sabato 20 febbraio 2010


Due anni fa fu il turno dei Portishead, amici-rivali di sempre e co-fondatori della cosiddetta scena di Bristol. Tornarono - dopo oltre dieci anni di silenzio - e lo fecero con un disco eccezionale, “Third”, premiato anche da PiacenzaSera come miglior disco del 2008.
Il colpo non riesce del tutto ai Massive Attack.
Sette anni dopo “100th Window”, questo nuovo album – anticipato pochi mesi fa dall’Ep “Splitting The Atom”, un trip hop apocalittico che sembra cantato dal Cohen penultima maniera (quello di “The Future”, insomma) – è un’opera discontinua e bella a metà.
Intendiamoci, i Massive Attack hanno classe sopraffina.
I pezzi di “Heligoland” (è un’isola del Mare del Nord, presso Brema, Germania) sono lavorati con estrema accuratezza e grande mestiere da Robert 3D Del Naja e Grant Daddy G Marshall, e spesso rasentano la perfezione tecnica.
Il rientro alla base di quest’ultimo, poi, garantisce una profusione di dub e di potenti giri di basso, oltre a restituire alla loro musica quell’anima black - e quell’atmosfera cupa e persino un po’ inquietante - smarrita all’inizio del nuovo millennio.
Tuttavia.
Tuttavia, in diversi episodi della raccolta il loro sound risulta troppo levigato, troppo etno-chic, e la loro consueta eleganza “stilosa” rischia di sfociare in un manierismo patinato e mainstream, finendo per emozionare poco o niente.
E poi c’è questa mania delle ospitate.
Stucchevole è infatti l’elenco delle guest-star: tra i piu’ convincenti, Tunde Adebimpe dei TV On The Radio (l’opener “Pray For Rain”, un irresistibile groove tribale e concitato), Guy Garvey degli Elbow nella rarefatta e ipnotica “Flat Of The Blade” e la strepitosa Hope Sandoval in “Paradise City”, mentre Damon Albarn se la cava con apparente svogliatezza (Blur, Gorillaz) nel tutto sommato prevedibile brit-pop di “Saturday Come Slow”.
Convincono poco la scontatissima “Girl I Love You” con il fidato vocalist reggae Horace Andy e anche i due brani cantati da Martina Topley-Bird (“Babel” e la goticheggiante “Psiche”, molto meglio la seconda della prima, a dir la verità).
Infine, scivolano via innocue le ballate elettro-dance “Rush Minute” e “Atlas Air”, perfetta colonna sonora di un happy hour in un Buddha Bar dell’hinterland metropolitano.

Si ha la sensazione. insomma, che “Heligoland” sia un disco da lasciare in sottofondo, lanciandolo con il mouse sul lettore Real Player, magari mentre si sta chiudendo una complicata contabilità di fine semestre oppure lavorando alla stesura di una relazione tecnica o, ancora, mentre si sta chattando con gli amici su Skype.
Magari ci scappa anche una telefonata, e allora siamo costretti ad abbassare il volume delle casse.
Alla fine possiamo pure rialzare l’audio, certi di non avere perso il filo del discorso e di poter ricominciare tutto da capo.

sabato 13 febbraio 2010


Ecco cosa diceva sempre il mio allenatore, all’epoca – purtroppo remota – degli Esordienti: “Di giocatori buoni ce n’è da far la siepe al Po, ma i veri fuoriclasse puoi contarli sulla punta delle dita”.
E il vecchio Arcangelo (sessant’anni proprio oggi, il 13 febbraio) è – a mio giudizio - uno di quelli.
Beh, io non sono proprio un tipo imparziale. Ho assistito al mio primo concerto dei miei amatissimi Genesis nel 1982, quando l’antico leader ormai se ne era andato da un pezzo, e il primo album in assoluto che acquistai da Alphaville fu proprio Peter Gabriel – IV. Era il periodo di Mister Fantasy, storica trasmissione tv condotta da Carlo Massarini, e il nostro - travestito da scimmia- si divertiva a lanciarsi con una liana sulla platea azzimata dell’Ariston di Sanremo, schiantandosi contro il bordo del palco.

Dopo otto anni di silenzio, l’anziano fuoriclasse torna con un album di sole cover, in versione rigorosamente acustica, o meglio accompagnato solamente da un’orchestra sinfonica (“No drums and no guitars", si legge sul suo sito ufficiale).
L’idea non è nuova.
Recentemente, lo ha fatto Patti Smith, e poi i Lemonheads, qui da noi Franco Battiato con i suoi Fleurs.
Inoltre, in genere è indice di scarsa ispirazione.

E invece il risultato è tutt’altro che noia.
La raccolta si apre con un pezzo sacro, la mitica Heroes di David Bowie, qui in una versione quasi chiesastica con arrangiamento di organo e archi, grandioso e magniloquente, e si chiude con una Street Spirit (Radiohead) appena sussurrata, quasi à la Wyatt.
E in mezzo, è tutto un gran godimento, dalla già nota The Book Of Love dei Magnetic Fields – dei quali è fresco di stampa il nuovo album, intitolato Realism – alla superba versione di Listening Wind dei Talking Heads dell’amico David Byrne. Stupisce la qualità dei brani scelti da Gabriel, che svaria dai grandi classici (Lou Reed, Neil Young, Paul Simon, Randy Newman), dei quali spulcia nel repertorio minore, agli alfieri del nuovo rock, versante piu’ intellettuale (Arcade Fire, Elbow, Bon Iver e la cantautrice di origine russa Regina Spektor), mentre dalla track-list che girava ufficiosamente sino a poco tempo fa è – disdetta! - uscita Waterloo Sunset dei Kinks.

Ma qui c’è di piu’.
Gli artisti omaggiati da Gabriel si sono impegnati a restituire il favore, tramite una sorta di baratto musicale (song swapping), raccogliendo in un secondo album le loro versioni di brani – celebri o meno - di Gabriel.
Il tutto nel segno dell’ironia: se il titolo di questo disco suona come “Grattami la schiena”, l’altro si intitolerà I’ll Scratch Yours : “Io gratterò la tua”.
Stephin Merritt dei Magnetic Fields ha già inciso la sua versione di Not One Of Us di Gabriel - è la B-side del singolo di lancio The Book of Love - e le prime indiscrezioni dicono che la stessa cosa si appresta a fare Paul Simon, con l’immortale Biko (scelta scontata, per l’autore di Graceland).
Divertiamoci allora a indovinare le scelte degli altri artisti chiamati in ballo dal genio di Bath.
Questi gli abbinamenti proposti da noi di PiacenzaSera:

Elbow – Here Comes The Flood
Talking Heads – I Have The Touch o San Jacinto
Lou Reed – Games Without Frontiers
Bon Iver – Red Rain
Magnetic Fields – The Carpet Crawlers
Arcade Fire – I Know What I Like (In Your Wardrobe)
Neil Young – Solsbury Hill o Family Snapshot
Randy Newman - The Cinema Show o Blood Of Eden
Regina Spektor - Dusk
Radiohead – The Musical Box

venerdì 5 febbraio 2010


Artista prolifico come pochi, Mark Oliver Everett.
A pochi mesi di distanza dall’ottimo “Hombre Lobo” – classificatosi al secondo posto nel pagellone di PiacenzaSera dello scorso anno – Mr. E torna con un nuovo lavoro intitolato “End Times”.
Il sospetto che si potesse trattare di una raccolta di B-sides, outtakes ed episodi minori era forte, dato il poco tempo a disposizione.
E invece il nostro eroe – accompagnato come sempre dai suoi fidati Eels - supera l’ennesimo esame con un album spoglio ed essenziale, permeato dall’inizio alla fine da un grande senso di vuoto e di abbandono. Un album che lo conferma come il miglior erede di una stirpe di cantautori intimisti ed esistenzialisti, di loner (“L’epitaffio inciso sulla mia tomba: qui giace un uomo che voleva semplicemente restare solo”), da Leonard Cohen a Nick Drake, da Neil Young a Tim Buckley.
Ispirata da una cocente delusione d’amore (“Lei è molto carina, ma adesso sene è andata!”), la vena malinconica di Mr. E – ritratto sulla cover dal fumettista Adrian Tomine nelle vesti di un anziano signore barbuto – si esprime ai consueti, altissimi, livelli in struggenti ballate pianistiche – “A line in to the dirt” e “I Need A Mother” – e in brani acustici come la dylaniana “Mansion Of Loz Feliz” e “In My Younger Days”, oltre che nella title-track con la quale sembra voler fare un primo bilancio (negativo) della sua esistenza. Ancora, l’armonica a bocca e una chitarra in stile West Coast accompagnano “Nowadays”, mentre l’atmosfera è piu’ sognante nella opener “The Beginning”.
L’amore per il blues e per le radici americane emergono a piu’ riprese nella tradizionale “Paradise Blues”, un pò Springsteen, e in pezzi atipici – quasi senza percussioni - come “Gone Man” e “Unhinged”, ancora fortemente influenzata dal lo-fi del primo Beck, utili se non altro a spezzare la tensione.
Tensione che aleggia sulle conclusive “Little Bird” - il primo singolo estratto, distribuito gratuitamente attraverso il sito - e “On My Feet” (“sto uno schifo dentro, non è che sia granché facile camminare sulle mie gambe ora come ora, ma sono certo di aver vissuto anche di peggio”) in grado di riportarci – tranquillamente, però – nella piu’ cupa disperazione.

giovedì 21 gennaio 2010


Un po’ perché pentito per aver ingiustamente trascurato il loro “Embryonic” nel recente pagellone di fine anno, e di aver addirittura escluso un pezzo come “Evil” dalla tradizionale compilation natalizia per gli amici piu’ intimi.

