinconica atmosfera latina appena venata da accenti jazz e blues.

14
VILLAGERS – Becoming A Jackal
Chi come noi si porta l’Irlanda nel cuore non può che rallegrarsi per questa opera prima del giovane dublinese Conor J. O’Brien, alias Villagers, che mette in mostra un delicato fraseggio folk e una grande freschezza e immediatezza comunicativa. Si ascolti la meravigliosa Pieces, il brano migliore di tutta la raccolta, sospesa tra un’atmosfera vagamente jazzy e una magistrale interpretazione vocale.

13
JOHN GRANT - Queen Of Denmark
I texani Midlake sono tra le bands piu’ attive del momento. Eccoli in veste di co-produttori dell’opera prima di John Grant, accolta oltreoceano dall’ovazione quasi unanime da parte della critica (5 stelle su 5 per Mojo): l’ex leader degli Czars è in effetti capace di scrivere ottime canzoni, chiaramente ispirate ai grandi classici del passato, prima di tutto il grande rock americano degli anni anni Settanta.

12
ERLAND AND THE CARNIVAL - Erland And The Carnival
Frettolosamente catalogato nel Psych-Folk d'oltremanica, questo debutto omonimo degli Erland & The Carnival è un’autentica rivelazione.
Abilissimi nel mischiare i generi e le influenze piu’ disparate, ripropongono un repertorio di traditionals rivisitati con intensità e originalità; a questo aggiungono alcune perle d’autore: su tutte Trouble In Mind, ovvero uno straordinario pezzo indie-pop che – in un mondo normale – resterebbe a lungo nelle classifiche e nelle heavy rotation di radio e tv.

11
NEIL YOUNG - Le Noise
Alienato e disturbato, a tratti persino paranoico, l’ennesimo disco del cantautore canadese è un ascolto tutt’ altro che scontato. Cavallo pazzo è senza percussioni, solo con la sua chitarra – mai così distorta – e con una sequenza di rumori, feedback, riverberi elettronici ed echi (aiutato da Lanois).
Noi di PiacenzaSera salutiamo dunque uno dei nostri eroi di sempre, apprezzandone il coraggio e la voglia di sperimentare, di mettersi continuamente in discussione.

10
PAUL WELLER – Wake Up The Nation
GORILLAZ – Plastic Beach
Il maestro che supera l’allievo, questa volta è proprio il caso di dirlo.
Convince di piu’ il vecchio e redivivo Weller, autentico monumento nazionale britannico, qui alle prese con una rabbia mai sopita e un sound graffiante (seppur nel segno della tradizione), che l’allievo Albarn con la sua celebre cartoon-band: Plastic Beach contiene una manciata di ottimi brani, ma nel complesso si distingue per una stucchevole parata di stelle e per il trionfo dell’eclettismo postmoderno piu’ modaiolo e cool.

09
CARIBOU – Swim
Canada sugli scudi: con Arcade Fire e Neil Young ben tre posizioni in classifica.
Caribou è artista eclettico e con la sua terza opera ci regala un vortice impressionante di suoni psichedelici, uno spazio fluido in continuo divenire, un caleidoscopio di emozioni allo stato puro.

08
HEY MARSEILLES - To Travel And Trunks
Bizzarra band composta da sette musicisti capelloni, gli Hey Marseilles propongono un folk orchestrale e rivolgono la loro attenzione alla grande tradizione celtica. Il loro disco d’esordio si rivela un ascolto piacevolissimo, oltre un’ora di ballate malinconiche rivisitate con piglio quasi progressive e/o con stile bucolico e naif, piuttosto dimesso ma non cupo: molto lontano dal clima spesso caciarone - e ad alto tasso alcolico - della scena indie-folk britannica.

