martedì 20 dicembre 2011
Il pagellone del 2011
20
TOM WAITS – Bad As Me
VINICIO CAPOSSELA – Marinai, Profeti e Balene
Il paragone ad alcuni non piacerà, ma se esiste un Tom Waits italiano, allora quello è Capossela. L’ultima opera del cantautore lucano – recensito in esclusiva per PiacenzaSera dall’amico Big - è un concept che ha per tema il mare, con particolare riferimento alle opere di Melville e la mitologia omerica, aperto a un’incredibile varietà di sonorità.
E anche quel vecchio bastardo di Waits non tradisce le attese: probabilmente non aggiunge nulla di nuovo al suo vasto repertorio, ma stupisce ancora con la sua musica elegante e desolata, in equilibrio tra ballate pianistiche di sconfinata dolcezza - seppur avvolte dal fumo e dalla polvere - e i suoi blues sporchi, bislacchi e asimmetrici.
19
TINARIWEN - Tassili
GROUP DOUEH – Zaina Jumma
Dall’Africa nera due dischi bellissimi.
I TINARIWEN, dal Mali, sono ormai noti anche qui da noi.
Tassili – il loro disco più malinconico e intimista - ripropone il celebre Tishuomarem, ovvero un’imperdibile miscela di world-music, tradizioni tuareg e desert-blues.
I GROUP DOUEH, dalla Mauritania, sono invece una sorpresa. Per usare le parole di Storiadellamusica.it: percussioni indigene, reiterazioni psichedeliche, bordone di organo tenuto in sottofondo, richiami tribali, ghirigori afro di acustica che vanno a disegnare complessi raga poliritmici, FARNK ZAPPA che rilegge l’antico folklore aurale dei beduini.
18
THE DECEMBERISTS – The King Is Dead
Girerà a lungo sui nostri Ipod: terminava così la nostra recensione, lo scorso gennaio.
E così è stato.
La band di Portland, Oregon, riscopre le radici e l’amore per la tradizione folk-rock in una calorosa e calda profusione di mandolini, fise e armoniche a bocca: una sorta di Bringing It All Back Home, insomma.
17
ANNA CALVI – Anna Calvi
Le charts inglesi vedono la lotta tra ADELE e FLORENCE & THE MACHINE, ma il gentil sesso non domina solamente nel pop – seppur sofisticato - da classifica.
Prendiamo l’eccellente esordio di Anna Calvi, nuova sacerdotessa dark osannata da BRIAN ENO e NICK CAVE: una produzione assai raffinata, quasi perfetta, che forse toglie un po’ di calore all’interpretazione di Anna, a tratti quasi glaciale.
16
ELBOW - Build A Rocket Boys!
LOW – C’mon
Le stelle polari dei primi sono i capostipiti dell’art-rock britannico colto e ambizioso: ENO, FRIPP, WYATT, SYLVIAN. E soprattutto GABRIEL.
Vero: svanito l’effetto novità, qua e là affiora il manierismo o un’enfasi ingiustificata, o una certa magniloquenza. La stessa critica mossa anche ai GENESIS: e noi che abbiamo amato alla follia Foxtrot e Selling England By The Pound ci teniamo stretti anche gli ELBOW.
Reduci da un’improvvida svolta elettronica, i LOW tornano alle loro radici, ovvero alle sonorità slowcore (SLINT, CODEINE) che ne avevano caratterizzato i fulgidi esordi.
15
VACCINES – What Did You Except From The Vaccines?
Si sono guadagnati, indubbiamente, il Grammy – dovrebbero inventarlo, se già non esiste - come miglior titolo dell’anno: “Che cosa vi aspettavate dai Vaccines?”, tante e tali erano le aspettative per il loro esordio. Questi esponenti della working class londinese suonano un garage-rock godibile e divertente (STROKES), con venature dark e similitudini con la scena wave (FRANZ FERDINAND), mettendo insieme una manciata di pezzi niente male.
Poi, per passare alla storia (del Dio Rock, si intende) servirà ben altro.
14
M83 – Hurry Up, We’re Dreaming
Esponenti del cosiddetto revival shoegaze – insieme agli ZOLA JESUS, che qui collaborano nell’intro di apertura al doppio album – i francesi M83 hanno letteralmente diviso la critica, raccogliendo stroncature feroci e commenti estasiati (Midnight City è addirittura il pezzo dell’anno per Pitchfork e per Stereogum).
A noi piace la loro elettronica così epica, in sospensione, tra MERCURY REV e MY BLOODY VALENTINE.
13
IRON & WINE - Kiss Each Other Clean
DESTROYER - Kaputt
IRON&WINE è il moniker del texano Sam Beam, giunto al quarto album. Frettolosamente catalogato sotto l’etichetta folk-rock, propone una grande varietà di soluzioni sonore: arrangiamenti orchestrali, standard jazz, ballate West Coast, blues e pulsioni etniche.
DESTROYER sta invece per DAN BEJAR, da Vancouver, Canada.
Il suo è un soft-rock assai elegante e rarefatto, dall’atmosfera vagamente jazzy e caratterizzato da sezioni ritmiche anni ottanta.
12
KASABIAN - Velociraptor
Vallo a sapere, il motivo per cui i Kasabian non godano qui da noi di buona stampa.
Forse perché fondamentalmente sono degli stronzi: atteggiamento strafottente, cantato arrogante e look tamarro.
Velociraptor conferma la band di Leicester come una delle migliori del panorama britannico, certamente meno ripetitivi rispetto alle next big things d’oltremanica dello scorso decennio (ARCTIC MONKEYS, BLOC PARTY, KAISER CHIEFS).
Insomma, saranno pure stronzi, questi Kasabian, ma sanno fare tutto e bene.
11
THE WEEKND – House Of Balloons
Il progetto The Weeknd risponde al nome del cantante canadese Abel Tesfaye, di evidenti origini eritree.
Il suo mixtape di debutto è totalmente autoprodotto, ha una bellissima cover vintage ed è disponibile sul web in free download.
Uno straordinario R&B elettronico.
10
GIRLS – Father, Son, Holy Ghost
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
La band di Christopher Owens - cresciuto nella setta Children of God e poi "riscattato" da un milionario di San Francisco – replica il successo dei primi lavori con una nuova cavalcata psichedelica ed elettrica, permeata da un suono old e da un’attitudine hipster.
Una delle nuove grandi band americane.
09
MEGAFAUN - Megafaun
REAL ESTATE - Days
A completare il trionfo dell’Americana, altre due bands eccezionali.
I REAL ESTATE provano a colmare la nostra nostalgia per le chitarre jingle-jangle alla BYRDS e CSN&Y intrecciando arpeggi acustici cesellati con finezza e grande bravura.
I MEGAFAUN, dalla North Carolina, con questo disco omonimo ci regalano uno straordinario compendio enciclopedico del rock a stelle e strisce.
08
J. MASCIS - Several Shades Of Why
MASCIS esibisce una strepitosa zazzera fluente e color grigio cenere, ed è il leader dei DINOSAUR JR, band campione del noise primi anni ’90: tra i reduci di quella straordinaria stagione, ottimi anche i lavori di STEPHEN MALMKUS (ex PAVEMENT) e BILL CALLAHAN (ex SMOG).
Questo disco acustico conferma la sua ritrovata vena compositiva. Depurate dai consueti muri di chitarrone, da feedback e scariche violente di amplificatori, restano le sue melodie, piacevoli e struggenti, e la sua voce nasale, indolente, sempre piu’ clone dell’idolo di sempre, NEIL YOUNG.
07
VERDENA - Wow
I ragazzi di Albino (Bergamo) sono diventati grandi: superata la fase di sterile copiatura del modello SONIC YOUTH, danno alle stampe un mastodontico lavoro composto da ben ventisette pezzi brevi e concisi, che non annoia mai grazie a una notevole varietà (e maturità) compositiva e a continui cambiamenti di scena.
Assolutamente il disco italiano dell’anno.
06
FLEET FOXES – Helplessness Blues
Il blues della vulnerabilità è il secondo album per il combo di Seattle, una delle rivelazioni di questo scorcio di inizio millennio, e propone ancora uno straordinario folk barocco e allo stesso tempo leggero, morbido e flautato, fatto di cori e melodie ariose; solidamente ispirato al mondo hippy degli anni ’70.
05
JAMES BLAKE – James Blake
Il giovanissimo (1989) e talentuoso Dj e produttore inglese – inserito dalla BBC al secondo posto del "Sound of 2011" – spacca letteralmente con le sue basi dubstep e il suo minimalismo elettronico, mai troppo compiaciuto o sintetico, ma anzi permeato da una vena soul (è cresciuto ascoltando STEVIE WONDER, D’ANGELO e SLY & FAMILY STONE) e da una voce capace di bassi profondi e di calde intonazioni.
Il gospel come dovrebbe suonare nel XXI secolo.
04
ST. VINCENT
Annie Clark, 28 anni, utilizza un nick name preso bizzarramente in prestito dal Saint Vincent’s Catholic Medical Center, ovvero l’ospedale in cui morì il poeta Dylan Thomas – colui che ispirò lo pseudonimo a un certo ROBERT “BOB” ZIMMERMANN.
La polistrumentista texana ci regala uno dei dischi più belli e intensi dell’anno: la sua musica è tecnicamente perfetta, onirica e glaciale, grazie all’abbandono delle sovraincisioni che avevano appesantito le opere del recente passato; non mancano persino i ritornelli-killer, come nel singolo danzereccio Cruel.
03
P.J. HARVEY – Let England Shake
La dispora OASIS (Noel solista, Liam con i BEADY EYE) si traduce in musica leggera e nostalgica, i COLDPLAY si divertono a duettare con RIHANNA e sbancano le classifiche di vendita, i RADIOHEAD si sono involuti in un’elettronica minimale di classe, tuttavia ostica e monocorde.
Tra i big della scena britannica, optiamo per l’ennesimo capolavoro di Polly Jean.
Let England Shake mette d’accordo tutti, ed entra in tutti polls di fine anno.
E chi siamo noi, per lasciarlo fuori?
02
WILCO – The Whole Love
I migliori rappresentanti dell’Americana contemporanea tornano con un nuovo capolavoro per la loro neonata etichetta, dBpm.
L’apertura è eccezionale, con Art Of Almost, un funky elettrico da lasciare senza fiato, senza alcun dubbio uno dei brani dell’anno.
Dopo, si torna alla normale amministrazione WILCO.