Un po’ perché l’originale - il The Dark dei Pink Floyd intendo – è stato uno dei miei primi ascolti in assoluto. Lo sparava a manetta mio fratello (maggiore) Achille - non che fosse un gran rockettaro, per la verità: in quei tempi, ascoltava canti gregoriani, fumava la pipa e portava una folta barba nera tipo Renato Curcio - sul suo stereo ad altissima fedeltà, a un volume tanto alto da far vibrare i vetri delle finestre e anche i lampadari in gocce di cristallo dell’inquilino di sotto. Io all’epoca andavo alle medie, e passavo il mio tempo a guardare i cartoni di Gundam e Mazinga, a collezionare adesivi che si mendicavano in giro per i negozi del centro o a tirare quattro calci al pallone sul campetto in asfalto dell’oratorio di San Savino. Immaginatevi il mio stupore di fronte alla perfezione assoluta e alla grandiosità di quei suoni.

E un po’ perché – massì, diciamola tutta, cazzo, con buona pace di tutta quella cricca fighetta e snobbona che gli preferisce i dischi degli esordi, quelli dell’epoca Barrett , ovvero i piu’ lisergici “The Piper At The Gates Of Dawn” o “Ummagumma” – “The Dark Side Of The Moon” è:
1. Il capolavoro dei Pink Floyd;
2. Uno dei piu’ grandi dischi della storia del rock.
In poche parole, una vera e propria opera d’arte.
Il suo maggior demerito, agli occhi di molti, è il fatto di aver venduto così tanto – per Wiki è il terzo disco rock piu’ venduto della storia (rimase per 741 settimane nella classifica Billboard 200 della omonima rivista musicale americana, dalla quale uscì soltanto negli anni ’80: uscì nel 1973!), qualcosa come 45 milioni di copie, preceduto solamente da Thriller di Michael Jackson e da Back In Black degli ACDC - e di aver trasformato Waters, Gilmour e soci in una banda di milionari pigri e imbolsiti.

Questo remake dei Flaming Lips, autoprodotto dalla band di Wayne Coyne e uscito alla fine dello scorso anno, oltre a rappresentare il classico omaggio dell’allievo al maestro, è una gradevolissima sorpresa, così lontano dall’essere una rivisitazione trita e scontata, dal compitino insomma.
L’opener “Speak To Me/Breathe” stupisce per la sua tensione nervosa, ma è la successiva versione dance di “On The Run” a spiazzare di brutto. Discreta la versione acustica di “Time”, con la ripresa di “Breathe”, che anticipa la strepitosa, apocalittica, cover di “The Great Gig In The Sky”, con i vocalizzi di Peaches e l’ausilio – come in quasi tutti pezzi – di Henry Rollins.
Si procede con la celeberrima “Money”, che qui sembra suonata dagli alieni e, ancora, con una lentissima versione di “Us And Them”, piuttosto dura da digerire. “Any Colour You Like” in salsa krautrock apre la strada al crescendo finale con la pacata “Brain Damage”, dall’arrangiamento lo-fi, e la straordinaria “Eclipse”, la cui perfezione ci lascia dei dubbi: e se in realtà fosse un pezzo dei Flaming Lips?

Da ascoltare e mandare a memoria, l’originale e il remake, tutte le volte che si puo’.

mercoledì 13 gennaio 2010


Non chiamateli Superband, potrebbero incazzarsi infatti; in ogni caso non sembrano tenerci piu’ di tanto.
Ma se non sono una Superband loro, chi altri può meritarsi un simile appellativo?
Ecco i (succinti) Curriculum Vitae dei tre membri dei Them Crooked Vultures (che suona piu’ o meno come: “quegli avvoltoi tutti torti”)

- Josh Homme: voce e chitarra, da Palm Desert, California, USA, leader già dei seminali Kyuss, inventori con il loro strepitoso “Blues for The Red Sun” (1992) del cosiddetto stoner-rock, e poi dei Queen Of The Stone Age (“Songs For The Deaf”, 2002).

- Dave Grohl: batteria, fa il suo ingresso nel 1990 nel terzetto base dei Nirvana, da Seattle, USA, giusto in tempo per dare il suo contributo all’epocale “Nevermind” (1991) e agli album successivi della band piu’ importante di fine secolo. Successivamente (1995) fonda i Foo Fighters, dei quali è anche il cantante.

- John Paul Jones (all’anagrafe John Baldwin, il nome d’arte è invece ispirato a un corsaro statunitense, considerato il padre della marina americana): basso e tastiere, da Londra, Gran Bretagna, 63 anni compiuti da poco piu’ di una settimana, membro fondatore dei mitici Led Zeppelin; è l’autore di alcuni memorabili giri di basso (“The Lemon Song”, “Ramble On” e “Black Dog”), quanto basta per entrare di diritto nell’Olimpo degli Immortali (del rock, si intende).

Ma i tre non hanno alcuna intenzione di guardare indietro.
Anzi.
Ripartono da zero, con l’entusiasmo e l’umiltà dei grandi: si pensi che il loro debutto live in terra inglese è avvenuto alla Brixton Academy londinese come band di supporto agli Arctic Monkeys, lo scorso 26 agosto (mah).
Per questo, sarebbe alquanto ingeneroso, nel dover giudicare questo loro album omonimo di debutto, fare paragoni con il loro scomodo passato (è talmente ovvio, infatti, che tra questi solchi non troverete nessuna “Stairway To Heaven” e nessuna “Whole Lotta Love” e nemmeno una “Tangerine”, o una “Lithium”).
A noi è piaciuto.
L’inizio è cazzuto e roboante, con la tiratissima sequenza “No One Loves Me & Neither Do I” (in puro stile zep), “Mind Eraser, No Chaser” e “New Fang”- questi ultimi sono i primi due singoli estratti dall’album, e piaceranno ai fan degli White Stripes - mentre “Dead End Friend” è un pezzone stoner ed “Elephants” ammicca a territori progressive sinora inesplorati. Dopo una serie di brani tutto sommato trascurabili, nei quali Homme prende decisamente il sopravvento ma non riesce a svincolarsi dal suo recente passato (QOTSA), il disco riprende corpo e vigore con l’hard-rock ‘70 di “Gunman” e la conclusiva, ottima, “Spinning In Daffodils”, che in poco piu’ di sette minuti riesce nel difficile intento di condensare stoner, progressive, psichedelia, grunge persino, in una sintesi quasi perfetta.

mercoledì 6 gennaio 2010

QUASI COME KEROUAC, 11


July 26th - TERZA PARTE

Solo un colpo di fortuna.
Per nessun motivo apparente, infatti, decidiamo di lasciare la Statale 91 per imboccare una scorciatoia assai tortuosa, verso ovest, in direzione Many Farms.
La strada è assolutamente deserta e dopo ogni curva si aprono magnifici e sempre imprevedibili scenari, guglie e rocce splendidamente erose dal vento e scavate dall'acqua, toni e colori accesi e vividi, sotto un cielo immenso ed elettrico.
Attraversiamo luoghi dai nomi evocativi: Rough Rocks, Red Rocks e Black Mesa. Territorio Navajo. Osservo minuziosamente la mappa. A poche miglia c'è il confine con il New Mexico, e ancora piu' a nord il Colorado. Cortez (The Killer?), Mesa Verde, Durango. La Durango di Bob Dylan.

Avanziamo con estrema lentezza.
Il sole, che sino a ora aveva picchiato duro, ci regala un attimo di tregua, andando a nascondersi dietro a un improvviso cumulo di nuvole nerastre.
Scendono persino due gocce di pioggia, ma è solo un'illusione.
Restiamo in silenzio dentro l'abitacolo della nostra auto che scivola leggera tra le curve che corrono parallele a un torrente in secca.
In pochi minuti raggiungiamo la Statale 190, nei pressi di Kayenta, e poi ancora a nord verso la mitica Monument Valley, che resta proprio sul confine tra gli stati dell'Arizona e dello Utah, ormai solo poco piu' di venti miglia ci separano da una delle mete principali del viaggio.

Arriviamo al tramonto, come da copione piu' classico.
E' a quell'ora, infatti, che le rocce si tingono di rosso come il fuoco, in un fantastico contrasto con l'azzurro intenso del cielo.
Optiamo per il loop in senso antiorario, e dunque circumnavighiamo la zona off-limits mediante una pista di sabbia rossa. La Toyota procede a strappi, affondando le ruote nelle buche e nei vari dislivelli della pista, e ripartendo ogni volta con maggior fatica. Alcuni fuoristrada guidati dai nativi, di quelli con le ruote enormi da mietitrebbia che da noi in Italia le usiamo per andare a prendere i bambini fuori da scuola, fingono di insabbiarsi per costringere i turisti a scendere e a spingere: è una squallida pantomima, e infatti ridono tutti.
Improvvisamente avvertiamo una gran botta, ma dopo una rapida ispezione escludiamo danni al paraurti in tinta carrozzeria.
Inoltre, con la mia consueta e inguaribile goffaggine nel pomeriggio ho rovesciato mezza lattina di Fanta nel cambio automatico, e questo certamente non aiuta.
Schizzi di fango sulle portiere, il cofano è completamente impolverato.
Chissà cosa direbbero, alla Hertz.

Lo spettacolo è grandioso, e ci lascia senza parole.
Tra noi, infatti, non ci nascondevamo un pò di timore che la Monument Valley - vista e rivista in centinaia di film western, e con le sue trite e stereotipate immagini da cartolina - fosse una mezza delusione, e invece così non è.
Cazzo, è davvero come se un fottuto cowboy yankee sbucasse fuori da un angolo e ci puntasse la sua pistola addosso.
Al John Ford Point, scattiamo le fotoricordo di rito.