07
JANELLE MONAE – The Archandroid
Mentre Pitchfork e Stereogum stanno per incoronare il rapper stronzissimo Kanye West e il suo My Beautiful Dark Twisted Fantasy come disco dell’anno – eccezionale il suo campionamento di 21 Century Schizoid Man dei King Crimson dell’opener Power - noi preferiamo puntare (per la verità niente male anche i Black Keys, che tuttavia neri non sono…) su questa ragazza di venticinque anni e la sua irresistibile miscela di r'n'b, pop, funk, soul.
Signori e signore, ecco la nuova regina della black music.

06
MICE PARADE – What It Means To Be Left-Handed
L’ottava fatica di Mice Parade, creatura solitaria del percussionista newyorchese Adam Pierce, è un lavoro impossibile da catalogare, frutto com’è di una miriade di influenze diverse e di spunti creativi apparentemente inconciliabili, ovvero il tentativo dichiarato di fondere in modo armonico la seriosità di etnica e jazz con l’immediatezza dell’indie piu’ alternativo (e sofisticato).
Da ascoltare assolutamente.

05
NATIONAL - High Violet
Il colore viola del titolo rappresenta alla perfezione il romanticismo tenebroso e crepuscolare della band ormai newyorkese, in breve assurta da icona indie a “classico” del nuovo rock made in USA. Pur avendo optato per una linea di sostanziale continuità con la consueta, raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale, rispetto al recente passato il loro sound appare meno claustrofobico e teso, e vira verso suoni e arrangiamenti piu’ ariosi e sofisticati, addirittura epici.

04
MENOMENA – Mines
TU FAWNING - Hearts On Hold
La cosiddetta scena di Portland, Oregon è una delle piu’ belle notizie dell’anno.
In attesa del nuovo albo dei Decemberists - King is Dead, in uscita il prossimo gennaio – ecco due lavori eccezionali (la critica promuove anche i Typhoon, di cui ancora non sappiamo nulla). I piu’ navigati Menomena propongono un art-rock con inclinazioni progressive e pulsazioni etniche. I Tu Fawning, loro supporter durante l’ultimo tour USA, fanno ancora meglio, con un’opera dalle venature dark, con chitarre abrasive e fisarmoniche gitane, litanie trip-hop e cori terribilmente tetri.
Imperdibile/i.


03
ARCADE FIRE - The Suburbs
Ormai superstar dell’indie-rock, acclamati da pubblico e da critica specializzata, il collettivo di Montreal giunge al difficile traguardo del terzo album: stretti nell’insanabile dubbio tra una ripetizione di schemi già proposti e il rischio della ricerca di nuove sonorità, scelgono di non scegliere, e così facendo allungano oltre misura la durata dell’album, togliendo qualcosa alla spregiudicatezza e alla tensione emotiva degli esordi.
Tuttavia The Suburbs si fa piacevolmente ascoltare per il suo pop raffinato e per un riuscito amalgama folk/wave, oltre che per la descrizione – come in una sorta di concept album – di un paesaggio contemporaneo alienato e alienante, fatto di centri commerciali e di outlet, di autolavaggi e di svincoli autostradali, di vuoti e assolati piazzali d’asfalto, di immense aree di parcheggio e di schiere interminabili di villette a schiera.


02
SUFJAN STEVENS - All Delighted People (EP)
SUFJAN STEVENS - The Age Of Adz
Altra doppietta.
Sufjan Stevens non smentisce la sua fama di compositore folle e bizzarro, oltre che prolifico e prolisso, e se ne esce con un Ep da quasi un’ora di musica e, a distanza di pochi mesi, un maestoso album di oltre 75 minuti. Mentre il primo riprende gli schemi acustici del passato (straordinaria la title-track), il secondo rappresenta una svolta epocale: The Age Of Adz è un disco di musica elettronica. E’, per i fan del nostro, un autentico shock.
L’eccessiva lunghezza dell’album si riflette in qualche passaggio a vuoto, tuttavia la raccolta contiene passaggi fottutamente geniali, con i quali Sufjan raggiunge l’apice della magniloquenza e dell’autoreferenzialità. Un discorso a parte merita Impossible Soul, l’ennesima, lunghissima, suite - oltre 27 minuti! - una Supper’s Ready postmoderna caratterizzata da continui mutamenti d’atmosfera e da capovolgimenti di fronte, come in un grande collage barocco di citazioni.