Una normale amministrazione di altissimo livello, si intenda: da oltre 15 anni registrano dischi ispirati e ottimamente suonati.
01
BON IVER – Bon Iver, Bon Iver
Vittoria per distacco per Justin Vernon.
Non era facile dare un seguito a For Emma, Forever Ago. Si trattava di una raccolta di esili ed eteree canzoni, composte dal leader ritiratosi in un capanno isolato del Wisconsin dopo una delusione amorosa e al termine di una lunga malattia. Questo secondo album eponimo – anzi doppiamente eponimo, Vernon preferisce chiamarlo Bon Iver, Bon Iver – non cade nel tentativo di ripetere quel mood unico e irripetibile, ma invece arricchisce il loro repertorio di nuove trame, di un sound piu’ strutturato, di arrangiamenti piu’ sofisticati e orchestrali, senza però tradire gli elementi più tipici del suo stile ormai codificato: la voce in falsetto, trattata grazie all’uso del vocoder e a sovraincisioni multiple, le suggestive e malinconiche melodie a cavallo tra la tradizione folk ed emotività soul, una comunicatività unica malgrado i testi quasi incomprensibili.
Nel frattempo è infatti arrivato il successo, quello con la S maiuscola, e da lì collaborazioni illustri ed eterogenee e attestati di stima. Insomma, deve aver pensato Justin: cosa cazzo ci torno a fare in quel fottuto capanno del Wisconsin?
Siamo in presenza di un vero artista: BON IVER è – in campo musicale - la cosa piu’ bella che ci è capitata da qualche anno a questa parte.
domenica 11 dicembre 2011
Real Estate
E' quasi tempo di chiudere l'anno - basta di finirla, diceva quel tale – ed è quasi il momento di stendere la consueta playlist di fine anno; c’è ancora il tempo, tuttavia, per segnalare ai lettori alcune uscite recenti.
Da Manchester - orfana ormai da secoli dellaMadchester che fu - arrivano i Wu Lyf, acronimo per "World Unite! Lucifer Youth Foundation!”, ovvero molto di più di una semplice band: sono un centro sociale, una società di produzione, una no profit, un collettivo anarchico di artisti e graffitari.
Sound energico seppur cupo e dalle venature dark-punk, il disco piace per la sua compattezza e per una scrittura già matura, non scevra da una certa magniloquenza da musica sacra (vedi profusione di organi e cori millenaristici e/o apocalittici, a là Swans e Crime and City Solution).
In concomitanza con l’uscita di un mastodontico Greatist Hits dei R.E.M. - ce ne era proprio bisogno? Trentasette brani straordinari che ripercorrono tutta la straordinaria carriera del gruppo di Athens, e tre inediti non irresistibili: We All Go Back To Where We Belong, A Month Of Saturdays e Hallelujah (tranquilli, non è l’ennesima cover da Cohen) – i Real Estate di Matthwe Mondanile provano a colmare la nostra nostalgia per le chitarre jingle-jangle alla Byrds e CSN&Y.
Bella cover (l’argomento, ovvio, è la speculazione edilizia), arpeggi acustici - semplici e forse un poco monocordi - eppure cesellati con finezza e grande bravura.
Con il tempo, alcuni brani entrano nel cuore: Easy, It’s Real, Municipality, Wonder Years e infine la splendida Younger Than Yesterday (dicevamo dei Byrds…)
Per ultimi gli Atlas Sound, progetto collaterale di Bradford Cow, leader dei Deerhunter e figura emergente del movimento indie.
Meno rumorosi e più onirici rispetto agli autori di Halcyon Digest, uno dei dischi più incensati del 2010, propongono un folk psichedelico leggero e fluido, persino acquatico – a noi vengono in mente lo Steve Hillage di Fish Rising e certe cose dei Gong –, come suonato in apnea.
Soffice ed elegante, la colonna sonora ideale per una stressante giornata di lavoro in ufficio.
domenica 4 dicembre 2011
Bad
Il buonismo - ai tempi del governo tecnico - torna inevitabilmente alla ribalta, e fortuna che ci sono in giro ancora dei cattivi.
Come Lou Reed e i Metallica, ad esempio.
Se avete visto la copertina di alcune riviste in edicola, con quella foto in cui i nostri sfoggiano un look total black e dei ghigni da duri di periferia, un brivido avrà percorso la vostra schiena.
E che dire della cover di Lulu (ispirata da una piece teatrale composta dal tedesco Frank Wedekind oltre cento anni fa, sul girovagare sbandato di una ragazza afflitta e tossica), con un’inquietante manichino femminile dalle braccia monche e una scritta che pare fatta con il sangue?
Cattivissimi.
La strombazzata collaborazione tra i mostri sacri del metal e il leggendario ex-leader dei Velvet Underground si rivela tuttavia un album mastodontico, rumoroso, troppo; e lungo, lunghissimo; a volte inutile; spesso mortalmente noioso.
Confessiamo di non essere riusciti a completarne l’ascolto.
Un altro a essere indiscutibilmente cattivo è Tom Waits: voce rauca e aura da bohemien maledetto, abuso costante di alcol e tabacco, pessime frequentazioni.
Il suo nuovo lavoro, a quasi sette anni da Real Gone, si intitola infatti Bad As Me.
Il cantautore di Pomona non tradisce le attese.
Probabilmente non aggiunge nulla (o quasi) di nuovo al suo ormai vasto repertorio, ma è innegabile come egli sia ancora capace di affascinare e di ammaliarci con la sua musica elegante e desolata, giocando con misura ed equilibrio all’eterno dualismo - mai sopito - tra le ballate pianistiche di sconfinata dolcezza, seppur avvolte dal fumo e dalla polvere (New Year’s Eve, Kiss Me, Pay Me) e i blues sporchi, bislacchi e asimmetrici (la title-track, Hell Broke Luce e il trittico di partenza Chicago, Raised Right Man e Talking At The Same Time, che ci riporta ai capolavori degli anni Ottanta, quelli di Rain Dogs per intenderci).
Insomma: cattivo sì, ma non patetico.
sabato 19 novembre 2011
Le charts inglesi vedono la lotta tra Adele e Florence And The Machine – interessante il suo Ceremonials, nei negozi da poche settimane – ma il gentil sesso non domina solamente nel pop da classifica.
Annie Clark, 28 anni, utilizza un nick name preso bizzarramente in prestito dal Saint Vincent’s Catholic Medical Center, ovvero l’ospedale in cui morì il celebre poeta Dylan Thomas – colui che ispirò lo pseudonimo a un certo Robert “Bob” Zimmermann.
Giunta al terzo atto di una trilogia ideale (Marry Me, 2007; Actor, 2009), la polistrumentista texana non delude le attese e - con l’aiuto di preziose collaborazioni (Midlake) – ci regala uno dei dischi più belli e intensi di questo semestre, in uscita per la mitica label indipendente 4AD.
L’influenza di Bjork è evidente sin dall’opener Chloe In The Afternoon, ma in alcuni passaggi successivi (l’algida Dilettante, Surgeon) emerge una personalità originale e art-rock oriented (Peter Gabriel, Kate Bush, David Byrne); la sua musica è tecnicamente perfetta, onirica e glaciale, questo anche grazie all’abbandono degli arrangiamenti barocchi e delle sovra incisioni che avevano appesantito le opere del recente passato; non mancano persino ritornelli-killer, come nel singolo danzereccio Cruel.
Più ostico - e meno convincente - il lavoro di un’altra artista assai promettente, anch’essa one-girl-band, ovvero quella Shara Worden meglio conosciuta come My Brightest Diamond, che vanta anch’ella collaborazioni illustri (Decemberists, Clogs, l’immancabile Sufjan Stevens).
Nato su commissione, questo suo All Things Will Unwind si avvale dell’apporto dei fiati e degli archi dell’orchestra yMusic Ensemble e dovrebbe rappresentare una sorta di opera-concerto. Il suo pop da camera è raffinato e ambizioso, quasi da musical teatrale, e la sua formazione lirica emerge senza esitazioni.
Eppure, sulla lunga distanza, l’ascolto si fa difficile e la noia rischia di far capolino.
Brani come Be Brave e Reaching Through To The Other Side, tuttavia, non mancheranno per nessun motivo nelle nostre compilation di fine anno.
domenica 6 novembre 2011
Vallo a sapere, il motivo per cui i Kasabian – incensati e idolatrati in madrepatria – non godano qui da noi di buona stampa.
Forse perché fondamentalmente sono degli stronzi: atteggiamento arrogante e sfrontato da workingclass dei sobborghi e look tamarro, in particolare quello del leader Sergio Pizzorno, di origini genovesi.
Non deludere le attese dopo l’ottimo West Rider Pauper Lunatic Asylum, il loro successo planetario del 2009, non era impresa semplice.
Tuttavia questo Velociraptor conferma la band di Leicester come una delle migliori del panorama britannico, panorama peraltro oggi non entusiasmante. Certamente più bravi a non ripetersi rispetto alle tante next big things d’oltremanica dello scorso decennio (Arctic Monkeys, Bloc Party, Kaiser Chiefs).
Insomma, saranno pure stronzi, questi Kasabian, ma sanno fare tutto e bene.
Nella nuova raccolta – eclettica e zeppa di citazioni: il primo singolo Days Are Forgetten fa addirittura il verso a un monumento come Immigrant Song dei Led Zeppelin - non mancano il clubbing duro stile Prodigy (Switchblade Smiles e la title-track, forse il momento più debole insieme all’elettronica insipida di I Hear Voices), il blues-rock spavaldo tra Primal Scream e Rolling Stones (Re-wired, da non perdere il videoclip nel quale i quattro sono impegnati in un inseguimento a bordo di una Fiat 126 rossa), il brit-pop classico (Goodbye Kiss e Man Of Simple Pleasures) e i Beatles lisergici di Sgt Pepper (La Fee Verte e Neon Noon).
Ma le vere gemme dell’album sono a nostro parere due episodi dall’atmosfera vagamente orientaleggiante, ovvero l’iniziale Let’s Roll Just Like We Used To (la memoria va a Spirit e Kaleidoskope) e l’ipnotica Acid Turkish Bath (Shelter From The Storm), probabile omaggio ai grandi Chemical Brothers di The Private Psychedelic Reel.
lunedì 31 ottobre 2011
Un titolo brutto, bruttissimo.
Una copertina altrettanto brutta.