Un cattivo presagio.
A Kaylenta non ci aspetta nessuno.
(Così almeno è scritto sul manoscritto originale: cazzo avrò voluto intendere, poi. Chi doveva esserci? John Wayne in carne e ossa?)
Traduco che non troviamo da dormire.
Verso Page, allora, e su quella strada poco prima di mezzanotte - dopo aver accarezzato ormai l'idea di accamparci per la notte sui sedili di pelle imbottita della nostra Camry - finalmente avvistiamo un piccolo motel ancora aperto, una specie di baita di legno piuttosto rabberciata ma dall'aspetto così familiare.

domenica 20 dicembre 2009

Il pagellone del 2009


1. ANTONY & THE JOHNSONS – The Crying Light
Dopo i fasti estivi con la dance degli Hercules And Love Affair e la sontuosa collaborazione con Bjork, Antony ritorna con un’opera che abbandona arrangiamenti pop e melodie facili per recuperare una dimensione prettamente cantautoriale.
Il disco contiene dieci meravigliose e delicatissime ballate pianistiche nelle quali ancora una volta emergono la sua intensa classe, la sua profonda spitualità, la sua inquietante drammaticità, e infine il suo splendido timbro vocale, quasi da baritono, per il quale è difficile trovare riferimenti o paragoni.
Per Diamanda Galas, “ogni emozione nel pianeta è in quella sua voce meravigliosa”.
Anche se, forse, lui è proprio di un altro pianeta…


2. EELS – Hombre Lobo
Di giorno, Mr. E compone ballate acustiche di rara intensità, come da copione classico.
Di notte, invece, il nostro - già in copertina in versione licantropo con una strepitosa e fottutissima barba – incide con straordinaria irruenza una serie di brani piu’ cazzuti, ruvidissimi, quasi hard: pezzi registrati in presa diretta, senza sovraincisioni, nel suo scantinato; suonano infatti davvero al limite del lo-fi (Beck), quasi come un bootleg di bassa qualità, oltre a essere tempestati da ululati famelici alla Stooges o alla Suicide.
E’ un tipo così, Mr. E.
Un genio stampalato e persino un po’ disadattato, talmente estraneo alle logiche dello show-biz. E’ per questo che lo seguiamo sempre con maggiore affetto.


3. SOAP&SKIN – Lovetune For Vacuum
Il popolo indie ha (forse) trovato l’erede di Antony & the Johnsons.
Per la verità, con il talentuoso newyorchese questa ex-bambina prodigio di soli diciannove anni - cresciuta in un piccolo villaggio di allevatori di mucche della Stiria (Austria) e il cui vero nome è Anja Plaschg - condivide solamente una voce fuori dal comune, eterea e terrificante, un total-look piuttosto dark - viso tumefatto e pallido, abiti neri, sguardo inquietante - e una certa aura da artista maledetta, perennemente in preda a un grande tormento interiore.
Il suo album di debutto è oscuro, tetro, profondamente malinconico. Interprete sensibile e terribilmente matura, Soap&Skin stupisce per la sua grande potenza espressiva e per i suoi testi intrisi di ingenuo romanticismo.

4. DINOSAUR Jr - Farm
Poche storie: “Farm” è un album bellissimo, ancor piu’ bello perché non ce lo aspettavamo proprio, dopo le scottanti delusioni della loro piu’ recente discografia.
I dinosauri sono tornati con la consueta prepotenza e con gli ingredienti che li hanno resi grandi: solidi muri di chitarrone e scariche violente di amplificatori nascondono melodie piacevoli, rese talvolta struggenti dalla voce trascinata di un J. Mascis indolente e apparentemente svogliato come ai bei tempi.
Con “Farm” sfiorano il podio e battono, nella categoria dei superclassici, Pearl Jam di “Backspacer” e i Sonic Youth di “The Eternal”.
PS: Inutile lamentarsi che i dischi dei Dinosaur Jr sono tutti uguali. Loro sono i soliti cazzoni: prendere o lasciare.

5. THE DUCKWORTH LEWIS METHOD – The Duckworth Lewis Method
Il nuovo progetto dell’irlandese Neil Hannon - già leader dei Divine Comedy - e di Thomas Shaw - leader dei Pugwash - è un grottesco concept album sul gioco piu’ tradizionale ed esclusivo per gli inglesi, il cricket, del quale il Ducwworth Lewis rappresenta un complicato metodo algoritmico per calcolare il punteggio di una partita interrotta causa maltempo.
Leggerezza e ironia, eleganza innata e humour in stile british, pop cristallino e allegria scanzonata: questo album potrebbe essere un’ottima colonna sonora di Little Britain o, ancor meglio, di Monty Pithon.

6. ANIMAL COLLECTIVE - Merriweather Post Pavilion
Strani personaggi, quelli del Collettivo, la cui carriera artistica è legata in modo indissolubile alla scena alternativa-sperimentale di New York.
Il folk bucolico e un po’ freak degli esordi lascia ora spazio a nuovi scenari elettronici, tutt’altro che convenzionali, che si esplicitano in un autentico magma sonoro, ovvero un flusso continuo e ininterrotto di melodie acide e trip stranianti, la cui base ritmica è spesso costituita da rumorismi primitivi e da tappeti di percussioni tribali.
(Santo Cielo, ma cosa ho scritto?)

7. HOPE SANDOVAL - Through The Devil Softly
La voce suadente e sensuale della cantante di origine messicana, ex-leader dei Mazzy Star, è il valore aggiunto di questo “Through The Devil Softly”, che sin dal titolo e dal nome della band che la accompagna (The Warm Invenctions) si preannuncia un ascolto caldo e soffice.
L’ideale per queste gelide notti d’inverno.

8. MUMFORD&SONS – Sigh No More
La capitale inglese, non appena ci si allontana dal sound ormai appiattito del cosiddetto revival wave, offre nuovi spunti interessanti.
Tra le bands della nuova scena folk (vedi anche: The Leisure Society, Fanfarlo), i Mumford&Sons debuttano sulla lunga distanza attingendo a un repertorio classico e tradizionale e - pur non brillando per originalità – muovendosi con mestiere tra intonazioni gospel e pezzi piu’ festaioli e spensierati (con dosi massicce di banjo e mandolino) per i quali sono stati scomodati Pogues e Waterboys.

9. KINGS OF CONVENIENCE - Declaration Of Dependance
Per il duo di Bergen (Norvegia) si tratta de “il disco pop più ritmico che sia mai stato fatto senza percussioni né batteria”.
I pionieri del cosiddetto “New Acoustic Movement” ci regalano un’altra bellissima collezione di malinconiche ballate a là Simon&Garfunkel, in cui trovano spazio atmosfere pacate e intimiste, alcuni rimandi alla scena cool londinese anni ’80 (Style Council, Everything But The Girl) e i consueti arrangiamenti scarni ed essenziali.

10. THE DECEMBERISTS – The Hazards Of Love
Un altro disco dalla chiara ispirazione progressive (sempre sia lodato il prog-rock!).
Il nuovo lavoro della band di Portland, Oregon, è così ricco di improvvise accelerazioni e di continui cambi di ritmo da riportare alla mente i Jethro Tull di “Acqualung”.
Concepito inizialmente come musical, “The Hazards Of Love” è una rock-opera di vecchio stampo, che rinnova la tradizione inaugurata da capolavori come “Tommy” e “Quadrophenia” dei Who e “Arthur” dei Kinks.


11. EDITORS – In This Light And On This Evening

Il classico bicchiere mezzo vuoto.
Le aspettative sul nuovo, terzo album degli Editors erano molto alte, e dunque è lecito essere piuttosto delusi e persino rammaricati dalla deriva sinfonica di "In This Light And On This Evening", dove le consuete e cupe atmosfere dark-wave vengono innaffiate da un proluvio di tastiere e sintetizzatori anni '80 (Depeche Mode/Ultravox/Human League), ovvero un'inutile e monumentale - a volte persino stucchevole - sovrastruttura sintetica.
Come quando i Joy Division - dopo la morte di Ian Curtis – diventarono i New Order (noi, e´ovvio, preferiamo i primi).

12. BRUCE PENINSULA – A Mountain Is A Mouth
Mentre i capofila Arcade Fire sono ormai assurti a icona dell’indie-pop internazionale piu’ intelligente e raffinato, dal Canada arrivano numerose altre buone notizie, tra le quali questo eclettico e bizzarro ensemble che ci regala un pop quasi chiesastico, con imponenti cori femminili e una voce solista a metà strada tra Tom Waits e Nick Cave.

13. MI AND L’AU – Good Morning Jockers
Lei finlandese, lui francese; lei modella, lui musicista: Mira Anita Mathilda Romantschuk e Laurent Leclere si incontrano a Parigi, dove diventano coppia nella vita e nella musica, prima di isolarsi nei boschi della Finlandia a comporre le loro canzoni spoglie e raccolte, intessute su chitarra acustica, voce e pochissimo altro.
Scoperti da Michal Gira (Swans).

14. PATRICK WOLF – The Backelor
Nella categoria “canzone d’autore”, Wolf prevale sui bravi Barzin, Andrew Bird e Matthew Scott grazie a un’opera eclettica, che mescola con sapienza un’impostazione classica, basi elettroniche e barocchismi dandy.

15. CHEER ACCIDENT - Fear Draws Misfortune
Come i Mountains dell’ottimo “Coral”, i Cheer Accident arrivano da Chicago, Illinois, e propongono un indie-prog palesemente ispirato alla grande tradizione del progressive britannico ’70 (King Crimson e soprattutto Van Der Graaf Generator), oltre che al free-jazz della Scuola di Canterbury (Gong e Soft Machine).

16. DENTE – L’Amore Non E’ Bello
Questo ragazzo di Fidenza ci sta simpatico. Sì, è vero, probabilmente non è un originalone, ma i suoi pezzi hanno una leggerezza fuori dal comune.
Nella speciale sezione Italia, prevale di un soffio su “Carboniferous” degli Zu.

17. MUM - Sings Along To Song You Don’t Know
Realizzato tra la natìa Islanda, la Finlandia e l’Estonia, il nuovo lavoro dei Mum propone una sapiente miscela tra il consueto elettro-ambient, istanze pop e rimandi alle tradizioni narrative popolari, nella quale un climax giocoso e onirico segna un’inversione di rotta rispetto al passato.

18. FUCK BUTTONS – Tarot Sport
Il duo di Bristol sbaraglia la nutrita concorrenza (Memory Tapes, Neon Indian e i portoghesi Gala Drop) nella categoria: elettronica.