01
BEACH HOUSE – Teen Dream
Sorpresa?
La verità è che per dodici mesi abbiamo aspettato l’album capolavoro che potesse scalzare dal gradino piu’ alto del podio questa strepitosa, ultima fatica dei Beach House, da Baltimora, uscita a febbraio per la mitica label indipendente Sub Pop.
Ma niente. Un ultimo ascolto, e – nemmeno il tempo di finirlo – ecco presa la decisione di proclamarlo album dell’anno.
La prima parte - quella che una volta avremmo chiamato la Side A - sfiora addirittura la perfezione. Che sequenza! Zebra, e il suo straordinario intro acustico, la fantastica ballata Silver Soul (i Cocteau Twins al rallentatore), il singolo dreampop Norway, poi Walk In The Park, con la voce di Victoria Legrand che ricorda davvero quella di Nico, e infine la delicata, pianistica, Used To Be.
E nella parte residua del disco si resta ad alti livelli, senza cadute di tensione o di stile sino alla conclusiva Take Care, velvettiana sino al midollo.

martedì 14 dicembre 2010

sabato 11 dicembre 2010


E’ ormai ora dell’ormai consueto listone finale con il meglio dell’anno, e prendere tutte le decisioni non sarà facile. Ci sarò da lavoraci sopra, altro che. Nel frattempo registriamo che i Doss Awards 2010 - pubblicati anzitempo dal presidente su Fb – vedono trionfare National e Arcade Fire: li ritroveremo anche qui, con ogni probabilità.
Nell’incertezza, alcuni colpi di coda potrebbero in extremis costringerci a rivedere gerarchie, posizioni, graduatorie.

Il progetto The Ocean Tango, ad esempio. Nato dalla collaborazione tra l’esperto (è sulla scena dagli anni ’80) e raffinatissimo cantautore Louis Philippe – che la critica paragona a Brian Wilson e a Duke Ellington – e la band svedese Testbild!, propone un sofisticato chamber pop dall’atmosfera jazzy e malinconicamente british. D’altro canto, basta curiosare nella playlist di Philippe sul suo sito ufficiale (www. louisphilippe.co.uk) per ritrovare molto del meglio del pop britannico: XTC, Kinks, i primi Pink Floyd, Buzzcocks, Nick Drake, High Llamas, Prefab Sprout. Oltre ai Beach Boys, si intende.

In ambito piu’ folk o alt-country, Doug Paisley, è un altro cantastorie che merita la nostra attenzione.
Viene da Toronto, Canada, e questo eccellente ompanion è il suo secondo album.
Anche in questo caso il riferimento a Nick Drake – a lui e al suo maestro John Martyn - è d’obbligo. O al connazionale Bruce Cockburn. O anche a Bonnie Prince Billy, con il quale spesso ha condiviso il palco.
Il trittico iniziale è da brividi, chiuso da Don’t Make Me Wait nella quale duetta con Leslie Feist - si fa spesso aiutare anche da voci femminili, tra cui Jennifer Castle dei Fucked Up e Julie Faught dei Pining – ma è tutto il disco a colpire per la sua sobria eleganza e per le intense interpretazioni, sino alla conclusiva Come Here And Love Me, summa perfetta della musica di Paisley.