Un singolo tutto sommato innocuo, Every Teardrop is a Waterfall, che esibisce una metafora talmente immagnifica (ogni lacrima è una cascata d’acqua; ma più avanti ritroviamo anche cose del tipo "the sky is blue"), roba da Baci Perugina.
C’erano le premesse per stroncare – senza nemmeno ascoltarlo - il nuovo lavoro della band inglese, da tempo presa di mira dalla critica più alternativa e militante a causa della recente involuzione rispetto alla magia degli esordi – ricordate Trouble e Yellow? – e di una serie di imbarazzanti accuse di plagio (tra gli altri, i Kraftwerk).
Eppure.
Eppure questo disco dal titolo così brutto è un disco che vale comunque la pena ascoltare: persino il famigerato (almeno sulla carta) duetto elettrodance con la regina dello stasystem Rihanna – Princess Of China - non riesce a convincerci del contrario.
Ma.
Mylo Xyloto si apre con il breve intro della title-track, uno dei tre strumentali del lotto, e con il caleidoscopio psichedelico di Hurts Like Heaven - qui la mano di Eno si sente; ma il livello scende subito con la mediocre Paradise, che parte come un pezzo di Moby ma si rivela come il singolo perfetto da charts, e con la successiva Charlie Brown che sembra ammiccare ai Muse. Non riescono a sollevare il livello i brani tra i più tipici del loro repertorio, Major Minus e Don’t Let It Break Your Heart. Infine c’è ampio spazio per le malinconiche softs (U.F.O., Us against the World e Up In Flames, la migliore) purtroppo quasi mai al livello di quelle che le hanno precedute.
Tuttavia, Martin se ne sbatte.
Pare essersi scrollato di dosso le tensioni del post-successo mondiale e le ansie di essere considerato il più bravo (“Se qualcuno pensa che io sia un testa di cazzo, bene, che ascolti i dischi di qualcun altro. Non siamo in un regime totalitario. Nessuno è obbligato ad ascoltare i Coldplay” o anche: “Lo sappiamo, i nostri testi sono merda pura”) e tira furbescamente avanti per la sua strada, con il suo pop tecnicamente perfetto – quanti gruppi pop all’altezza dei Coldplay conoscete? – ma ormai un po’ stanco, in bilico tra la riproposizione della consueta epica alla U2 e alcune, timide, aperture alla ricerca di un nuovo sound.
Forse non resta che seguire il consiglio di Chris Martin.
Una copertina altrettanto brutta.
Un singolo tutto sommato innocuo, Every Teardrop is a Waterfall, che esibisce una metafora talmente immagnifica (ogni lacrima è una cascata d’acqua; ma più avanti ritroviamo anche cose del tipo "the sky is blue"), roba da Baci Perugina.
C’erano le premesse per stroncare – senza nemmeno ascoltarlo - il nuovo lavoro della band inglese, da tempo presa di mira dalla critica più alternativa e militante a causa della recente involuzione rispetto alla magia degli esordi – ricordate Trouble e Yellow? – e di una serie di imbarazzanti accuse di plagio (tra gli altri, i Kraftwerk).
Eppure.
Eppure questo disco dal titolo così brutto è un disco che vale comunque la pena ascoltare: persino il famigerato (almeno sulla carta) duetto elettrodance con la regina dello stasystem Rihanna – Princess Of China - non riesce a convincerci del contrario.
Ma.
Mylo Xyloto si apre con il breve intro della title-track, uno dei tre strumentali del lotto, e con il caleidoscopio psichedelico di Hurts Like Heaven - qui la mano di Eno si sente; ma il livello scende subito con la mediocre Paradise, che parte come un pezzo di Moby ma si rivela come il singolo perfetto da charts, e con la successiva Charlie Brown che sembra ammiccare ai Muse. Non riescono a sollevare il livello i brani tra i più tipici del loro repertorio, Major Minus e Don’t Let It Break Your Heart. Infine c’è ampio spazio per le malinconiche softs (U.F.O., Us against the World e Up In Flames, la migliore) purtroppo quasi mai al livello di quelle che le hanno precedute.
Tuttavia, Martin se ne sbatte.
Pare essersi scrollato di dosso le tensioni del post-successo mondiale e le ansie di essere considerato il più bravo (“Se qualcuno pensa che io sia un testa di cazzo, bene, che ascolti i dischi di qualcun altro. Non siamo in un regime totalitario. Nessuno è obbligato ad ascoltare i Coldplay” o anche: “Lo sappiamo, i nostri testi sono merda pura”) e tira furbescamente avanti per la sua strada, con il suo pop tecnicamente perfetto – quanti gruppi pop all’altezza dei Coldplay conoscete? – ma ormai un po’ stanco, in bilico tra la riproposizione della consueta epica alla U2 e alcune, timide, aperture alla ricerca di un nuovo sound.
Forse non resta che seguire il consiglio di Chris Martin.
sabato 29 ottobre 2011
Scritture pazze, 01
Vieni svegliato in piena notte da un rumore sospetto.
Ti sembra provenire dal piano di sotto.
Potrebbe essere uno scassinatore, ti chiedi mentre ancora ti stropicci gli occhi. Nell’ultima settimana hanno svaligiato già tre villette nel quartiere, un’immensa distesa di villette tutte uguali ai margini della tangenziale. Te l’ha detto il commissario, l’ahi incrociato proprio stamattina in edicola. Restate all’erta, ti ha consigliato. Ci sono un sacco di balordi in giro, oggigiorno.
Accendi la luce sul comodino e, nel farlo, travolgi il bicchiere con la dentiera di tua moglie. Cerchi di mettere le pantofole, senza trovarle.
Scendi da basso e ti acquatti dietro il paravento intarsiato del soggiorno, inutile regalo di nozze.
Ora il silenzio avvolge la casa.
Resti in attesa, osservando il quadro sopra il cassettone, quello con la cornice dorata, che raffigura tuo nonno. Che figura lugubre, con quel pastrano nero, quel naso adunco e quegli occhi dall’aspetto equino. Faceva l’orologiaio, aveva una bottega a pochi metri dalla stazione, ma così conciato sembra un impresario delle pompe funebri. Ti massaggi lo stomaco rigonfio infilandoti una mano sotto il pigiama di flanella. Ho esagerato con il pesce, ieri sera, pensi. Dovresti fare più attenzione, il gastroenterologo te l’ha detto di fare la dieta, ma come prepara il branzino il vecchio Gino non ce n’è. E quelle sardine affumicate…
Passano i minuti. Ancora nessun rumore.
Vai in cucina e ti versi un po’ d’acqua, poi cerchi l’alka seltzer nell’armadietto dei medicinali. Prima di tornare in soggiorno, ti affacci alla finestra che da sul retro, sulla rampa di autobloccanti che porta al garage.
Tutto tranquillo.
Forse ti sei sbagliato. Forse non c’è stato nessun rumore. Forse sei solo ancora rintronato dalla mangiata di ieri sera.
E allora te ne torni a letto, sbadigliando, e mentre a torni a letto inciampi nel tappeto finto persiano. Stronzo di un tappeto, mormori.
(Vocaboli: DENTIERA, COMMISSARIO, SARDINE, POMPE FUNEBRI, OROLOGIAIO)
Ti sembra provenire dal piano di sotto.
Potrebbe essere uno scassinatore, ti chiedi mentre ancora ti stropicci gli occhi. Nell’ultima settimana hanno svaligiato già tre villette nel quartiere, un’immensa distesa di villette tutte uguali ai margini della tangenziale. Te l’ha detto il commissario, l’ahi incrociato proprio stamattina in edicola. Restate all’erta, ti ha consigliato. Ci sono un sacco di balordi in giro, oggigiorno.
Accendi la luce sul comodino e, nel farlo, travolgi il bicchiere con la dentiera di tua moglie. Cerchi di mettere le pantofole, senza trovarle.
Scendi da basso e ti acquatti dietro il paravento intarsiato del soggiorno, inutile regalo di nozze.
Ora il silenzio avvolge la casa.
Resti in attesa, osservando il quadro sopra il cassettone, quello con la cornice dorata, che raffigura tuo nonno. Che figura lugubre, con quel pastrano nero, quel naso adunco e quegli occhi dall’aspetto equino. Faceva l’orologiaio, aveva una bottega a pochi metri dalla stazione, ma così conciato sembra un impresario delle pompe funebri. Ti massaggi lo stomaco rigonfio infilandoti una mano sotto il pigiama di flanella. Ho esagerato con il pesce, ieri sera, pensi. Dovresti fare più attenzione, il gastroenterologo te l’ha detto di fare la dieta, ma come prepara il branzino il vecchio Gino non ce n’è. E quelle sardine affumicate…
Passano i minuti. Ancora nessun rumore.
Vai in cucina e ti versi un po’ d’acqua, poi cerchi l’alka seltzer nell’armadietto dei medicinali. Prima di tornare in soggiorno, ti affacci alla finestra che da sul retro, sulla rampa di autobloccanti che porta al garage.
Tutto tranquillo.
Forse ti sei sbagliato. Forse non c’è stato nessun rumore. Forse sei solo ancora rintronato dalla mangiata di ieri sera.
E allora te ne torni a letto, sbadigliando, e mentre a torni a letto inciampi nel tappeto finto persiano. Stronzo di un tappeto, mormori.
(Vocaboli: DENTIERA, COMMISSARIO, SARDINE, POMPE FUNEBRI, OROLOGIAIO)
martedì 25 ottobre 2011
Pop.it 2.0
Settimana scorsa, raccontandovi dell’addio alle scene di Ivano Fossati, abbiamo accennato alla nuova scuola cantautoriale italiana.
Esiste davvero?
Proviamo allora ad ascoltare alcuni tra i più interessanti artisti emersi qui da noi negli ultimi anni.
Bugo per la verità non è per nulla una novità.
Giunto ormai all’ottavo lavoro, Cristian Bugatti – Novara, 1973; ma attualmente vive in India (Nuova Delhi) dove nel frattempo ha intrapreso una carriera parallela nel campo della videoarte e della scultura contemporanea - conferma vizi e virtù del suo recente passato.
Certo, è cresciuto molto, non è più solamente la fotocopia stramba di Beck. Lo scarno vocabolario degli inizi si è via via arricchito di accenti acid-rock, atmosfere lisergiche alla Flaming Lips (I miei occhi vedono) e persino synthpop (Mattino), senza rinunciare alla sua originalità e alla sua vena leggermente squilibrata.