19. TINARIWEN - Imidiwan: Companions
Un prezioso scrigno di crossover afro-rock, tra inaspettate venature blues e canti di ribellione incentrate sul desiderio di libertà del popolo tuareg (i Tinariwen sono un gruppo di nomadi nativi del Mali e costretti - oltre trent’anni fa - a emigrare in Algeria e Libia a causa di una gravissima carestia).

20. BILL CALLAHAN - Sometimes I Wish We Were An Eagle
(A ex equo): IGGY POP – The Preliminaires
L’ex-leader dei seminali Smog compone brani acustici di bellezza sontuosa ed estrema delicatezza.
A ex equo, la vecchia iguana e i suoi notevoli “preliminari”, ispirati al romanzo “La possibilità di un'isola” del francese Houellebecq.

venerdì 18 dicembre 2009

Dicembre

Il lampeggiante giallastro dello spazzaneve si riflette, a intermittenza, sul vetro appannato dell'ingresso.
Metto il naso fuori di casa.
La neve scende dal cielo, senza tregua, e una soffice coltre bianca copre ogni cosa.
Persino lo zerbino è sommerso di neve, eppure è sotto un portico profondo quasi tre metri.
In mezzo al campo immacolato, oltre il ruscello, c'è un coniglio gigante. Ha le orecchie appuntite e il muso sembra un teschio argentato. C'è anche Nonna Morte, con la sua zazzera bianca, che attraversa la strada innevata con le sue pantofole per andare a controllare la buca delle lettere.
Danno Donnie Darko stasera.

Non resta che mettersi a spalare il vialetto di casa, domattina, se vorremo uscire di qui, prima o poi.
Badile e sale grosso.
Con quell'idiota del cane che ti fissa annoiato. Non fa un cazzo dalla mattina alla sera, quel cane bastardo. Se ne resta sempre lì, sdraiato nella neve, a raffrescarsi le palle. Quando non è attaccato al computer per chattare su facebook.

Penso: la neve, a metà dicembre, ci sta.
Non è necessario essere esperti di metereologia per rendersene conto.
Eppure, è bello potersi tutte le volte sorprendersi, come se fosse la prima volta, assaporare lo stupore nel viso della gente che goffa sale e scende dal marciapiede cercando di farsi strada tra i cumuli e le lastre di ghiaccio, godere lo spettacolo dei fiocchi che avvolgono la statale illuminata dai fari allo xeno delle auto che avanzano a strappi.

Penso allo stupore di Agnese, la mattina del 13 dicembre.
Si è svegliata molto presto (probabilmente non aveva chiuso occhio tutta la notte per la tensione). Ha aperto la porta con gli occhi gonfi di sonno e si è trovata davanti, sul pavimento ancora freddo del corridoio, una fila di caramelle - le ha messe giu' sua mamma, davvero una bella scenografia - che portavano alla scala e poi, seguendo le caramelle giu' dalla scala in soggiorno, e infine sino al grande tavolo della sala da pranzo, dove facevano bella mostra i giocattoli ancora incartati.
Ha mangiato la carota!, ha urlato lei, riferendosi all'asino.
Santa Lucia, invece, si è fatta fuori una fetta di crostata al cioccolata - che però non l'ha fatta Sandy, che fa sempre un sacco di torte grandiose, ma l'abbiamo presa all'ipermercato in offerta speciale - e poi, povera donna, le è toccato bere un bicchiere di ginger.
Sì, il ginger, quella spuma rossa e un pò amara che si beveva un secolo fa nei bar tipo il Domus o il Parisienne - il primo era sotto casa, l'altro all'inizio di via Tibini - bar con i tavoli di formica e il regolamento del giuoco delle carte fissato con le puntine a muri scrostati, insieme a cartelli con scritte tipo: E' VIETATO SPUTARE PER TERRA, bar con i biliardi con ancora le buche e i gessetti azzurri da strofinare sulla punta delle stecche, bar con il distributore delle nocciole tostate, con le sanagola e i boeri, che vincevi sempre, mica come adesso che non si vince mai un cazzo.
Poteva andarle peggio.
Potevamo prepararle quello strano intruglio che era solito trangugiarsi mio nonno, Cristo santo, quell'uomo mescolava lo sciroppo d'orzata e quello di tamarindo con acqua fredda da frigo, la madonna se faceva schifo. Passavamo le estati nella sua casa di campagna, a pochi passi da qua, quella con i finti mattoncini rossi appicciacti sulle pareti e le tapparelle bianche: sempre stato un geometra da spendere poco. Era un tipo scorbutico ma capace anche di tenerezze. Dovevamo sempre farlo vincere a carte, se no s'incazzava di brutto. Ogni mattina andava a far la spesa a Rivergaro con la Fiat 128 Sport giallo senape - quella col doppio faro tondo posteriore, uno superclassico del design italico - e quando tornava suonava il clacson come un pazzo finchè non correvamo ad aiutarlo a scaricare il baule. Alle volte lo accompagnavamo in paese, nella discesa giu' dal ponte di Statto metteva la folle per risparmiare la nafta, quel taccagno.

Agnese è rimasta soddisfatta.
Santa Lucia le ha portato la Cuccio-clinica®, una specie di ospedale per piccoli animali con una veterinaria alta bella e bionda. La osservo mentre gioca. Borbotta qualcosa e sbuffa. E' alle prese con un caso disperato. Un cavallo con un femore rotto. Vedrai che starai meglio, sussura al cavallino accarezzandogli la criniera.
Tutto come copione: Agnese aveva chiesto Cuccio-clinica® nella sua letterina, dopo una serie indicibile di tormenti interiori e di clamorosi voltafaccia. D'altro canto, non bastassero tutti quegli ignobili spot pubblicitari - in quelle che dovrebbero essere fasce orarie protette - adesso ti inviano a casa anche dei cataloghi illustrati di giocattoli. Tipo il Postal Market (chi non se lo ricorda? Il mio vicino di banco alle elementari si tirava le seghe sfogliando le pagine di biancheria intima...). Un giocattolo per ogni pagina, foto grande a colori, e ognuno con il suo bel codice in neretto: per semplificare la scelta e non sbagliare gli ordini.

Cara Santa Lucia,
ti prometto che sarò brava con il papà e la mamma.
Per favore portami:

- CHT 74524
- FTG 05938
- GTD 98735


(Chissà, forse ci sono anche gli ippopotamini affamati.)

domenica 13 dicembre 2009

Il paese si scopre ogni giorno sempre piu’ incattivito, ostile e intollerante verso i diversi, sempre piu’ ostaggio di una classe dirigente rozza e analfabeta.
Non stupisce, allora, che il sindaco di un piccolo paese lombardo decida di ribattezzare “White Christmas” (sic!) una sorta di caccia ai clandestini e agli stranieri irregolari, in nome del Natale.
Vogliamo soltanto iniziare a fare pulizia, si è giustificato lui peggiorando la situazione.
Siamo in missione per conto di Dio, direbbe Belushi.
In risposta al clima imperante da caccia alle streghe, il nostro consueto appuntamento musicale è dedicato ad alcuni dischi usciti nell’anno in corso e provenienti dalle piu’ svariate parti del globo terrestre.

Recentemente scoperto dall’immenso Jim Jarmush, Mulatu Astatke è il re dell’ethio jazz, mirabile fusione tra l’esperienza jazz piu’ classica e i suoni della sua Etiopia, un mix ricco di fascino danzante e influenzato dalla strumentazione e dai ritmi africani. Il suo incontro con gli Heliocentrics, eterogeneo collettivo guidato dal drummer Malcom Catto, propugnatore di un energico mix jazz-funk e noto per alcune collaborazioni con Madlib e Dj Shadow, ci regala l’ottimo “Inspiration Information Vol 3”: per alcuni siti specializzati è uno dei dischi dell’anno.
Ancora dall’Africa.
L’amico Gigio segnala i Tinariwen, un gruppo di nomadi nativi del Sahara (nord-est del Mali) e costretti - oltre trent’anni fa - a emigrare in Algeria e Libia a causa di una gravissima carestia. Il loro “Imidiwan: Companions” è un prezioso scrigno di crossover afro-rock, tra inaspettate venature blues e canti di ribellione incentrate sul desiderio di libertà del popolo tuareg.
Sempre il Gigio consiglia i Gilzene & the Blue Light Mento Band, il cui reggae di "Sweet Sweet Jamaica", sarebbe – sono parole sue – una bomba assoluta e inoltre la raccolta intitolata “Calypso @ Dirty Jim's / The Music & the Film", con la quale si è cercato ricreare lo spirito dell’isola di Trinidad negli anni '50, riunendo i veterani e le leggende viventi del calypso (Calypso Rose, Relator, Bomber, Mighty Terror e Lord Superior) per una straordinaria notte di grande musica.
Il viaggio del compositore etno-folk Beirut nel continente sudamericano - in Messico, per la precisione - ha invece prodotto due Ep piuttosto noiosi.
Spostandoci in Asia, merita il giusto riconoscimento anche “Slumdog Millionaire”, soundtrack dell’omonimo film di Danny Boyle, premio Oscar 2009 per la migliore colonna sonora originale - anche se a dire il vero il disco è uscito negli ultimi giorni del 2008 - composta da A.R. Rahman con il contributo di altri musicisti indiani come Tanvi Shah, M.I.A., Madhumitha, Alka Yagnik.

Un breve cenno, infine, a una gemma misconosciuta di questo anno che sta lentamente per finire. “Gala Drop” è l’album omonimo di un trio di musicisti di Lisbona (Nelson Gomes, Afonso Simões e Tiago Miranda) che propone un’affascinante miscela di sonorità e di influenze apparentemente inconciliabili. Sentite cosa scrive su di loro Ondarock.it:
“Se negli anni ‘80 Jon Hassell coniò la locuzione “fourth world” per descrivere la sua miscela di suoni retro-futuristi, allora questa dei Gala Drop è musica del quinto o sesto mondo (…) Immaginate una fusione a freddo di dub giamaicano, tribalismo bucolico alla Animal Collective ultima maniera, minimalismo percussivo alla Urban Sax, suggestioni esotiche Soul Jazz Records (Konk, Rekid, Grupo Oba Ilu) e kosmische musik alla Cluster, il tutto immerso nelle bolge sintetiche degli Heldon.
Insomma, musica da fuori di testa per gente fuori di testa”.