(opera di P.Pascali, 1965)

mercoledì 8 dicembre 2010

domenica 28 novembre 2010


Poi dopo un proluvio di campionamenti e di rumorismi, di distorsioni e di feedback, di sperimentazioni e di alchimie indie-troniche (Neil Young e Sufjan Stevens, per non fare nomi), uno è normale – come dice Totti: lo avete notato?, inizia tutte le frasi con “è normale che…” – che torna a cercare il sano e classico rock’n’roll, quello di duechitarreilbassoelabatteria, pochi fronzoli e niente strane idee in testa.
E allora eccoci servito il terzo album della band canadese dei Black Mountain, Wilderness Heart, omaggio esplicito e non troppo originale ai maestri Led Zeppelin – nella loro versione piu’ folk, quella di Tangerine - e Black Sabbath. Piu’ diretto rispetto ai lavori precedenti, si fa piacere per i duetti canori e le sonorità sixties di The Hair Song (notevole il videpclip, in heavy rotation su b:n) e Buried By The Blues.

Una proposta ancor piu’ interessante arriva da una zona limitrofa al Canada, ovvero Seattle, Washington, un tempo gloriosa culla del movimento grunge e oggi con la vicina Portland, Oregon (Tu Fawning, Menomena, Decemberists: a questo proposito, l’attessisima uscita del loro The King Is Dead è slittata all’inizio di gennaio) di nuovo mecca della scena indie statunitense.

Bizzara band composta da sette musicisti capelloni - spesso e volentieri anche barbuti –, gli Hey Marseilles propongono un fantastico folk orchestrale con un’ottima sezione di fiati, violoncelli e una fisarmonica, memore della lezione dei maestri Decemberists e di Okkervil River.
A dispetto del loro nome, che lascerebbe presagire un gusto un po’ francese, magari retrò, essi rivolgono però la loro attenzione alla grande tradizione celtica: non a caso sul loro sito è possibile ammirarli in una recente session acustica al Doe Bay Fest 2010, svoltosi alle Isole Orcadi (http://www.heymarseilles.com/home/).
Il loro disco d’esordio, intitolato To Travel And Trunks, si rivela un ascolto piacevolissimo, ovvero oltre un’ora di ballate malinconiche rivisitate con piglio quasi progressive (Cannonballs, Someone To Love) o con stile cantautoriale (You Will Do For Now); il tono rimane bucolico e naif , piuttosto dimesso ma non cupo, comunque molto lontano dal clima spesso caciarone e ad alto tasso alcolico di parte della scena indie-folk britannica (Mumford & Sons).

giovedì 25 novembre 2010

martedì 23 novembre 2010

Persino l'Oregon è meglio che qui


Puntualmente, in questo periodo esce una serie impressionante di lavori in grado di scombussolare, e anche di sovvertire, la ormai costruenda classifica di fine anno, che uno già ci mette il suo bell’impegno perché non è mica facile, men che meno quest’anno che in giro non ci sono padroni (e forse nemmeno padroncini).

Uno di questi lavori è senza dubbio l’album d’esordio (per la loro label personale, la Provenance Records) dei Tu Fawning, splendidi outsider da Portland, Oregon
Si sono fatti conoscere come supporters dei piu’ noti Menomena - anche loro di Portland, Oregon - autori nel corso del 2010 di Mines, un interessante art-rock con inclinazioni progressive e pulsazioni etniche.

Hearts On Hold è un disco dalla venatura dark.

L’incedere marziale della opener Multiply A House chiarisce da subito il contesto: il lamento funebre di Corrina Repp riporta alla mente la irripetibile stagione di This Mortail Coil e Dead Can Dance. La successiva The Felt Sense mette in mostra invece un drumming teso e nervoso, droni tastieristici e un coro campionato di indubbia efficacia. Ma è con il tango da cabaret di Sad Story e, ancor piu’, con la sobria The Mouth Of Young (con un canto a la’ Nico e una soluzione ritmica schizoide) che ci rendiamo conto di essere davanti a un piccolo capolavoro.

Il disco si mantiene su livelli ottimi, con una Apples and Oranges in territori Arcade Fire, la litania di Just Too Much, la quasi psicho Lonely Nights (non a caso qualcuno ha scomodato i Flaming Lips) e la suggestiva Diamond In The Forest – già edita in passato per sola voce e piano – quasi un omaggio ai maestri Menomena.