Tuttavia anche stavolta l’ascolto lascia l’amaro in bocca, come un senso di incompiuta: pare insomma di trovarsi di fronte all’ennesima (grande) promessa non mantenuta fino in fondo.
Tra le tracce più convincenti l’eterea Il sangue mi fa vento, E comunque voglio te e Città cadavere; quest’ultima, poi, sembra scritta su misura per la nostra pigra e sonnolenta provincia.
(illustrazione: Alberto Madrigal)
Dario Brunori, calabrese di Cosenza, miglior esordio al Premio Ciampi del 2009, supera con “Vol. 2 - Poveri Cristi” le angosce tardo-adolescenziali del primo album per approdare a una scrittura più sicura e matura, concentrata su un iperrealismo grottesco che fa i conti con la quotidianità povera e disillusa del sud della penisola. Alcuni ritratti riusciti: Il giovane Mario, che deve fare i conti col salario - ispirata alla graffiante satira del conterraneo Rino Gaetano -, l’omaggio al padre scomparso (Bruno mio dove sei?), l’amore perduto di Tre capelli sul comò. Cameo di Dente in Il suo sorriso.
Lo stesso Dente, atteso alla prova del quarto album dopo il soprendente L'amore non è bello del 2009, si conferma sempre in bilico tra farsa e ironia: geniale e al tempo stesso demenziale, innovativo e legato alla tradizione.
Battisti, De Gregori e la poesia di Ungaretti sono i riferimenti che si sprecano nei confronti del suo lavoro, per nulla un disco difficile e inaccessibile, che scivola via - al contrario – con inusuale leggerezza. Il fidentino canta di amori impossibili (Io sono il lungo inverno e tu la bella estate, siamo rette parallele), amori finiti (L'ultimo amore non si scorda fino a che non ci pensi più) e tradimenti (Più che il destino è stata l'Adsl che vi ha unito), e si candida ad essere il menestrello degli sfigati in amore dei nostri tempi. Il singolo Saldati è leggiadra e romantica in stile La Crus, e sarebbe un hit se a cantarla fosse un big (Portami a vedere il cielo questa sera anche se è nuvolo); Piccolo destino ridicolo rimanda allo stesso Bugo, La settimana enigmatica è un blues sgangherato, Da Varese a quel paese una marcetta.
Il disco di Dente sarà presentato in anteprima nazionale al Fillmore di Cortemaggiore venerdì 28 ottobre, un'occasione da non perdere.
Esiste davvero?
Proviamo allora ad ascoltare alcuni tra i più interessanti artisti emersi qui da noi negli ultimi anni.
Bugo per la verità non è per nulla una novità.
Giunto ormai all’ottavo lavoro, Cristian Bugatti – Novara, 1973; ma attualmente vive in India (Nuova Delhi) dove nel frattempo ha intrapreso una carriera parallela nel campo della videoarte e della scultura contemporanea - conferma vizi e virtù del suo recente passato.
Certo, è cresciuto molto, non è più solamente la fotocopia stramba di Beck. Lo scarno vocabolario degli inizi si è via via arricchito di accenti acid-rock, atmosfere lisergiche alla Flaming Lips (I miei occhi vedono) e persino synthpop (Mattino), senza rinunciare alla sua originalità e alla sua vena leggermente squilibrata.
Tuttavia anche stavolta l’ascolto lascia l’amaro in bocca, come un senso di incompiuta: pare insomma di trovarsi di fronte all’ennesima (grande) promessa non mantenuta fino in fondo.
Tra le tracce più convincenti l’eterea Il sangue mi fa vento, E comunque voglio te e Città cadavere; quest’ultima, poi, sembra scritta su misura per la nostra pigra e sonnolenta provincia.
(illustrazione: Alberto Madrigal)
Dario Brunori, calabrese di Cosenza, miglior esordio al Premio Ciampi del 2009, supera con “Vol. 2 - Poveri Cristi” le angosce tardo-adolescenziali del primo album per approdare a una scrittura più sicura e matura, concentrata su un iperrealismo grottesco che fa i conti con la quotidianità povera e disillusa del sud della penisola. Alcuni ritratti riusciti: Il giovane Mario, che deve fare i conti col salario - ispirata alla graffiante satira del conterraneo Rino Gaetano -, l’omaggio al padre scomparso (Bruno mio dove sei?), l’amore perduto di Tre capelli sul comò. Cameo di Dente in Il suo sorriso.
Lo stesso Dente, atteso alla prova del quarto album dopo il soprendente L'amore non è bello del 2009, si conferma sempre in bilico tra farsa e ironia: geniale e al tempo stesso demenziale, innovativo e legato alla tradizione.
Battisti, De Gregori e la poesia di Ungaretti sono i riferimenti che si sprecano nei confronti del suo lavoro, per nulla un disco difficile e inaccessibile, che scivola via - al contrario – con inusuale leggerezza. Il fidentino canta di amori impossibili (Io sono il lungo inverno e tu la bella estate, siamo rette parallele), amori finiti (L'ultimo amore non si scorda fino a che non ci pensi più) e tradimenti (Più che il destino è stata l'Adsl che vi ha unito), e si candida ad essere il menestrello degli sfigati in amore dei nostri tempi. Il singolo Saldati è leggiadra e romantica in stile La Crus, e sarebbe un hit se a cantarla fosse un big (Portami a vedere il cielo questa sera anche se è nuvolo); Piccolo destino ridicolo rimanda allo stesso Bugo, La settimana enigmatica è un blues sgangherato, Da Varese a quel paese una marcetta.
Il disco di Dente sarà presentato in anteprima nazionale al Fillmore di Cortemaggiore venerdì 28 ottobre, un'occasione da non perdere.
domenica 23 ottobre 2011
Zanzavino, 02
Il campo dell'oratorio era allora - e lo è anche adesso - un piazzale di cemento pieno di buche e di pozzanghere, dalla forma piuttosto irregolare, vagamente trapezoidale.
Sul lato sinistro, il terreno di gioco era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla senza dover per questo interrompere il gioco, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo, questo almeno in teoria, perché la striscia di gesso era costantemente lavata dalle piogge invernali. Ci si accordava prima della partita: alle volte si decideva che era valido far rimbalzare la palla anche contro i muri in mattoni dell'alloggio del sacrestano, un uomo calvo e dal naso adunco che parlava sempre poco e camminava sempre di fretta.
Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato lì a fianco, bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Cazzo, c'era una donnetta zoppa che ci metteva un'eternità.
Le bestemmie che tiravamo.
Con buona pace del parroco, che faceva finta di non sentire.
Quando veniva buio, mandava fuori sua sorella - un'anziana e scorbutica zitella con due baffi neri così e un gigantesco neo purulento sulla punta del naso - che requisiva la palla malgrado i nostri schiamazzi.
Era quello, d'altra parte, l'unico modo per far terminare le nostre partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità, fino a che non si riusciva a vedere più nulla, fino a che non si poteva riconoscere la palla dalle scarpe di un avversario o addirittura dalle nostre stesse scarpe.
La maledivamo, quella vecchia strega.
Andassero affanculo, lei e quello stronzo del fratello prete, ci dicevamo mentre tornavamo a casa, sudati fradici e con i pantaloni nuovi sbucciati sulle ginocchia. E mica c’era il mercuriocromo: ci venivano delle croste che sembravano delle mappe geografiche.
Uno fa il prete, ci dicevamo, perché non ha voglia di fare un cazzo. O perché non è capace di fare un cazzo. Se fosse capace di fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, ci dicevamo, non sarebbe qui a dire la messa in latino per quattro babbione incartapecorite con un rosario di madreperla in mano, e a farsi insultare da un esercito agguerrito di ragazzini senza Dio.
Questo per dirvi che razza di piccoli bastardi maleducati e impertinenti eravamo.
Sul lato sinistro, il terreno di gioco era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla senza dover per questo interrompere il gioco, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo, questo almeno in teoria, perché la striscia di gesso era costantemente lavata dalle piogge invernali. Ci si accordava prima della partita: alle volte si decideva che era valido far rimbalzare la palla anche contro i muri in mattoni dell'alloggio del sacrestano, un uomo calvo e dal naso adunco che parlava sempre poco e camminava sempre di fretta.
Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato lì a fianco, bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Cazzo, c'era una donnetta zoppa che ci metteva un'eternità.
Le bestemmie che tiravamo.
Con buona pace del parroco, che faceva finta di non sentire.
Quando veniva buio, mandava fuori sua sorella - un'anziana e scorbutica zitella con due baffi neri così e un gigantesco neo purulento sulla punta del naso - che requisiva la palla malgrado i nostri schiamazzi.
Era quello, d'altra parte, l'unico modo per far terminare le nostre partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità, fino a che non si riusciva a vedere più nulla, fino a che non si poteva riconoscere la palla dalle scarpe di un avversario o addirittura dalle nostre stesse scarpe.
La maledivamo, quella vecchia strega.
Andassero affanculo, lei e quello stronzo del fratello prete, ci dicevamo mentre tornavamo a casa, sudati fradici e con i pantaloni nuovi sbucciati sulle ginocchia. E mica c’era il mercuriocromo: ci venivano delle croste che sembravano delle mappe geografiche.
Uno fa il prete, ci dicevamo, perché non ha voglia di fare un cazzo. O perché non è capace di fare un cazzo. Se fosse capace di fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, ci dicevamo, non sarebbe qui a dire la messa in latino per quattro babbione incartapecorite con un rosario di madreperla in mano, e a farsi insultare da un esercito agguerrito di ragazzini senza Dio.
Questo per dirvi che razza di piccoli bastardi maleducati e impertinenti eravamo.
martedì 18 ottobre 2011
L’addio di Ivano Fossati - al pari di quello di Antonio Cassano, ma lui tra tre anni - ha fatto parlare molto i media (“Mi sono sempre chiesto se al prossimo disco avrei potuto garantire la stessa passione che mi ha portato fino a qui. Non credo che potrei ancora fare qualcosa che aggiunga altro rispetto a quello che ho fatto fino ad ora”) e forse è una delle ragioni del successo fulmineo di questo suo nuovo lavoro, uscito nei negozi solo il 4 ottobre e già in testa alle classifiche nostrane.
Un altro è la consueta bravura del nostro, artista di classe ed eleganza quasi senza pari nel panorama triste della canzone italiana (ma aspettiamo con fiducia la riscossa dei Bugo, dei Dente, dei Brunori s.a.s….)