(L'opera è di Gerhard Richter)

giovedì 3 dicembre 2009

A Milano piove da Dio


A Milano piove da Dio.
Cammino sul marciapiede, sul fianco di un muro scrostato e ricoperto di firme scarabocchiate con lo spray. Le auto procedono a velocità folle, schizzando l'acqua lurida e fredda sui miei pantaloni buoni.
La strada è resa sdrucciolevole dalla pioggia - lo so bene io che ho letteralmente aperto il cofano di una Uno Sting (argento metalizzato, mica cotica) su una panchina in calcestruzzo armato sul lungomare di Galway, Ireland - e poco piu' in là c'è un tamponamento a catena. Sfreccia un'autoambulanza con la sirena accesa.
Sotto i piloni del sottopassaggio ferroviario, un ragazzino con il cranio rasato e la tuta mimetica sta attaccando un manifesto (abusivo) di Forza Nuova.
C'è una grande fotografia di una donna stesa in terra, dolorante e piena di sangue, vittima di uno stupro, e le scritte:

E se fosse tua figlia?
E se fosse tua moglie?

Poi sotto: Sgomberare tutti i campi Rom, subito.

Osservo il ragazzino che intinge il pennello nel barattolo di colla, è poco piu' di un adolescente, non ha nemmeno un filo di barba, e intanto penso:
Se TU fossi mio figlio, caro ragazzo, ti prenderei a calci nel culo fino alla settima generazione.

Proseguo costeggiando anonimi caseggiati. Recinzioni in ferro arrugginito, muretti in calcestruzzo crepato e sgretolato, cortili d'asfalto invasi dalle sterpaglie. Ancora non siamo pronti per Expo 2015, temo.
Alla fermata del tram trovo riparo sotto una pensilina in plexiglass. Salgo sul numero due, puntualissimo. Mi piace leggere un libro stando seduto su quelle vecchie panche di legno massiccio e intanto osservare - attraverso il finestrino - la frenesia della gente là fuori. Cazzo, è spavenosa la percentuale di quelli che, mentre camminano con passo frettoloso, parlano al cellulare. Bisognerà fare una statistica, un giorno di questi.
Alzo gli occhi dal libro e la mia attenzione si sposta su una signora anziana con una vistosa parrucca colore rubino e un altrettanto strano turbante, che sembra fatto di stracci per la polvere.
Lei mi guarda e sorride.
Io ricambio, goffamente, e lei mi sorride ancora.
C'è da tenerselo stretto, un sorriso da parte di una sconosciuta, di questi tempi.

Scendo a Cordusio e mi incammino in direzione del Duomo. Ci sono un sacco di fottuti giapponesi in giro, riuniti in drappelli sotto la pioggia a fotografare le vetrine delle boutique d'alta moda. Ed è ancora primo pomeriggio.
La mostra di Hopper a Palazzo Reale è una mezza delusione. Tante opere minori, tanta grafica, mentre dei grandi dipinti a olio ci sono solo quelli del Whitney di New York, che ho già visto, anzi mancano addirittura i piu' belli. Manca soprattutto il celebre Nighthawks, del 1942, citato a piu' riprese da Wenders e da altri.
Non un evento all'altezza di una grande capitale europea, insomma.
Le didascalie ai lati delle opere esposte definiscono Hopper il poeta dell'anonimato e dell'isolamento delle metropoli - da non confondersi con la solitudine, scrivono i curatori. Sottolineano il suo "peculiare universo malinconico, solitario, metafisico e al contempo materiale", le sue "atmosfere vuote, silenziose, rarefatte, ovvero perfetti contenitori dell'esistenzialismo e della incomunicabilità invalicabile dell'uomo moderno".
Nulla da eccepire.

Sul metro del ritorno, raccolgo da un sedile vuoto una di quelle freepress che distribuiscono all'interno delle stazioni.
A pagina quattro trovo una notizia che mi colpisce.
Riguarda Francisco.
Figlio di immigrati messicani, Francisco soffre di una rara forma di autismo e vive con la sua famiglia - il padre è bracciante, la madre fa le pulizie - a Bensonhurst, Brooklyn, New York.
E' scappato di casa per paura di un rimprovero per un brutto voto, con solo una tessera della metro e dieci dollari in tasca.
Un budget risibile, che lui ha centellinato molto scrupolosamente negli undici giorni durante i quali è rimasto sempre sottoterra, sui treni, mangiando gli snack piu' a buon mercato prelevati dai distributori automatici. Per non farsi trovare, Francisco ha tolto la batteria dal cellulare. I genitori hanno immediatamente dato l'allarme, mobilitando parenti, polizia e consolato, che in realtà si sono mossi con un pò in ritardo, di un messicano gli importa poco, si sa.
Lo hanno ritrovato nei dintorni di Coney Island.

Immagino Hopper ritrarre Francisco sulla banchina, mentre è intento a scegliere dal distributore automatico un Mars, un KitKat o un sacchetto di patatine.
Il dubbio che divora Francisco.
Cazzo, il Kit Kat costa dieci centesimi meno, pensa alla fine.
E allora vada per il Kit Kat.
Poi Francisco che si allontana verso la scala mobile che lo riporta al livello superiore, dove si va a coricare su una panca di marmo ghiacciata, mentre un branco di umanoidi scorre eterea al suo fianco, di corsa, per rincorrere il vagone in arrivo giù al binario.

Potrà sembrare strano, ma durante questi undici giorni nessuno ha mai rivolto la parola a Francisco.
No, non lo trovo affatto strano, ha spiegato lui: a nessuno frega nulla del mondo e delle altre persone.


martedì 1 dicembre 2009


In madrepatria sono già dei fenomeni.
Attesissimi all’esordio dopo una mezza manciata di singoli di successo, Fanfarlo e Mumford&Sons se la cavano alla grande anche sulla lunga distanza.
Sulla scia dei The Leisure Society - autori nel 2009 dell’ottimo The Sleeper - hanno l’indubbio merito di spostare l’attenzione della critica e del pubblico sul nuovo folk-rock britannico e di dimostrare che la scena Londinese in particolare – non appena ci si allontana un po’ dal sound ormai stanco e stereotipato di gran parte del revival wave – è viva e vegeta.
I primi, molto apprezzati da David Bowie, pur dovendo il loro nome a un titolo di un racconto di Baudelaire propongono un sound prevalentemente acustico, tutt’altro che maledetto.
Nel loro Reservoir trovano spazio anche la leggerezza melodica del pop scandinavo - il leader della band è nativo della Svezia - ma anche basi ritmiche elettriche (Fire Escape e soprattutto Luna): i Fanfarlo stessi hanno ribattezzato il loro genere come “folk-disco”.
Tra i brani migliori anche l’opener I’m a Pilot – ecco spiegato perché qualcuno li ha definiti gli Arcade Fire inglesi… - la darkeggiante Drowning Men e Finish Line, che sembra rubata ai Talking Heads.
I Mumford&Sons condividono con loro l’amore per archi, fiati e fisarmoniche, pur attingendo a un repertorio piu’ classico e tradizionale.
Il disco – quasi cinquanta minuti di musica - scorre via piacevolmente, pur non brillando per originalità, tra preghiere laiche con intonazioni gospel (Sigh No More e Timshel), ballate languide e malinconiche alla Hothouse Flowers (Awake My Soul e White Blank Page) e pezzi piu’ festaioli e spensierati con dosi massicce di banjo e mandolino (Little Lion Man e Roll Away Your Stone) per i quali sono stati scomodati Pogues e Waterboys.
Consigliati agli amanti del genere, e anche a chi in questi anni ha apprezzato il lavoro di bands come Okkervil River e Bon Iver.

sabato 28 novembre 2009

sabato 21 novembre 2009


“Una caleidoscopica avventura musicale attraverso il favoloso e a volte sciocco mondo del cricket”.
La definizione degli stessi autori – ovvero un concept album sul gioco piu’ tradizionale ed esclusivo per gli inglesi, del quale il Ducwworth Lewis rappresenta un complicato metodo algoritmico per calcolare il punteggio di una partita interrotta causa maltempo - a prima vista potrebbe bastare per considerarlo un disco buono solo per una certa, stanca e fuori moda, aristocrazia britannica, un disco buono per le serate intime tra il Principe Carlo e la sua bella (…) Camilla, insomma.
E invece, questo nuovo progetto dell’irlandese Neil Hannon - già leader dei Divine Comedy - e di Thomas Shaw - leader dei Pugwash - si rivela già al primo ascolto come una delle piu’ gradite sorprese di questo 2009 che volge al termine.

Leggerezza e ironia, eleganza innata e humour in stile british, pop cristallino e allegria scanzonata: questo album potrebbe essere un’ottima colonna sonora di Little Britain o, ancor meglio, di Monty Pithon – chi scrive è un fan sfegatato del genio comico di Cleese, Gilliam e compagni (www.pythonline.com); chi non li conoscesse è pregato di procurarsi al piu’ presto una copia de “Alla ricerca del Sacro Graal” o “Il Senso della Vita”.