Il finale è eccelso, con una I Know You Know che mescola con sapienza sfumature anni Quaranta (Billie Holiday), chitarre abrasive e fisarmoniche gitane, cori terribilmente tetri e un trip-hop tipo Portishead.

Che dire: li ritroveremo nel classificone, e molto in alto, penso.

mercoledì 10 novembre 2010

sabato 6 novembre 2010

The loner


Alienato e disturbato, a tratti persino paranoico, la nuova ed ennesima fatica di Neil Young è un ascolto tutt’ altro che scontato.
Cavallo pazzo – stavolta senza i fidi Crazy Horse - canta con voce straziante accompagnato solo dalla sua chitarra – mai così distorta – e da una sequenza di rumori, feedback, riverberi elettronici ed echi (il titolo Le Noise è una sin troppo esplicita dichiarazione di intenti, oltre a un gioco di parole con il nome del produttore Daniel Lanois). L’artista canadese, d’altro canto, non è nuovo ad amplificatori a balla e ad arrangiamenti noisy: da qui la stima smisurata e incondizionata di band storiche come Nirvana e Sonic Youth (e nostra). La particolarità, stavolta, è che in nessuno degli otto pezzi della scaletta compaiono le percussioni.
La sensazione è che la sovrastruttura – sobria e non invadente, ricca di sottili sfumature - messa in piedi dall’alchimista Lanois aiuti sia i brani piu’ deboli e prevedibili (Someone’s Gonna Rescue Me, Angry World) sia quelli invece davvero notevoli, come l’opener Walk With Me, il singolo Hitchhiker e la conclusiva, oscura, Rumblin’.
Convincono meno le consuete ballate acustiche, ovvero la delicata Love And War – dal testo terribilmente retorico: “ho visto un sacco di giovani uomini andare in guerra e lasciare un sacco di giovani spose ad aspettarli. Le ho viste cercare di spiegare ai loro figli e ho visto un sacco di loro non riuscirci. Hanno cercato di spiegare perché perché il papà non tornerà mai più a casa…” - e la lunga e un tantino noiosa Peaceful Valley Boulevard.
Noi di PiacenzaSera salutiamo dunque uno dei nostri eroi di sempre, apprezzandone il coraggio e la voglia di sperimentare, di mettersi continuamente in discussione.
Diciamo la verità, non avremmo in nessun caso infierito su di lui.
E’ come quando un vecchio zio a cui vogliamo bene ci mostra orgoglioso i suoi presunti progressi con il pennello: davanti ai suoi paesaggi bucolici in acrilico, con le vacche al pascolo o le barchette che solcano il fiume, mica possiamo dirgli che sono delle croste abominevoli.
Gli diciamo:
Uhm, niente male, zio. No, davvero, mi piace.
E’…. e’…. è…. sì, mi piace.
Sul serio.