La decadenza apre l’album con un ritmo ballabile ma prevedibile – un po’ troppo alla Zucchero, per i nostri gusti – che dà il titolo all’album (un brutto gioco di parole), uno spietato ritratto di un paese in decadenza e apparentemente senza futuro.
Ritmo sostenuto anche per Quello che manca al mondo, un pezzo nello stile classico del cantautore genovese (“quello che mancherà al domani/è un monumento all’uguaglianza”) che tuttavia ricalca cose già sentite.
Più avanti, il disco convince sempre di più.
I bellissimi pezzi pop, quasi americani, di La sconosciuta e La normalità, intervallati dalla delicata e intensa Settembre, una storia d’amore che finisce male (“Il bene che ci siamo voluti noi due è un taxi che si ferma qui/io stavo bene nelle tue mani non avrei chiesto mai niente di più”), sono uno dei picchi della raccolta.
Raccolta che prosegue senza intoppi sino a Laura e l’avvenire (“Ora questo posto non fa più per noi / questo è un deserto di democrazia”) e alle straordinarie ballate Nella terra del vento (“Grazie per le rose d'inverno/ in un momento fiorite/ e in un giorno appassite di nuovo”) e la conclusiva Tutto questo futuro (“Eppure mi piace tutto questo futuro e anche il tempo sprecato che non vedo già più. Io e te, in mezzo al mondo, siamo un pugno di fiori. Ora passa la notte e, come senti, non piove più.”).
Grazie di tutto.
Un altro è la consueta bravura del nostro, artista di classe ed eleganza quasi senza pari nel panorama triste della canzone italiana (ma aspettiamo con fiducia la riscossa dei Bugo, dei Dente, dei Brunori s.a.s….)
La decadenza apre l’album con un ritmo ballabile ma prevedibile – un po’ troppo alla Zucchero, per i nostri gusti – che dà il titolo all’album (un brutto gioco di parole), uno spietato ritratto di un paese in decadenza e apparentemente senza futuro.
Ritmo sostenuto anche per Quello che manca al mondo, un pezzo nello stile classico del cantautore genovese (“quello che mancherà al domani/è un monumento all’uguaglianza”) che tuttavia ricalca cose già sentite.
Più avanti, il disco convince sempre di più.
I bellissimi pezzi pop, quasi americani, di La sconosciuta e La normalità, intervallati dalla delicata e intensa Settembre, una storia d’amore che finisce male (“Il bene che ci siamo voluti noi due è un taxi che si ferma qui/io stavo bene nelle tue mani non avrei chiesto mai niente di più”), sono uno dei picchi della raccolta.
Raccolta che prosegue senza intoppi sino a Laura e l’avvenire (“Ora questo posto non fa più per noi / questo è un deserto di democrazia”) e alle straordinarie ballate Nella terra del vento (“Grazie per le rose d'inverno/ in un momento fiorite/ e in un giorno appassite di nuovo”) e la conclusiva Tutto questo futuro (“Eppure mi piace tutto questo futuro e anche il tempo sprecato che non vedo già più. Io e te, in mezzo al mondo, siamo un pugno di fiori. Ora passa la notte e, come senti, non piove più.”).
Grazie di tutto.
domenica 16 ottobre 2011
sabato 15 ottobre 2011
HALLELUJAH
Qualche tempo indietro avevo postato alcuni brani immortali della storia del pop, sotto l'etichetta: Tutti i pezzi che non vorremo mai ascoltare - e che non avremmo mai voluto ascoltare - a XFactor.
La molla era stata la visione, durante un inutile zapping serale, era una di quelle sere che devi scegliere tra una replica della Bundesliga su Sky e un poliziesco già visto, di una versione atroce di Redemption Song del grande Marley.
Leggo questa cosa su Wittgenstein e mi viene voglia di riprendere il discorso.
Dal blog di Luca Sofri:
“Hallelujah” è una canzone del 1984 di Leonard Cohen, grandissimo cantautore canadese che la settimana scorsa ha compiuto 77 anni. La canzone la conoscono quasi tutti perché da un certo punto in poi si sono messi a farne cover a bizzeffe. In particolare, nel 1994, Jeff Buckley: che morì giovane nel 1997 e lasciò come firma del suo mito postumo il sospiro all’inizio della sua bellissima versione di “Hallelujah” (a sua volta ripresa da un adattamento di John Cale). Da lì iniziò la seconda vita più popolare della canzone – fino ad allora confinata all’apprezzamento dei fans del vecchio e tenebroso Cohen – che la portò ai posti alti delle classifiche di vendita, nelle cerimonie inaugurali delle Olimpiadi, dentro Shrek, e in mille e mille sfruttamenti e riproduzioni, fino a entrare negli avvilenti repertori dei talent show.
Tanto che qualche giorno fa David Daley del sito Salon ha scritto dell’”uso criminale” di “Hallelujah” dopo aver assistito alla versione dell’improbabile gruppo dei “Canadian Tenors” alla serata di premiazione degli Emmy, e ha ricordato come lo stesso Cohen abbia detto un paio d’anni fa che “la canzone è bella ma forse l’hanno cantata un po’ in troppi”. Daley si è associato a Cohen nel chiedere una moratoria, e soprattutto ha ricordato che malgrado la successiva trasformazione in svenevolezza da boy band o da raduno di preghiera, Buckley la canzone la spiegava così: “Chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul sesso, sull’amore e sulla vita terrena. Non è un hallelujah per una fede, un idolo o un dio, ma l’hallelujah dell’orgasmo”.
La molla era stata la visione, durante un inutile zapping serale, era una di quelle sere che devi scegliere tra una replica della Bundesliga su Sky e un poliziesco già visto, di una versione atroce di Redemption Song del grande Marley.
Leggo questa cosa su Wittgenstein e mi viene voglia di riprendere il discorso.
Dal blog di Luca Sofri:
“Hallelujah” è una canzone del 1984 di Leonard Cohen, grandissimo cantautore canadese che la settimana scorsa ha compiuto 77 anni. La canzone la conoscono quasi tutti perché da un certo punto in poi si sono messi a farne cover a bizzeffe. In particolare, nel 1994, Jeff Buckley: che morì giovane nel 1997 e lasciò come firma del suo mito postumo il sospiro all’inizio della sua bellissima versione di “Hallelujah” (a sua volta ripresa da un adattamento di John Cale). Da lì iniziò la seconda vita più popolare della canzone – fino ad allora confinata all’apprezzamento dei fans del vecchio e tenebroso Cohen – che la portò ai posti alti delle classifiche di vendita, nelle cerimonie inaugurali delle Olimpiadi, dentro Shrek, e in mille e mille sfruttamenti e riproduzioni, fino a entrare negli avvilenti repertori dei talent show.
Tanto che qualche giorno fa David Daley del sito Salon ha scritto dell’”uso criminale” di “Hallelujah” dopo aver assistito alla versione dell’improbabile gruppo dei “Canadian Tenors” alla serata di premiazione degli Emmy, e ha ricordato come lo stesso Cohen abbia detto un paio d’anni fa che “la canzone è bella ma forse l’hanno cantata un po’ in troppi”. Daley si è associato a Cohen nel chiedere una moratoria, e soprattutto ha ricordato che malgrado la successiva trasformazione in svenevolezza da boy band o da raduno di preghiera, Buckley la canzone la spiegava così: “Chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul sesso, sull’amore e sulla vita terrena. Non è un hallelujah per una fede, un idolo o un dio, ma l’hallelujah dell’orgasmo”.
giovedì 13 ottobre 2011
Zanzavino, 02
Calcisticamente parlando, sono cresciuto nel vivaio della Bolide, mitica squadra della parrocchia di San Savino.
Ma i primi calci li ho tirati al campo dell’oratorio.
Detto “Zan Zavino” per via di un tipo che frequentava il Bar Sport, il Bar Sport era quasi di fronte all’ingresso dell’oratorio, e che ogni tanto faceva irruzione nel campetto di cemento con la sua Ritmo color azzurro zucchero - paraurti in tinta carrozzeria e antenna parabolica sul cofano – e urlava, urlava verso di noi piccoli sfigati coi pantaloni lisi e le ginocchia sbucciate, noi piccoli sfigati che tiravamo i primi calci al pallone di gomma tipo elite:
Eccoli qui, Zan Zavino!
Diceva Zan Zavino per via di un difetto di pronuncia della “S” assai marcato.
Le prime volte incuteva timore, aveva diversi anni più di noi ed era considerato un duro, ma poi aveva preso l’abitudine di fermarsi a giocare anche lui: gli piaceva vincere facile.
Fece una brutta fine, quel tipo.
Una notte d'inverno andò a finire in una scarpata con la sua Ritmo in uno di quei curvoni assurdi che ci sono poco dopo il ponte sul Po, appena dopo l’Auchan, che poi allora l’Auchan non c’era, non c’erano proprio i centri commerciali, e la roba la si comprava ancora nei negozi.
Per dire: nella mia via c’erano ben due fruttivendoli, a distanza di trenta metri uno dall’altro. Poi c’era un rivenditore di elettrodomestici, caro come il sangue, un fotografo, la parrucchiera, il negozio di fiori, una latteria incommensurabilmente triste, tre sorelle che vendevano il pane – tutte tre zitelle acide antipatiche e attaccate al soldo: o forse una era sposata, non si è mai saputo con certezza – poi l’alimentari sotto casa mia che vendeva le focaccine tonde a sessanta lire e appunto il Bar Sport.
Il Bar Sport c’è anche adesso.
Attorno al Bar Sport adesso resiste solo la parrucchiera, e forse il fotografo qualche volta tiene aperto.
Adesso ci sono due o tre kebab, un take away pakistano, gestito da un uomo elegante che parcheggia sempre un Mercedes coupè sul marciapiede sull’altro lato della strada, un centro massaggi con l'arredamento minimal-giapponese - le canne di bambù i sassi bianchi e tutte quelle ciotole del cazzo, non servono mai a un cazzo quelle ciotole - e un call center con transfer money in Ecuador o Romania, una lavanderia a gettone, una copisteria e qualche vetrina sfitta.
L’oratorio c’è ancora.
Ma i primi calci li ho tirati al campo dell’oratorio.
Detto “Zan Zavino” per via di un tipo che frequentava il Bar Sport, il Bar Sport era quasi di fronte all’ingresso dell’oratorio, e che ogni tanto faceva irruzione nel campetto di cemento con la sua Ritmo color azzurro zucchero - paraurti in tinta carrozzeria e antenna parabolica sul cofano – e urlava, urlava verso di noi piccoli sfigati coi pantaloni lisi e le ginocchia sbucciate, noi piccoli sfigati che tiravamo i primi calci al pallone di gomma tipo elite:
Eccoli qui, Zan Zavino!