Tantissimi i gioielli di questa misconosciuta opera rock.
The Age Of Revolution parte su uno strepitoso campionamento anni ’50; Gentlemen & Players e Mason On The Boundary sono raffinati brano pop artigianale, tra Kinks e XTC; Meeting Mr. Miandad è un singolo atipico: divertente il video nel quale i sorvolano i deserti a bordo di una mongolfiera realizzata con un vecchio furgone VW, alla caccia del fantomatico campione pakistano di cricket, tal Miandad, in perfetto stile Monty Pithon, appunto. Jiggery Pockery è una filastrocca bislacca, Flatten The Ray un refuso dei Beatles mistici innamorati del sitar e della cultura indiana. Test Match Special sembra non una cover di Bowie, ma addirittura un cameo dello stesso Duca Bianco (ho spulciato le note di copertina, non è così).
Su tutte, The Nightwatchman, una ballata di classe sopraffina, uno dei brani piu’ belli dell’anno, in assoluto.

giovedì 19 novembre 2009

Ritorno in Valnure

Il virus HNV1 ha decimato la scuola del paese, senza alcun riguardo per i piu' piccoli e i piu' deboli, anzi.
Stamattina, in tutto ci sono sette bambini.
Solo una in quinta, che infatti se ne ritorna mestamente a casa.
Le maestre ci guardano come a chiederci, cosa li lasciate qui a fare? Sembrano un poco contrariate dal fatto che qualcuno ha deciso di portare ugualmente i propri figli a scuola. Dopo un rapido consulto telefonico con Sandy, decido di lasciare la bambina a scuola. Io potrei anche portarmela dietro, ma in ogni caso, c'è un suo compagno equadoregno i cui genitori lavorano entrambi, iniziano la mattina presto, non sapremmo come raggiungerli, adesso.
Così bacio Agnese sulla fronte, scendo la scalinata in travertino e mi incammino verso l'osteria, dove per bere un caffè aspetto che la barista termini una tutt'altro che urgente conversazione telefonica.
Scusami, mi fa, dopo aver riagganciato. Era mia madre, mi chiama sempre, piu' volte al giorno. Anche durante il lavoro. Mi ripete sempre le stesse cose.
Io le dico che invece mia madre non chiama mai, deve avere un'allergia verso il telefono. Il giorno del mio compleanno la devo chiamare io, per consentirle di farmi gli auguri, aggiungo.
Quest'anno, mi racconta lei, per spiegarmi come sbrigare la faccenda dei fiori da portare al cimitero per i morti, la mia ha iniziato a chiamarmi in agosto. Mi ha elencato il tipo di crisantemi, il loro numero, il colore, la composizione che voleva per la tomba di mio padre. Sono dovuta andarli a prenotare a metà settembre, non puoi immaginarti la faccia della fiorista.
Io sorrido e, mentre mi gusto il mio caffè bollente, penso: è brutto rimanere da soli.
Poi ripenso alla lista degli sms che Paulette, qualche giorno fa, ha abilmente trascritto dalla cartella degli sms inviati del portatile di mia madre:

Sono spr pr
No biondi
Buona pasqua (qui evidentemente qualcuno l'ha aiutata, ndr)
Tut

Niente male, cazzo, la vecchia.

Prima di andarmene do' un'occhiata alla gazzetta e poi scambio due chiacchiere con gli altri avventori.
C'è una tipa che che smanetta su una macchinetta del videopoker, passa le sue mattine su quella dannata macchinetta. Ancora un pò e ci lascia giu' anche le mutande.
C'è il mister, lo prendo in giro per la classifica piuttosto deludente. Quattro punti. Sei gol subiti anche domenica scorsa, nel derby con il Marsaglia. Lui si lamenta del campo pesante. Si lamenta dell'arbitro, che è un testa di cazzo,l'ha sempre detto, lui, che è u testa di cazzo. Si lamenta che non hanno un portiere. Perchè non convinci il Gio, mi fa. Viene a finire il campionato titolare in seconda, poi torna alla base. Mah, aggiunge lui alla fine, non so se me lo danno in prestito.

C'è un uomo di mezz'età - uno che non ho mai visto qui in giro - che ha appena finito di leggere il giornale appoggiato al bancone.
Ce l'ha con il computer, con internet e con tutte quelle diavolerie elettroniche. Adesso i ragazzi non escono piu' di casa, sentenzia, si parlano attraverso le chat e quelle robe lì, ditemi voi se è normale. Io pago il mio caffè e intanto rispondo che certe cose non sono il diavolo, che come per tutte le cose l'importante è non abusarne, e che comunque certi strumenti possono aiutare i piu' timidi a mettersi in relazione con gli altri. Lui scrolla la testa. Ci credo poco, mi fa.
Io non sono Matusalemme, ho solo cinquantacinque anni, però davvero non li capisco, aggiunge dopo una lunga pausa.
Poi, con una strana espressione da posseduto dipinta in volto, afferma:
Io sono credente: per me, una bella Ave Maria al mattino, recitata bene, è molto meglio che un pomeriggio intero passato sul computer.
Infine inizia a raccontarmi di una sua conoscente di Bettola che negli anni Sessanta è emigrata a Nuova York - così ha detto lui, Nuova York - e che là si è fatta una vita, figli, lavoro e tutto quanto. Sua figlia, che nel frattempo si è anche lei sposata con un americano, qualche anno fa è tornata in Valnure per presentare al marito i suoi parenti piacentini. Sono rimasti piu' di un mese. Lui si collegava tutti i giorni con il computer e svolgeva da lì il suo lavoro. Vuoi sapere come è andata a finire? La sua ditta, una ditta americana che opera nel settore delle telecomunicazioni, gli ha chiesto di rimenere in Italia. Per loro era il massimo della comodità, il fatto che ci sono sei-sette ore di differenza nel fuso permetteva ai suoi colleghi di arrivare in ufficio e trovare già tutto pronto.
Vedi?, gli faccio io, riferendomi alla nostra conversazione di prima.
Lui annuisce pensieroso.
Quest'uomo non ha le idee chiare, penso io.

Sono quasi le nove.
Saluto tutti e me ne vado, e mentre raggiungo la macchina ripenso a quello che ha detto quell'uomo.
Che cazzo avrà voluto dire, poi, con la storia dell'Ave Maria.
Ma perchè non la lascia fuori, la Santissima Vergine, da certi discorsi?

sabato 14 novembre 2009


Fine anno senza botti clamorosi, è un fatto.
Ecco quello che passa il convento: il terzo, sbiadito ma discreto, Arctic Monkeys, un pessimo Muse, il solito doppio album mastodontico dei Flaming Lips, un tutto sommato anonimo Yo La Tengo.
E allora su consiglio dell’amico Big – perché Big è uno che la sa lunga - optiamo per il nuovo, secondo, album di Hope Sandoval – quasi otto anni dopo “Bavarian Fruit Bread” – già front-woman di gruppi seminali come Opal e Mazzy Star.
La voce suadente e sensuale della cantante californiana (nata da famiglia di origine messicana) è da sempre una delle piu’ richieste in ambito pop-rock: nel suo curriculum vanta infatti collaborazioni illustri (Air, Death In Vegas, Vetiver, Chemical Brothers), in futuro parteciperà al prossimo Weather Underground dei Massive Attack.

Questo “Through The Devil Softly” sin dal titolo e sin dal nome della band che la accompagna (The Warm Invenctions, con Colm O’Ciosoig, ex-drummer dei My Bloody Valentine, e con la collaborazione fissa di Alan Browne al basso e quella occasionale di altri esperti musicisti) si preannuncia un ascolto caldo e soffice.
La raffinata “Blanchard” apre con grande classe la tracklist, “Wild Roses” è una ballata in puro stile West Coast, e “For The Rest Of Your Life” un blues cupo e rarefatto.
Il disco non scende mai di tono, con un susseguirsi di melodie minimaliste, fragili arpeggi acustici e passaggi country appena sussurrati, sino al meraviglioso picco finale: l’elettrica "Trouble", a seguire “Fall Aside", una litania lisergica con banjo e organo e, in chiusura, "Satellite", una ninnananna in bassa fedeltà, con la voce di Hope che sembra filtrata attraverso un microfono difettoso.
Abbiamo la sensazione che ci terrà compagnia spesso, nelle prossime lunghe serate invernali.

venerdì 13 novembre 2009

VERSO DRESDEN


L'autostrada, deserta, costeggia immensi pascoli, sporadicamente delimitati da folte boschine. Non ci sono campi coltivati. Nonostante sia diretto verso sud. Nemmeno un campo di patate. Nessun edificio, nemmeno. Nessun capannone.
Non si vede anima viva.
Solamente i pali zincati della linea elettrica a tenermi compagnia.
In lontananza, un campanile - esile, con il solito bulbo a cipolla alla sua sommità - segnala ogni tanto la presenza di un borgo o di una piccola città.
La nebbia sale lentamente, l'alba si è alzata da ore ormai, e improvvisamente appare alla mia vista un'auto distrutta e capovolta nella scarpata. C'è un ragazzo seduto tra le sterpaglie, indossa il giubbino arancio fosforescente e si tiene la testa tra le mani. Se l'è vista brutta, lo stronzo. Tutto sommato, se l'è cavata con poco.
La polizei cerca di sogmbrare la carreggiata dai pezzi di lamiera e di plastica nera, mentre la carcassa fuma poco lontano.
Io rallento l'andatura, potrebbero aver bisogno. Una donna bionda di mezz'età, un pò impiccata nella sua divisa color sabbia di qualche taglia in meno, mi fa cenno di proseguire.
Curiosamente, la strada è invasa da arance e mandarini.
Ripensandoci, anche il tedesco che mi ha centrato un paio di anni fa a Merano - invadendo improvvisamente la mia corsia durante un sorpasso ad alta velocità, malgrado il fondo bagnato da una pioggerellina autunnale - aveva il baule stipato di cassette di mandarini. Lui sembrava pieno di cocaina e passeggiava avanti e indietro nervosamente, e anche la bagascia teutonica che sedeva al suo fianco aveva gli occhi lucidi. L'idiota aveva distrutto un'Audi da svariati bigliettoni da mille - optional esclusi - e però sembrava preoccupato per i suoi mandarini del cazzo.
La lezione di oggi è: in Germania è pericoloso trasportare mandarini e agrumi in generale.
Forse che qui i mandarini contengono sostanze speciali?
Sì, forse si sono inventati i mandarini lisergici.
Beh, fosse così, si potrebbe cambiare idea sul discorso OGM...
In fondo, perchè no?