mercoledì 3 novembre 2010

Brugole pop


Hanno la colpa di aver riempito le case di tutto il mondo – che dico: dell’universo – di poltrone sfoderabili POANG e di librerie EXPEDIT, di KLINSBO, KLIPPAN e di LJUSDAL.
Per non parlare degli imballaggi di cartone e di tutte quelle fottute brugole, chi non ha in casa almeno una trentina di brugole dell’Ikea?
Per questo motivo gli svedesi si meritano – se esiste una giustizia divina – le pene dell’inferno sino all’eternità.
Ciò malgrado, negli ultimi tempi gli scandinavi si sono fatti notare per una scena pop viva e vegeta.
I Radio Dept sono un terzetto di Lund che ha dato alle stampe il terzo album (Clinging To A Scheme) verso l’inizio dell’anno, per l’etichetta apripista Labrador. Suonano un pop sofisticato e malinconico, senza grosse pretese o ambizioni, ma straordinariamente piacevole: spiccano nella scaletta Never Follow Suite, con una base elettronica soft e la danzereccia David, mentre This Time Around ha un incipit che ricorda la mitica Victoria dei Kinks e poi si apre a un’atmosfera shoegaze (My Bloody Valentine, Ride).
Interessanti anche i JJ, che bissano il successo di critica dell’album di debutto (JJ N.2, che seguiva l’EP di debutto intitolato semplicemente JJ N.1) anch’essi guardando alla madre Inghilterra: dreamy-pop dall’accento minimale per questi ragazzi di cui si sa poco o nulla, persino la cover dell’album è tutta bianca con la semplice dicitura JJ N.3.
Per ultimi i Sonnets, il cui recente Western Harbour Blue è stato eletto disco del mese di settembre su Ondarock.it.
Questi cinque ragazzi di Malmoe sono i paladini del cosiddetto New Cool, ovvero un vero e proprio revival del sound britannico anni ’80 (Style Council, Aztec Camera, Everything But The Girl, Prefab Sprout); l’album è grazioso e si fa ascoltare, tuttavia le influenze sono talmente marcate da risultare in diversi momenti persino imbarazzanti.
Fate attenzione: il grande maestro Paul Weller potrebbe chiedere i danni.

lunedì 1 novembre 2010

domenica 24 ottobre 2010


Sufjan Stevens ancora una volta non smentisce la sua fama di compositore folle e bizzarro, oltre che prolifico e prolisso, e se ne esce con un Ep da quasi un’ora di musica (All Delighted People) e, a distanza di pochi mesi, un maestoso album di oltre 75 minuti (The Age Of Adz).
L’ultimo suo album ufficiale, Illinoise, è del 1995 – ricordate il suo intento di pubblicare un album per ogni stato degli Usa? – e in questo lungo intervallo ci sono stati EP natalizi, rivisitazioni “creative” del proprio repertorio (Run Rubbit Run, 2009), sonorizzazioni di eventi (The BQE, 2009), collaborazioni e partecipazioni varie.

Diciamo subito che l’EP ha lo scopo di indorare la pillola ai suoi accanitissimi fan: il perché lo vediamo dopo. La title-track – ovvero il singolo e brano portante - è una bellissima suite di oltre 11 minuti, con i consueti cori e stacchi improvvisi, quasi prog - a noi ha ricordato Thick As A Brick dei Jethro Tull! – oltre ad espliciti omaggi a Beatles e Simon&Garfunkel (una delle strofe centrali ripete persino Hallo darkness my old friend); per i piu’ frettolosi, vi è anche una succinta classic rock version, senza cori e senza archi ma con banjo e una jam elettrica finale.
Anche il resto dell’EP è di ottimo livello: le ballate Heirloom e Djohariah su tutte.

Il nuovo album, invece, è un vero e proprio shock.
Il nostro si diverte a depistare con l’apertura bucolica di Future Devices, ma con le successive Too Much, Age Of Adz e I Walked tutto appare chiaro: The Age Of Adz è un disco di musica elettronica.
Si tratta di una svolta epocale per il cantautore di Chicago, paragonabile a quella dei Radiohead di Kid A. O alla svolta elettrica di Dylan al Festival folk di Newport del 1965, quando accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band sconvolse un pubblico di puristi del folk con le bordate elettriche di Like A Rolling Stone (qualcuno potrebbe obiettare che Stevens non è nemmeno l’ombra di Dylan, giusto, ma noi rispondiamo: nel 2010, quanti Dylan ci sono in giro?).
Ed infatti l’accoglienza per The Age Of Adz è stata piuttosto tiepida. Come il Dylan di Newport, Stevens è accusato di essere un traditore e di aver ceduto alle logiche del mercato. L’album secondo alcuni sarebbe barocco e kitsch, e altri deprecano gli effettacci da “discotecaro”, tra i quali l’uso del tune nella conclusiva Impossible Soul.
A noi di PiacenzaSera, invece, è piaciuto assai.
L’eccessiva lunghezza dell’album si riflette ovviamente in qualche passaggio a vuoto - Get Real Get Right, Bad Communication, All For Myself - , tuttavia davvero straordinarie sono Now That I'm Older e Vesuvius, durante la quale si raggiunge l’apice della magniloquenza e dell’autoreferenzialità, con quei cori che si rivolgono direttamente all’artista (“Sufjan! / Follow your heart”, un pò alla Tamaro), mentre I Want To Be Well parte male ma si riprende con uno straordinario finale (“I’m not fucking Around”).
Un discorso a parte merita Impossible Soul, l’ennesima, lunghissima, suite (oltre 27 minuti!), una Supper’s Ready postmoderna (qualcuno sul web l’ha definita un polpettone…) caratterizzata da continui mutamenti d’atmosfera e da capovolgimenti di fronte, come in un grande collage barocco di citazioni: partenza folk interrotta da un assolo sbilenco e zappiano di chitarra, intermezzo trip-hop con la partecipazione della vocalist dei My Brightest Diamond, crescendo in un proluvio di cori e di archi – con addirittura una tastiera che ricorda gli Europe (sic) – ed epilogo acustico di rara delicatezza.