Diceva Zan Zavino per via di un difetto di pronuncia della “S” assai marcato.
Le prime volte incuteva timore, aveva diversi anni più di noi ed era considerato un duro, ma poi aveva preso l’abitudine di fermarsi a giocare anche lui: gli piaceva vincere facile.
Fece una brutta fine, quel tipo.
Una notte d'inverno andò a finire in una scarpata con la sua Ritmo in uno di quei curvoni assurdi che ci sono poco dopo il ponte sul Po, appena dopo l’Auchan, che poi allora l’Auchan non c’era, non c’erano proprio i centri commerciali, e la roba la si comprava ancora nei negozi.
Per dire: nella mia via c’erano ben due fruttivendoli, a distanza di trenta metri uno dall’altro. Poi c’era un rivenditore di elettrodomestici, caro come il sangue, un fotografo, la parrucchiera, il negozio di fiori, una latteria incommensurabilmente triste, tre sorelle che vendevano il pane – tutte tre zitelle acide antipatiche e attaccate al soldo: o forse una era sposata, non si è mai saputo con certezza – poi l’alimentari sotto casa mia che vendeva le focaccine tonde a sessanta lire e appunto il Bar Sport.
Il Bar Sport c’è anche adesso.
Attorno al Bar Sport adesso resiste solo la parrucchiera, e forse il fotografo qualche volta tiene aperto.
Adesso ci sono due o tre kebab, un take away pakistano, gestito da un uomo elegante che parcheggia sempre un Mercedes coupè sul marciapiede sull’altro lato della strada, un centro massaggi con l'arredamento minimal-giapponese - le canne di bambù i sassi bianchi e tutte quelle ciotole del cazzo, non servono mai a un cazzo quelle ciotole - e un call center con transfer money in Ecuador o Romania, una lavanderia a gettone, una copisteria e qualche vetrina sfitta.
L’oratorio c’è ancora.
sabato 8 ottobre 2011
Sono i riconosciuti rappresentanti dell’Americana contemporanea, ovvero quel genere che pesca piene mani nella tradizione U.S.A. e che qui da noi ha conosciuto grande fortuna in passato grazie a riviste come Il Mucchio Selvaggio e L’Ultimo Buscadero (ovvero i titoli di due film di Peckinpah).
Gli Wilco di Jeff Tweedy tornano con un nuovo lavoro per la loro neonata etichetta, dBpm.
L’apertura è eccezionale, con Art Of Almost, un funky elettrico che lascia senza fiato.
Con I Might, primo singolo estratto dall’album, si torna alla normale amministrazione Wilco. Una normale amministrazione di alto livello, si intenda: da oltre 15 anni registrano dischi ispirati e ottimamente suonati. Tuttavia, il grande successo non è mai arrivato, vuoi per le loro facce da brava gente, per un atteggiamento poco da mainstream e anche perché non hanno mai centrato il ritornello pop giusto, quello che per intenderci è riuscito ai R.E.M.
Pregevoli sono il power-pop di Dawned On Me, il crepuscolo di Black Moon e Rising Red Lung, il vaudeville di Capitol City, la conclusiva One Sunday Morning, dolce e intenso trattato sul rapporto tra padre e figlio.
Tra gli allievi di cotanti maestri, fanno parlare di sé i Megafaun dalla North Carolina.
A dire il vero, altro riferimento è Bon Iver (State Meant), anche solo per questioni geografiche. E gli Okkervil River (You Are The Light).
Questo disco omonimo – scelta inusuale per quella che è la loro terza prova sulla lunga distanza– è un vero piacere: si sentano l’iniziale Real Slow, Resurection e Second Friend.
Ancora disagi nel piacentino per colpa dell’ormai celebre tunnel dei neutrini, fortemente voluto dal Ministro dell’Istruzione Gelmini. Com’è noto, l’arditissima infrastruttura - che collega il CERN di Ginevra ai rilievi del Gran Sasso – insiste anche nel nostro territorio, anche se nessuno conosce con certezza il suo tracciato esatto.
Tuttavia, da tempo alcuni cittadini lamentano scosse di tipo tellurico alle loro abitazioni: in molti casi si è verificata l’apertura di crepe e fessurazioni, anche di dimensioni significative. Le autorità indagano.
In zona Sant’Antonio, inoltre, i cani passano la notte con il muso rivolto verso il selciato, abbaiando e latrando, con ovvie ricadute sulla quiete pubblica.
Il caso più clamoroso, poi, avviene al Capitolo, dove una coppia di anziani non riceve più il segnale di Rai e Mediaset, ed è costretta – tutte le sere - a guardare Capodistria, oppure “Scacciapensieri” sulla tv svizzera.
Tuttavia, da tempo alcuni cittadini lamentano scosse di tipo tellurico alle loro abitazioni: in molti casi si è verificata l’apertura di crepe e fessurazioni, anche di dimensioni significative. Le autorità indagano.
In zona Sant’Antonio, inoltre, i cani passano la notte con il muso rivolto verso il selciato, abbaiando e latrando, con ovvie ricadute sulla quiete pubblica.
Il caso più clamoroso, poi, avviene al Capitolo, dove una coppia di anziani non riceve più il segnale di Rai e Mediaset, ed è costretta – tutte le sere - a guardare Capodistria, oppure “Scacciapensieri” sulla tv svizzera.
domenica 2 ottobre 2011
La notizia (brutta) è l’abbandono delle scene da parte dei R.E.M..
La favolosa band di Athens si scioglie dopo 31 anni di successo e gloria: «Ai nostri fan e ai nostri amici. Come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band. Ce ne andiamo con grande senso di gratitudine, di compiutezza, e di stupore per tutto ciò che abbiamo realizzato. A chiunque sia mai stato toccato dalla nostra musica va il nostro più profondo ringraziamento per averci ascoltato».
Nulla da aggiungere alle belle parole del comunicato online.
Life goes on, e quindi ecco una strana coppia dalla California, Stephen Malkmus e Beck Hansen, a sollevarci il morale – e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno, in tempi così bui.
Il primo è l’ex-leader dei Pavement, gruppo seminale del noisy degli anni ’90. Mirror Traffic è la sua quinta opera solista – come sempre accompagnato dai Jicks – con la quale finalmente riesce a ripetere, seppur in parte, i fasti degli esordi (assai meglio di Primus e Meat Puppets, i cui recenti ritorni non lasciano traccia alcuna); il secondo è il sempre-sia-lodato autore di Loser, uno dei primi a tentare un crossover tra alternative rock, folk, blues e addirittura hip hop.
L’attitudine lo-fi dei due fa capolino anche in questo lavoro: il quarantacinquenne Malkmus ci ha abituato, infatti, a una svagata imperfezione, a una certa approssimazione studiata a tavolino; un Beck ormai maturo, tuttavia, lo aiuta a contenere la sua attitudine sgangherata e a far emergere la sua vena cantautoriale e la melodia.
50 minuti di quasi pop – come recitano le note di copertina – di ottimo livello, tra i quali scegliere il singolo Tigers, poi Stick Figures In Love, Forever 28 e le ballate in chiave alt country Share The Red e No One Is (As Are I Be), oltre alla corrosiva Senator (“I know what the senator wants is a blow job”: sembrerebbe parlare di certi politici italiani…)
La favolosa band di Athens si scioglie dopo 31 anni di successo e gloria: «Ai nostri fan e ai nostri amici. Come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band. Ce ne andiamo con grande senso di gratitudine, di compiutezza, e di stupore per tutto ciò che abbiamo realizzato. A chiunque sia mai stato toccato dalla nostra musica va il nostro più profondo ringraziamento per averci ascoltato».
Nulla da aggiungere alle belle parole del comunicato online.
Life goes on, e quindi ecco una strana coppia dalla California, Stephen Malkmus e Beck Hansen, a sollevarci il morale – e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno, in tempi così bui.
Il primo è l’ex-leader dei Pavement, gruppo seminale del noisy degli anni ’90. Mirror Traffic è la sua quinta opera solista – come sempre accompagnato dai Jicks – con la quale finalmente riesce a ripetere, seppur in parte, i fasti degli esordi (assai meglio di Primus e Meat Puppets, i cui recenti ritorni non lasciano traccia alcuna); il secondo è il sempre-sia-lodato autore di Loser, uno dei primi a tentare un crossover tra alternative rock, folk, blues e addirittura hip hop.
L’attitudine lo-fi dei due fa capolino anche in questo lavoro: il quarantacinquenne Malkmus ci ha abituato, infatti, a una svagata imperfezione, a una certa approssimazione studiata a tavolino; un Beck ormai maturo, tuttavia, lo aiuta a contenere la sua attitudine sgangherata e a far emergere la sua vena cantautoriale e la melodia.
50 minuti di quasi pop – come recitano le note di copertina – di ottimo livello, tra i quali scegliere il singolo Tigers, poi Stick Figures In Love, Forever 28 e le ballate in chiave alt country Share The Red e No One Is (As Are I Be), oltre alla corrosiva Senator (“I know what the senator wants is a blow job”: sembrerebbe parlare di certi politici italiani…)
mercoledì 28 settembre 2011
Prima che lui dica bah
Il ghiro è tornato.
Alle prime luci dell’alba, puntuale, inizia a rovistare nel sottotetto facendo un casino pazzesco e svegliandoci inesorabilmente.
E’ la sua stagione.
Saggezza popolare dice – che poi qui in paese i vecchi saggi iniziano a farsi dei bianchi alle sei del mattino e quando sono solo le undici più che saggi sono pieni marci – che sta facendo provviste per il lungo e gelido inverno che lo/ci attende. Pare che stia mettendo insieme una scorta di noci per tre-quattro mesi di letargo.
Astuto.
Astuto e coraggioso.
La pianta del noce dista almeno dieci metri dal tetto di casa mia, e l’unico collegamento tra di essi è un vecchio cavo del telefono posto a circa sei metri d’altezza. Me lo vedo, quel figlio di puttana, camminare sul filo come un equilibrista trascinando con sé - sospesa sopra la testa? - una noce ancora avvolta dal mallo.
Un lavoraccio, cazzo.
Resta il fatto che casino fa casino, che siano le noci che mette via o - se la saggezza popolare è solo leggenda - che si accontenti di rosicchiare le lastre di poliuretano espanso o le cantinelle di abete grezzo della copertura.