Ora il tappeto di cemento ruvido taglia in due le colline, e un pallido sole fa capolino nella fitta coltre grigiastra all'orizzonte.
L'ingresso a Dresda risulta agevole oltre misura. Il navigatore della Nissan mi aiuta a orientarmi, non lo si puo' negare, ma il fatto è che non sono nemmeno le dieci di sabato mattina, e Dresda sembra una città fantasma.
Le strade sono sgombre, è impossibile trovare un locale aperto per un caffè. Mi guardo attorno e mi accorgo che gli scuri e le persiane delle case sono tutti ancora chiusi.
Oltre il fiume solcato da vecchi barconi di legno appare uno scenario spettacolare di cupole e di guglie barocche.
Una sinfonia di pietre e di marmi anneriti dallo smog e dall'incuria.
Persino gli edifici che sono stati ricostruiti dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale sono avvolti in una sottile patina di cenere.
Lascio l'auto sotto il ponte e salgo la riva destra dell'Elba per raggiungere la prima tappa, ovvero la sinagoga ebraica. Pur essendo sabato, la trovo chiusa. Non che io sia così ferrato sulle abitudini dei rabbini: il mio faro, in questo campo, è Walter.
Shomer shabbos!
Niente tornei di bouling al sabato!
Non se ne parla proprio.
(Quando il Drugo gli fa notare che lui in realtà non è ebreo, Walter risponde: sì, ma lo era la mia ex-moglie)
Mentre mi avvicino, mi tolgo la mia chefia azzurrina che uso come foulard, per rispetto, certo, ma anche perchè ho anche un pò paura.
Il complesso è interessante, due parallepipedi ermetici e rivestiti in pietra calcarea e deformati rissetto al loro asse di simmetria. Mi fa venire in mente la famosa cabina di controllo del traffico ferroviario di Herzog&deMeuron, a Basilea.
Il tram - o metropolitana leggera - scorre sui binari proprio a fianco del cortile della sinagoga, prima di avventurarsi sul ponte e verso i sontuosi palazzi neoclassici della riva sinistra. I vagoni si bloccano a pochi metri da me. Si aprono le porte scorrevoli. Scende uno studente con l'iPod e una bici da corsa in braccio.
Tornando alla macchina, mi sorpassa una vecchia Trabant bicolore, crema e giallo canarino. Da paura.
Percorro le grandi vie alberate della Dresda del socialismo reale. Queste strade hanno una sezione enorme, talmente fuori scala. Però sono gradevoli. I grandi casermoni in cemento armati sono stati interamente rivestiti con facciate continue in alluminio, in acciaio porcellanato, con ceramiche colorate all'eccesso. Li hanno infiocchettati per bene, insomma. Spesso con scarsi risultati estetici.
Roba da rimpiangere Honecker.

domenica 8 novembre 2009

BERLIN: SAD SONG, 01


Il cielo sopra Milano, osservandolo attraverso l'oblò appannato dalla condensa, mi appare come una striscia lunga e sottile di colore grigio-marroncino, dai contorni poco sfumati. Un orrido magma di polveri sottoli e di gas tossici.
Sembra una pennellata di smalto opaco. O tirata con un pantone.
Tinta RAL 1024, direi.

Il Boeing della AirBerlin si è appena alzato in volo dopo una breve rincorsa sulla pista d'asfalto lucido. Come cazzo farà, poi.
Ora sorvoliamo il cuore pulsante della Nazione Padana.
La Brianza, da questo posto privilegiato d'osservazione, altro non è che una marmellata indigesta di villette bifamiliari e capannoni prefabbricati, di outlet e multisale cinematografiche, agglomerati semiurbani che si susseguono senza soluzione di continuità, separati solo da svincoli autostradali.
Qui, dall'alto, sembra un'enorme macchia scura, come un tumore.
Rovisto nel borsello di cuoio nero nella vana ricerca dell'ultima fatica di Palahniuk, regalo di compleanno degli amici per i 41. Quest'anno niente lanci in paracadute o altre robe da uomini veri, cazzo, solo buoni libri. Ma è meglio che non ci penso, Cristo, sono sospeso in aria a quasi 10.000 metri di altezza, su questo cigolante mostro metallico bianco lucente. Roba da cagarsi addosso.
Sfoglio le prime pagine, cercando la giusta concentrazione, e intanto ripenso all'incontro con un ragazzo brasiliano, stamattina all'aeroporto. E' procuratore federale, di stanza a Brasilia, ma vive per lo piu' a San Paolo, la città piu' bella e stimolante del Brasile, dice lui. Mi aggancia lui in coda al Check-In. E' preoccupato, visibilmente preoccupato, per il fatto che il peso dei suoi bagagli possa superare - e lo supera, ampiamente - il limite consentito. Suda freddo. Sul suo carrello ci sono due enormi borsoni pieni di vestiti e una valigia stracolma, praticamente tenuta insieme con il nastro adesivo. Meglio non avvicinarsi troppo, penso io, sembra sul punto di eruttare una moltitudine di mutande e di calzini sporchi.
Ci accordiamo che, in caso di problemi, io mi accollo una parte dei suoi pacchi.
Fortunatamente non ce n'è bisogno. La hostess della AirBerlin lo guarda un pò di traverso, scuote la testa, ma poi lo lascia passare.
Il giovane avvocato di San Paolo passerà tre giorni a Berlino e poi tornerà in Sudamerica, a casa sua. E' reduce da una settimana a Barcellona e da ben tre settimane a Milano.
E in queste tre settimane, a Milano, cazzo hai fatto?, gli domando.
Shopping, mi risponde lui.
Allora gli chiedo: ma non sei stato a Venezia? A Firenze? Cazzoneso, a Mantova?
No.
No?, ripeto io incredulo.
Sono stato a Serravalle Scrivia, mi risponde lui dopo una pausa di riflessione. Lui non è per nulla imbarazzato.
Ah, faccio io. Come dire: sticazzi.
Ci suono buoni prezzi, mi spiega. Ho preso un sacco di roba, all'Outlet.
Porca troia, e poi dici che la situazione puo' solo migliorare, qui stiamo andando dritti verso il baratro, e neanche ce ne accorgiamo.
Dopo una sequenza di sbadigli, decidiamo di prendere un caffè nell'unico bar aperto. Lui mi racconta un pò del suo lavoro, io del mio. Bello, fare l'archiettto, fa lui. Gli chiedo di Niemeyer. Mi piace il suo lavoro, commenta lui. Non a tutti piace, a Brasilia. Cazzo, dico io, se non sbaglio i conti dovrebbe avere qualcosa come 102 anni, chioso io. A un certo punto lui interrompe la conversazione e, come un animale in cerca della sua preda, il suo sguardo si fionda verso una vetrina scintillante di un negozio Tax Free.
Mi chiede se puo' lasciarmi i suoi bagagli a mano, evidentemente di me si fida, e poi si allontana per andare a controllare il prezzo di una valigia di pelle di Ermenegildo Zegna.
Al suo ritorno, è rincuorato. L'ho pagata venti euro di meno, mi fa.
Molto bene, lo assecondo io.
No, davvero, sai com'è. Se qui fosse costata di meno, molto di meno, ci sarei rimasto molto male.
Eh sì, balbetto io. Poi tiro fuori una scusa tipo: devo chiamare casa, mia nonna sta male, devo cercare un telefono.
Lo saluto con una stretta di mano e mi accommiato da lui con estrema rapidità.
Di coglioni come lui, ne abbiamo a fiotti, qui da noi.

sabato 7 novembre 2009

Il clamoroso successo di XFactor e degli altri talent-show – un vero e proprio monumento al marketing in campo musicale - è sintomo della situazione in cui versa il mercato discografico del nostro paese.
La scena rock è esangue, se si esclude qualche caso limitato ed eccezionale, spesso di portata locale (il jazz-metal degli Zu di Carboniferous, ad esempio, oppure il bravo Dente o i Casa, band vicentina che propne un insolito krautrock e titoli come “Nick Drake” e “Padre nostro/Motoraduno”). I segnali sono evidenti. Manuel Agnelli decide di portare gli Afterhours persino a Sanremo (sic), mentre il Vasco nazionale, sempre piu’ bolso e sovrappeso, coverizza senza provare vergogna “Creep”, ribaltandone peraltro il significato originario.
Ma quello che colpisce di piu’ è che la grande scuola dei cantautori sembra essere rimasta senza parole davanti allo scenario di un paese che attraversa un periodo di declino, etico e morale, senza precedenti. Escono solo live/compilation/best of/greatist hits, magari arricchiti da qualche inutile inedito o b-side, espediente questo che rende ancora piu’ fastidiose e odiose queste operazioni commerciali. Fabrizio De Andrè lo aveva previsto con largo anticipo: “voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio/coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio/voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti/per l’Amazzonia e per la pecunia/nei palastilisti/e dai padri Maristi/voi avete voci potenti/lingue allenate a battere il tamburo/voi avevate voci potenti/adatte per il vaffanculo”, e anche Francesco Guccini era da un po’ che si era rotto: “La piccola infelice si è incontrata con Alice/ad un summit per il canto popolare/Marinella non c' era, fa la vita in balera/ed ha altro per la testa a cui pensare”.