In conclusione, due opere assolutamente da ascoltare.
Ma un rammarico c’è: un album solo, con All Delighted People sulla side A e Impossible Soul sulla side B, sarebbe stato senza il minimo dubbio l’album dell’anno.

giovedì 21 ottobre 2010

domenica 17 ottobre 2010


Svanito l’effetto sorpresa, è sempre piu’ difficile per Antony mantenersi all’altezza delle aspettative (enormi) di pubblico e critica specializzata.
L’ex-pupillo di Lou Reed – dopo l’antipazione dell’EP Thank You For Your Love, con cover di Dylan e Lennon (Imagine) – è di nuovo sulla breccia con il suo quarto lavoro, Swanlights (vocabolo di sua invenzione), che raccoglie in un elegante book anche scritti, fotografie e altre opere visuali realizzate dall'eclettico artista newyorkese.
Il primo impatto è che Swanlights sia un’opera piu’ positiva, piu’ spensierata.
I’m in love è addirittura quasi gioiosa (quasi, ho detto…), Thank You For Your Love è un soul ‘60.
Oddio, non mancano i consueti momenti di grande tensione, come la commossa The Great White Ocean, sentito omaggio ai genitori, o The Spirit Was Gone, o ancora la title-track, psichdelica e criptica.
Tuttavia l’atmosfera che si respira è in qualche modo meno drammatica, meno tetra.
Forse a scapito della compattezza e dell’omogeneità che invece aveva caratterizzato la produzione precedente. Lo ammette lo stesso Antony a Rockol.it: “Non è lineare come i miei precedenti, in effetti. Io lo trovo decisamente più caotico. Dotato di molte più sfaccettature. Ho voluto creare un inizio e una fine (con ‘Everything is new’ e ‘Christina’s farm’), per suggerire che esiste comunque un ordine, un sistema. Ma per me si tratta soprattutto della sovrapposizione di strati, di punti di vista, di stati emotivi”.
Non è il miglior disco di Antony, questo è certo, e in qualche passaggio affiora un po’ di stanchezza.
Ma è sempre un gran bel sentire.
Nella versione deluxe, bonus track il duetto con Bjork in lingua islandese (Fletta).