La reazione c'è stata, ed è stata dura. Dura e decisa.
L’altro ieri ho scagliato sul tetto una dozzina almeno di esche velenose, potentissime: una di quelle è in grado di squarciargli lo stomaco in pochi minuti e - prima che lui dica bah - polverizzargli poi tutti gli organi vitali. Brutta fine. Roba da pazzi sadici, lo ammetto. Ma è una guerra senza esclusione di colpi.
Tanto non ottengo alcun effetto.
Ci credo, Cristo, sono bustine dall’inquietante color azzurrognolo, davvero non si vede perché lo stronzo dovrebbe essere attratto da quella roba così sgargiante e un tantino psichedelica. A meno che non sia un ghiro tossico, un ghiro dal sorriso sdentato e appassionato di trip lisergici e pasticche colorate varie.
La verità, dicono sempre i vecchi saggi, è che non bisogna toccare le esche con le mani, così facendo i piccoli bastardi di roditori – che siano topi o ghiri – sentono l’odore dell’umano e non si lappano l’inquietante bustina dal colore azzurrognolo.
Dunque dovrò riprovare usando i guanti di lattice, come un infermiere, e magari una fionda artigianale per arrivare più in lato sul tetto.
Che poi, a pensarci bene, a un ghiro così astuto e coraggioso ci sarebbe da pagargli un bianchino, quell’ortrugo ormai sgasato per via del tappo di plastica che una volta si usava per le bottiglie della minerale, altro che esche velenose.
sabato 24 settembre 2011
La leggenda dei Jethro Tull e di Ian Anderson ha inizio, nel nostro paese, nel febbraio del 1971.
L’Italia è in quel periodo terra di conquista per gli alfieri del cosiddetto progressive rock britannico, nelle sue varie declinazioni: dal filone sinfonico/classico (Yes, EL& P, Gentle Giant, Procul Harum) a quello più politicamente impegnato e con venature jazzy (King Crimson, Family); anche se, in generale, Woodstock è lontana - le manifestazioni studentesche anche - e il si vive un periodo di riflusso che culminerà negli anni di piombo.
Numerosi rappresentanti del genere – tra i migliori i primi Genesis di Peter Gabriel, i Van der Graaf Generator di Peter Hammill e i King Crimson di Robert Fripp – fecero molta fatica ad affermarsi in casa propria, e tuttavia il loro teatro barocco e artistoide, fatto di tastiere e complessi arrangiamenti orchestrali, in poco tempo sbancò le charts in Svizzera, Belgio, Olanda e Italia, dando vita tra l’altro a una fioritura di ottimi gruppi nostrani (da noi Il Banco del Mutuo Soccorso, Il Rovescio della Medaglia, Le Orme e – con sfumature diverse – band storiche come la Premiata Forneria Marconi e gli Area di Demetrio Stratos).
Il primo febbraio 1971 i Tull suonano, per la prima volta in Italia, al Teatro Smeraldo di Milano, davanti a 4.000 fans rapiti ed estasiati.
Sino ad allora, erano usciti tre album - This Was (1968), Stand Up (1969) e Benefit (1970) – che avevano suscitato l’interesse di un pubblico ancora ristretto e che restavano, tutto sommato, nel campo blues-rock.
Nonostante il fumo dei lacrimogeni e gli scontri, all’esterno del teatro, tra gruppi di autonomi e forze dell’ordine, la serata milanese si rivela un autentico trionfo per la band di Blackpool.
Al centro dell’attenzione di tutti, ovviamente, il leader Ian Anderson e il suo piffero magico – è un flauto traverso - e il suo look eccentrico: pastrano a scacchi, fuseau neri e stivali scamosciati e stringati.
Il concerto si apre con una versione acustica di My God, uno dei vertici della loro carriera e uno dei pezzi trainanti del nuovo album Aqualung - che ancora non è uscito nei negozi per l’etichetta Chrysalis - ovvero la storia drammatica ed aspra di un clochard (il barbone raffigurato sulla celebre copertina assomiglia molto allo stesso Anderson) in un contesto urbano squallido e assai degradato, popolato da ladri e puttane ("Sitting on a park bench, eyeing little girls with bad intent"): la mini-suite non è altro che l’ultimo rantolo rabbioso di Aqualung in punto di morte, e contiene guidizi sarcastici e sprezzanti nei confronti della "sanguinosa Chiesa d'Inghilterra”: The bloody Church of England in chains of history requests your earthly presence at the vicarage for tea.
I nuovi brani vengono eseguiti da una band in autentico stato di grazia: lunghe cavalcate con improvvisi cambiamenti di scena e di ritmo, sfrenate jam intervallate da intervalli acustici: la straordinaria Locomotive Breath e Cross-Eyed Mary, oltre naturalmente alla title-track, il ritratto proletario di Up To Me e la sarcastica Hymn 43, e poi il repertorio tratto dalle opere precedenti: Nothing is Easy, Bouree e Jeffrey Goes To Leicester Squeare. Il live-asct si conclude con una strepitosa versione di Wind Up, altro atto di accusa nei confronti di Dio ("He’s not the kind you have to wind up on Sundays/Non è il caso disturbarlo di Domenica")
Quello dei Jethro Tull è un prog assolutamente atipico, capace com’è di amalgamare l’hard-rock degli Zeppelin – il riff di chitarra di Acqualung è uno dei riff definitivi della storia del rock – con la classica e con il jazz, ma in primo luogo con il folk e la grande tradizione blues: l’attaccamento alla radici è testimoniato anche dall’incoinsueta scelta del nome, ispirata dal pioniere della moderna agricoltura, l'agronomo Jethro Tull (1674-1741).
Dopo Aqualung verranno altri ottimi lavori – il concept album Thick As A Brick (1972) e altri episodi minori; insomma, quello fu il momento magico, e dopo quel momento nulla fu come prima.
martedì 20 settembre 2011
C’era la Swinging London degli anni Sessanta.
Le minigonne.
I Beatles e gli Stones.
C’erano le epiche battaglie tra Rockers e Mods.
E pensare che noi trenta-quarantenni ci siamo dovuti accontentare dei litigi tra i fratelli Gallagher (sic!) o di qualche loro scazzo con Albarn, ovvero ciò che la Cool Britannia dell’epoca Blair ci ha saputo offire.
Ma il bel volume di Eleonora Bagarotti sugli Who – ovvero: Pete Townshend (chitarra), Roger Daltrey (voce), John Entwistle (basso) e Keith Moon (batteria) - edito recentemente da Arcana, oltre e a restituire l’atmosfera vibrante della Swinging London, passa meticolosamente in rassegna tutti i testi della storica band britannica, aggiungendo alle traduzioni anche una serie di commenti e di aneddoti che ci fanno entrare nel loro mondo e che si rivelano assai utili al fine di svelare la genesi delle canzoni.
In alcuni casi, contribuisce persino a smitizzare gli inni (o anti-inni) generazionali degli esordi, da I Can’t Explain alla celeberrima My Generation, senza tuttavia sminuirne la portata storica (“già solamente con questo brano”, scrive la Bagarotti riferendosi alla seconda, “gli Who hanno impresso un’indelebile orma sulla vetta del mondo musicale”).
Troppi significati sono stati dati a My Generation, lamenta infatti Townsend, che precisa: “è una canzone contro l’ipocrisia e il perbenismo. Due atteggiamenti che ho sempre detestato”.
Resta il fatto che, chiosa Eleonora, in un’era che ancora risentiva dei coretti beat e in cui Beatles e Stones erano alle prese con storie d’amore, il balbettio di Daltrey, la furia della band e versi come: “La gente cerca di metterci sotto/solo perché ce ne andiamo in giro/Le cose che fanno sono terribilmente fredde/spero di morire prima di diventare vecchio”, non potevano non scatenare un immediato effetto di immedesimazione in tantissimi ragazzi, che vi videro il riflesso del proprio malessere.
Il lavoro ripercorre le varie tappe della carriera degli Who dedicando spazio, ovviamente, al primo concept-album, The Who Sell Out (1967), che imita le trasmissioni di una radio pirata, con stacchi pubblicitari compresi: celebre quello degli Heinz Baked Beans, già omaggiati da Warhol dalla Pop Art.
E ovviamente alle due rock-opera Tommy (1969) – chi scrive è particolarmente affezionato alla storia del bambino cieco, sordo e muto che diventa un campione di flipper, avendo visto il film per la prima volta al cinema Jolly quando aveva solo dieci anni, accompagnato dal fratello maggiore (chissà cosa gli stava passando in testa?) - e Quadrophenia (1973), sull’epopea Mods.
Tra i nostri must, Baba O’Riley, ovvero uno dei brani forti di Who’s Next (1971), forse l’album più celebrato.
Com’è noto, si voleva omaggiare lo spiritualismo di Meher Baba e al contempo celebrare uno dei musicisti che piu’ avevano influenzato la band: Terry Riley, padre del minimalismo. Meno noto è il processo creativo – piuttosto casuale – alla base del leggendario intro di synth, che apprendiamo dalle pagine di questo prezioso volume tramite la ricostruzione di Townsend: “Ho scritto il brano mentre stavo giocando a fare sperimentazioni con i nastri e il sintetizzatore. C’era l’idea di scegliere una persona tra il pubblico e chiederle informazioni personali – altezza, peso, segno zodiacale – e metterli nel sintetizzatore. Il mio progetto era tradurre un essere umano in musica. Nella canzone ho programmato i dettagli della vita di Meher Baba, e il risultato è diventato il tema iniziale e di sottofondo di Baba O’Riley”.
Discorso analogo per il ritornello – It’s only teenage wasteland/E’ solo un deserto di adolescenti – che è nato riprendendo una frase di un fotografo a un roadie della band, intento a raccogliere un mare di rifiuti dopo un concerto all’Isola di Wight.