In un così desolante scenario, il nuovo album di Samuele Bersani, “Manifesto abusivo” - che si avvale delle collaborazioni di Dalla, Pacifico, Bollani, Angelo Conte e Cammariere - rappresenta senza dubbio una bella boccata d’ossigeno.
Dal punto di vista melodico, le composizioni del cantautore romagnolo rimangono asimmetriche, spesso sbilenche, anche se con il tempo ha imparato a smussare i tratti piu’ bislacchi e naif. Gli arrangiamenti sono tra i piu’ classici e maturi del suo repertorio, tuttavia non sempre all’altezza dei testi, intelligenti e delicati, ironici e amari. Ci è capitato di leggere sul web, e ci sentiamo di condividere: se Samuele Bersani incontrasse un Lucio Battisti, probabilmente ogni disco sarebbe un capolavoro. Nessuno in Italia scrive testi come i suoi. “Manifesto abusivo” è un ritratto della contemporaneità va ascoltato con il libretto sottomano.
Tra i brani, spiccano i due singoli – “Un periodo pieno di sorprese” e “Ferragosto”, brano scritto con Sergio Cammariere e da quest’utimo già inciso quattro anni fa – e le canzoni d’amore (finito) “Valzer nello spazio” (“mi auguro di aver davanti un momento in cui potrò ignorarti/come una cartella sopra il monitor lasciata senza titolo/cancellarti non mi viene in mente/me ne pentirei di sicuro all'infinito”) e “Fuori dal tuo riparo”(“potrei promettere/parole d’effetto a oltranza/mantenendo l’impegno ma/se ti stringessi poi la mano per circostanza sul bracciolo di un cinema/da me stesso mi sentirei deluso/faresti bene a dirmi/e adesso vattene a fanculo”). Una citazione speciale anche per “16:9”, con un’inusitata coda alla Coldplay, e per “A Bologna”, un grido di denuncia verso la politica dei divieti in corso nella sua città adottiva: “la metamorfosi spaventa come/chitarre elettriche col distorsore/le orecchie dei nostalgici, delle cariatidi/e di chi nasce già conservatore/vecchio nel cuore”).
L'edizione speciale dell'album disponibile su ITunes contiene inoltre la cover de ''Il bombarolo'' di Fabrizio De Andrè, con l’accompagnamento di Stefano Bollani al pianoforte.
In fondo, è una bella sensazione, sapere di non essere solo nelle mani di Morgan.

venerdì 30 ottobre 2009

Mio padre, John Lennon


Non ho mai conosciuto mio padre.
Se ne è andato troppo presto, quando io e Paulette avevamo solamente diciotto mesi. Non che agli fratelli sia andata meglio: avevano rispettivamente dieci e sette anni, nemmeno il tempo di ricordarselo, dopo.
Si è ammazzato di lavoro. Eppure il dottore glielo aveva detto piu' volte, di andarci piano, dopo il primo, leggero, infarto. Aveva compiuto cinquant'anni due settimane prima.
Quello che mi resta è un album di cuoio, ormai sdrucito, con i ricordi di una vita.
Una collezione di pallide fotografie in bianco e nero, sbiadite, e i documenti del periodo in cui fu partigiano nelle valli tra il Luretta e la Pietra Parcellara.
Il Capitan Bologna.
Medaglia d'argento al Valor Militare per la Resistenza.
(Talmente sentita, che hanno sbagliato persino il cognome, hanno scritto MANZANI)
C'è anche un trafiletto, poco piu' di sei righe, sul Dizionario dei Concittadini Illustri.
Bella roba.
Avrei preferito che avesse continuato a tenerci sulle ginocchia, mentre leggeva il giornale seduto a tavola.

Una bella mattina di ottobre.
Il sole è improvvisamente sbucato dalla fitta coltre di nubi che nei giorni scorsi ci ha impedito di guardare oltre il cielo.
E' il periodo giusto per mettere a dimora i crochi e i tulipani. Sandy ne ha presi un paio di sacchetti pieni. Ci sono anche due esemplari di aglio selvatico. L'anno scorso ne abbiamo piantato uno, e quella specie di patata spelacchiata è diventato un fusto alto piu' di un metro, con in cima un fiore lilla, grosso come un arancio.
Agnese mi aiuta a smistare i semi e i bulbi nelle varie buche che mi sono preparato, con l'ausilio di un badile e di un piccone.
Le piace aiutarmi, anche se poi si stufa subito.
E allora si mette a preparare la pappa per i suoi figli, stamattina ne ha addirittura quattro: due barbie, un altro bambolotto - un bambolotto inquietante, un umanoide cyber che muove le labbra e piange lacrime finte, e che se gli butti uno strano liquame grigiastro in bocca lui poi si caga addosso - e addirittura un orsachiotto di pezza.
Se vuoi puoi essere mio marito, mi dice mentre accarezza l'orsachiotto.
Se proprio insisti, abbozzo io. A dire il vero, quattro figli mi sembrano un pò troppi. Tutti in una volta, poi.
Quando rientriamo in casa ci mettiamo in cucina a disegnare con i pennarelli.
Dopo un pò mi dice: devo far vedere i miei disegni alla nonna Giulia.
Ok, rispondo io, e intanto mi alzo per prepararmi un caffe'. Quando viene a trovarci glieli facciamo vedere.
Poi mi chiede: ma la nonna non ha un marito?
Lo aveva, rispondo io. Adesso non c'è piu'.
Ah, fa lei. E come si chiamava?
Giovanni.
Ah.
Era mio padre, aggiungo io (lo sapete anche voi, i bambini faticano assai a entrare nel complesso meccanismo delle parentele. E Agnese non fa certo eccezione, anzi diciamo pure che gli alberi genealogici non sono il suo forte).
Lei resta lì, immobile, lo sguardo fisso su un punto qualunque della nuda parete d'intonaco.
Sembra perplessa.
D'altro canto, come non comprenderla: suo padre si chiama Giovanni, suo fratello si chiama Giovanni, e suo nonno come si chiamava? Giovanni. La Madonna che fantasia, potrebbe pensare. Un paio di Madonne le ha gia' tirate, infatti, fortunatamente senza aggettivi.
Ma poi si lascia distrarre dalla radio che gracchia una musica conosciuta.
Cerco di spostare l'antenna nella speranza di ricevere meglio il segnale, mentre lei canticchia sullo sfondo.

Torno fuori per stendere un pò di terriccio con il rastrello, e poi innaffio l'aiuola scura e polverosa.
Rientro in casa e accendo la televisione. Su Mtv c'è un programma sui Beatles. Deve essere un anniversario di qualche cosa, perchè per tutta la mattina mettono dei vecchi filmati, interviste e materiali d'archivio.
C'è anche un video nel quale quattro pupazzi - a immagine e somiglianza dei Fab Four - suonano Ticket to ride e A day in the life.
Agnese guarda il video rapita. Io nel frattempo le massaggio la pancia, dovreste provarla anche voi, è morbida come la pasta delle pizza dopo che è lievitata per un intero pomeriggio.
Chi sono?, mi chiede.
Dei musicisti, rispondo. Si chiamavano Beatles. In Italiano vuol dire: scarafaggi.
Che schifo.
Guarda, le dico, quello lì si chiamava Paul, sì, insomma, Paolo. Quello con i capelli piu' lunghi si chiamava Giorgio. Quello invece era Ringo. Ringo Starr. Suonava i tamburi. E quello là in fondo era John, Giovanni. Anche lui adesso non c'è piu'.
Giovanni?, ripete stupita.
Sì, Giovanni.
Lei resta in silenzio, ma io mi accorgo che sta macchinando qualche idea strampalata in quella sua testolina di cazzo, e infatti dopo qualche istante mi chiede:
Ma era lui tuo papa'?
Io rido forte. Chi? John Lennon?
Anche lei ride, adesso.
No, non era lui, rispondo io accarezzandole i capelli, sottili e castani come i miei.
E intanto i quattro pupazzi, sullo schermo in 16:9, attaccano With a little help from my friends.

Verso sera, esco di nuovo per fare legna. Il sole è sparito all'orizzonte, e la temperatura è scesa improvvisamente. Meglio accendere il camino.
Sono lì che scelgo con cura i pezzi di carpino e robinia dalla catasta sotto il pergolato nascosto dal gelsomino, che poi è un falso gelsomino, qualsiasi cosa voglia dire, e intanto ripenso a John Lennon.
Cazzo, avrebbe potuto essere davvero mio padre.
In fondo era del '40.
Anche se non ce la vedo molto, la Giulia, con il vecchio John. E poi cosa cazzo è andata a fare a Liverpool?
Però.
Però non si sa mai.

Prendo la Scenìc e vado giu' in paese a comprare un pò di insetticida, anche se siamo un pò fuori stagione c'è un'invasione di formiche rosse.
Fuori dall'emporio, c'è un gippone parcheggiato con due ruote sul marciapiede. Si apre la portiera e scende un uomo di mezz'età, corporatura robusta e un principio di chierica sul cranio.
Mi guarda senza alcuna espressione particolare.
Io ricambio il suo sguardo ottuso e poi gli dico: John Lennon era mio padre.
E lui: chi, quell'hippy sciroccato che cantava tutte quelle cazzate sulla pace e sull'amore universale?
Immagina un mondo senza possessi/mi chiedo se ci riesci/senza necessità di avidità o fame/La fratellanza tra gli uomini/Immagina tutta le gente/condividere il mondo intero....
Stronzate.

Brutta bestia, l'invidia.

Mentre torno in macchina mi dico, 'fanculo, adesso chiamo McCartney.
Cazzo, Macca, gli dico, quand'è che mi mandi i diritti d'autore delle ultime compilation?
Lui balbetta qualcosa di incomprensibile. Deve essere ancora incazzato per la storia della dicitura "Lennon/McCartney" sui dischi. Secondo lui, andrebbe ribaltata, almeno per i pezzi che in realtà, così dice, ha scritto lui. Non gli hanno mai spiegato la proprietà commutativa.
Macca? Mi senti?
Devi chiedere a Yoko, mi risponde lui dopo una lunga pausa. Ho già datto tutto a Sean e a Julian.
Non fare il furbo con me, gli faccio, domattina voglio il bonifico.
Poi gli detto il codice IBAN:

I
T
6
0
R
...
Ma la cornetta adesso suona a vuoto.
Tuuu... tuu....

Ha messo giu', quel bastardo.
Che gran figlio di puttana.
Te l'avevo detto che non dovevi fidarti di lui, papà.


IMMAGINE DA:
http://www.robertoagostini.it/uploads/images/Ritratti/john%20lennon.jpg