mercoledì 13 ottobre 2010


In attesa di ascoltare le consuete “bombe” autunnali (Antony, Sufjan Stevens, Belle&Sebastian, oltre ai redivivi David Sylvian e Neil Young), PiacenzaSera vuole consigliarvi la nuova, ottava, fatica di Mice Parade, creatura solitaria del percussionista newyorchese Adam Pierce (il nome del progetto è anche un anagramma del suo nome).
Un lavoro davvero impossibile da catalogare, frutto com’è di una miriade di influenze diverse e di spunti creativi apparentemente inconciliabili, nel tentativo dichiarato di fondere in modo armonico la seriosità di etnica e jazz con l’immediatezza dell’indie piu’ alternativo (e sofisticato).
What It Means To Be Left-Handed si apre con la nenia africana di Kupanda, con il suo ritmo tribale, seguita da In Between Times e Do Your Eyes See Sparks?, caratterizzate da un’armoniosa coralità e da notevoli duetti vocali (la prima delle due dovrebbe essere l’improbabile singolo).
Couches & Carpets e Recover – intervallate da un brevissimo strumentale - rievocano i territori post-rock di June of 44 e Gastr del Sol, mentre Old Hut con i suoi delicati arpeggi di chiatarra acustica pare uscire dall’ultimo Mum. E quando meno te lo aspetti Mallo Cup, dal repertorio dei Lemonheads (non è l’unica cover: la conclusiva Marie-Annie è del misconosciuto cantautore Tom Brosseau), sfodera un sound quasi grunge, tra Sebadoh e Motorpshycho. Un altro stacco e poi parte Even, una ballata folk senza né testa né coda, tra le cose piu’ belle del disco.
Il finale tiene botta, con una Tokyo Late Night che pare il miglior Moby, con quelle note di pianoforte su un tappeto elettronico, e la bossanova di Fortune of Folly.

sabato 2 ottobre 2010


L’autunno porta una caterva di buoni dischi per tutti i nostalgici degli anni Novanta.
Io sono tra quelli, quanta nostalgia per il mio walkman che smorzava il triste grigiore del distaccamento del Poli alla Bovisa, per riviste cult come Rumore e Rockerilla, per le camicie di flanella dei grunge e gli sfigati del lo-fi, per le serate in ascolto a Raistereonotte, un’autentica miniera di notizie e di informazioni per gli appassionati della scena Indie: in particolare il Dj siciliano Max Prestia – fan accanito dei Fall e degli shoegazers - le cui trasmissioni erano puntualmente registrate dall’amico Sabidda che poi le passava agli amici.

Tornano due maledetti come Nick Cave e Mark Lanegan, ex-leader degli Screaming Trees, con due lavori probabilmente non urgenti ma di classe sopraffina e immutata.
Il primo – ormai definitivamente abbandonati i vecchi compagni dell’epoca Birthday Party – si diverte con la sua ultima creatura, Grinderman, con il consueto bluesaccio sporco e improvvisato a là Stones (Palaces Of Montezuma, When My Babes Comes).
Il secondo dà alle stampe con Hawk il terzo capitolo della sua collaborazione con Isobel Campbell, ex-violoncellista degli scozzesi Belle&Sebastian, confrmandosi un credibile erede di Johnny Cash e Leonard Cohen (ascoltare Come Undone e You Won’t Me Let Me Down Again; nell’albo spiccano due cover di Townes Van Zandt: Snake Song e No Place To Fall).
Ancor meglio fa Kristin Hersh, storica voce di Throwing Muses, che esce contemporaneamente con un doppio live acustico (Cats And Mice) e con un nuovo album intitolato Crooked, secco ed essenziale, poetico e ispirato, soprattutto nella prima parte. Un po’ Patti Smith, un po’ la prima PJ Harvey: Mississippi Kite ricorda davvero tanto Sheila-Na-Gig, Sand e Fortune le tracce migliori.
Tra le bands, ecco di nuovo - a ben quattordici anni dal capolavoro Soundtracks For The Blind - i newyorchesi Swans, capitanati dal geniale Michael Gira, con l’apocalittico e tenebroso My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky, con cameo di Devendra Banhart e di alcuni membri dei Mercury Rev.
E infine l’ultima produzione di Sun Kil Moon, sigla prescelta da Mark Kozelek dopo l’addio dei Red House Painters: un’opera intima e fragile, adatta solo agli spiriti piu’ inquieti e malinconici: Australian Winter e Half Moon Bay sono la colonna ideale per il freddo che avanza.