Più arduo invece fare chiarezza sul vero significato di Won’t Get Fooled Again (più o meno: non ci prenderete più per il culo), ovvero il testo più discusso e chiacchierato della loro lunga carriera. Spesso etichettato come un brano reazionario - per il rifiuto di Townsend di fare la rivoluzione, per l’atmosfera disillusa lontana anni luce dall’idealismo hippie, e anche per il suo epilogo di marca orwelliana: ”ti presento il nuovo padrone/è uguale al vecchio” - è stato tuttavia adottato dagli operai inglesi durante le loro rivendicazioni sindacali. “Tutti a dirmi che dovevamo avere un ruolo politico, di combattere il capitalismo e finanziare certe comunità (Townsend aveva dovuto subire pesanti critiche per aver allontanato in malo modo Abbie Hofmann, attivista politico di sinistra, che era salito sul palco a Woodstock interrompendo l’esibizione dei Who). Con quella canzone volevo solo dire alle persone che mi dicevano cosa fare: andatevene a fare in culo!”, ammette oggi Townsend. Che, in tempi recenti, ha negato a Michael Moore l’utilizzo del brano per la soundtrack di Farenheit 9/11 e, ai laburisti che gli hanno chiesto di poterlo utilizzare in campagna elettorale, ha risposto: “Sì, ma solo se mi permettete di cambiare tutti i versi”.
Un’ultima cosa, un consiglio per i neofiti degli Who: andate a cercarvi una copia di Live At Leeds, 1970, uno dei piu’ grandi dischi migliori di sempre, nell’edizione deluxe.
Per alcuni critici il migliore di sempre: una scaletta da brividi e un’esecuzione secca e potente, ineguagliabile.
John/Jack Frusciante è di nuovo uscito dal gruppo – stavolta a Enrico Brizzi importa poco, impegnato com’è nei suoi pellegrinaggi laici sulla Via Francigena – ma il gruppo ha deciso di continuare. Sostituito l’ormai ex-figliol prodigo con il trentenne Josh Klinghoffer, già nella line-up della band californiana durante l’ultima tournee e un viso da sbarbatello che poco si addice a quei vecchi figli di puttana dei suoi nuovi compagni di viaggio, dopo cinque anni di silenzio manda alle stampe un nuovo album, presentato in anteprima il 30 agosto a Colonia con un live-act ripreso in alta definizione e trasmesso in oltre 900 sale cinematografiche di tutto il mondo. Bizzarrie del marketing.
Un’ora abbondante di funky e pop, non particolarmente ispirato, assai lontano dalla furia sfrontata degli esordi e forse nemmeno dettato da un’urgenza incontenibile; preciso e patinato, maybe per colpa di un Rubin da sempre in cabina di regia (è pur sempre garanzia di una continuità con il passato illustre); anche se, tutto sommato, I’m With You suona meno anonimo e piatto del precedente Stadium Arcadium.
Tra i quattordici pezzi della raccolta, un posto di primo piano spetta ai ritornelli facili e ruffiani e però irresistibili – “il mitico ritornello, che poi è sempre lo stesso e che non lascia neanche più disorientati o peggio schifati, tanto poi ti ritrovi a cantarlo mentre ti fai la barba”, scrive Ondarock.it – come in Factory Of Faith, Ethiopia o nel singolo The adventures of Rain Dance Maggie, già in heavy rotation su MTV e Virgin Radio.
Ma le cose migliori – in mezzo a parecchi episodi senza storia - sono a nostro giudizio le ballate Police Station e Brendan’s death song, dedicata ad un amico del gruppo recentemente scomparso, proprietario del LA Nightclub che fece praticamente esordire la band, e la beatlesiana, pianistica, Happiness Love Company.
martedì 6 settembre 2011
La lunga pausa estiva consente al recensore di tirare un po’ il fiato e anche di recuperare alcuni dischi usciti nella prima metà dell’anno e inevitabilmente – datane l’immensa mole - sino a ora trascurati. E’ innegabile, infatti, che le nuove tecnologie e il trionfo del web abbiano provocato (o accelerato) l’attuale crisi del mercato discografico; il rovescio della medaglia è che la possibilità di far ascoltare facilmente il proprio lavoro a un gran numero di persone sparse per il mondo incentiva e stimola un’enorme e costante diffusione di bands e artisti di interesse.
Tra essi, gli Wild Beasts arrivano da Kendal, profondo Galles, e suonano un pop sensuale ed elegante, a volte persino un po’ stucchevole, di chiara ispirazione romantic rock. Degna di nota la performance del cantante Hayden Thorpe: la sua voce da tenore è sempre in primo piano. Albatross come primo singolo è una scelta poco felice, noi preferiamo Loop the Loop e la conclusiva End Come Too Soon.
In ambito indie-folk, segnaliamo le nuove uscite per Leisure Society e Dodos.
I primi sono da tempo attivi nel Wilkommen Collective, la "comune musicale" di stampo progressista e new-hippy della scena di Brighton, e con il loro secondo lavoro (“Nell’acqua scura”) aprono il campo a sonorità piu’ ariose e ad arrangiamenti piu’ complessi; ottima la title-track, accompagnata dall’ukulele.
I secondi, californiani di San Francisco, con No Color (c’è una strana affinità tra i titoli di questi album…) ripropongono la loro consolidata ricetta, un folk corale dolce e umorale che si rivelerà – ne siamo certi - un’ottima colonna sonora per l’autunno che incombe.
Per ultimi i Luup, ovvero un collettivo sorto attorno al flautista greco Stelios Romaliadis che ha stregato gran parte della critica e che può vantare una serie infinita di illustri collaboratori. E’ un disco difficile, un ambient di stampo cameristico che lascia poco spazio alla melodia; i “rituali del pascolo”, assai flebili, suonano allo stesso tempo sinistri e magici.
Ci vorrà del tempo per digerirli.
Tra essi, gli Wild Beasts arrivano da Kendal, profondo Galles, e suonano un pop sensuale ed elegante, a volte persino un po’ stucchevole, di chiara ispirazione romantic rock. Degna di nota la performance del cantante Hayden Thorpe: la sua voce da tenore è sempre in primo piano. Albatross come primo singolo è una scelta poco felice, noi preferiamo Loop the Loop e la conclusiva End Come Too Soon.
In ambito indie-folk, segnaliamo le nuove uscite per Leisure Society e Dodos.
I primi sono da tempo attivi nel Wilkommen Collective, la "comune musicale" di stampo progressista e new-hippy della scena di Brighton, e con il loro secondo lavoro (“Nell’acqua scura”) aprono il campo a sonorità piu’ ariose e ad arrangiamenti piu’ complessi; ottima la title-track, accompagnata dall’ukulele.
I secondi, californiani di San Francisco, con No Color (c’è una strana affinità tra i titoli di questi album…) ripropongono la loro consolidata ricetta, un folk corale dolce e umorale che si rivelerà – ne siamo certi - un’ottima colonna sonora per l’autunno che incombe.
Per ultimi i Luup, ovvero un collettivo sorto attorno al flautista greco Stelios Romaliadis che ha stregato gran parte della critica e che può vantare una serie infinita di illustri collaboratori. E’ un disco difficile, un ambient di stampo cameristico che lascia poco spazio alla melodia; i “rituali del pascolo”, assai flebili, suonano allo stesso tempo sinistri e magici.
Ci vorrà del tempo per digerirli.
mercoledì 27 luglio 2011
martedì 12 luglio 2011
Si avvicina il meritato riposo estivo per la nostra rubrica settimanale di recensioni in ambito pop-rock, ed è tempo di fare un primo bilancio.
Il 2011 ci ha regalato sinora un discreto numero di buoni dischi, soprattutto tra gli esordienti - la globalizzazione e il web garantiscono maggiori possibilità di farsi conoscere ed emergere, e dunque ogni mese arrivano decine di proposte interessanti da ogni spigolo del mondo (noi, si sa, prediligiamo la scuola anglosassone: è uno dei nostri limiti) – e nessun disco epocale: i nostri favoriti, per ora, sono Bon Iver, James Blake e Iron&Wine; in Italia, i Verdena hanno dato alle stampe un piccolo (!, quasi due ore di musica…) capolavoro.
Nell’augurare a tutti i lettori un’estate serena e ricca di emozioni, PiacenzaSera vi consiglia una sorta di compilation con il meglio – a nostro umile giudizio - del primo semestre dell’anno in corso.
Questi i pezzi, in rigoroso ordine alfabetico.
$20 - LOW
All The Eastern Girl – CHAPEL CLUB
Billy Budd – VINICIO CAPOSSELA
Blood Bank – LOCH LOMOND
Chinatown - DESTROYER
Dead Guitars – SEEFEEL
Desire – ANNA CALVI
Don’t Carry At All - DECEMBERISTS
Far From Here – FOVEA HEX
Forever And A Year – JOAN AS A POLICE WOMAN
Godless Brother In Love – IRON & WINE
Helpnessless Blues – FLEET FOXES
Holocene – BON IVER
Jesus Is A Rochdale Girl – ELBOW
L.I.F.E.G.O.E.S.O.N. – NOAH AND THE WHALE
Limit To Your Love – JAMES BLAKE
Loop The Loop – WILD BEASTS
Lotus Flower - RADIOHEAD
Mermaid – OKKERVIL RIVER
Need You Now – CUT COPY
Post Break Up Sex - VACCINES
Razzi Arpia Inferno e Fiamme - VERDENA
She’s Thunderstorm – ARCTIC MONKEYS
Too Deep – J. MASCIS
White Noise - MOGWAI
Il 2011 ci ha regalato sinora un discreto numero di buoni dischi, soprattutto tra gli esordienti - la globalizzazione e il web garantiscono maggiori possibilità di farsi conoscere ed emergere, e dunque ogni mese arrivano decine di proposte interessanti da ogni spigolo del mondo (noi, si sa, prediligiamo la scuola anglosassone: è uno dei nostri limiti) – e nessun disco epocale: i nostri favoriti, per ora, sono Bon Iver, James Blake e Iron&Wine; in Italia, i Verdena hanno dato alle stampe un piccolo (!, quasi due ore di musica…) capolavoro.
Nell’augurare a tutti i lettori un’estate serena e ricca di emozioni, PiacenzaSera vi consiglia una sorta di compilation con il meglio – a nostro umile giudizio - del primo semestre dell’anno in corso.
Questi i pezzi, in rigoroso ordine alfabetico.
$20 - LOW
All The Eastern Girl – CHAPEL CLUB
Billy Budd – VINICIO CAPOSSELA
Blood Bank – LOCH LOMOND
Chinatown - DESTROYER
Dead Guitars – SEEFEEL
Desire – ANNA CALVI
Don’t Carry At All - DECEMBERISTS
Far From Here – FOVEA HEX
Forever And A Year – JOAN AS A POLICE WOMAN
Godless Brother In Love – IRON & WINE
Helpnessless Blues – FLEET FOXES
Holocene – BON IVER
Jesus Is A Rochdale Girl – ELBOW
L.I.F.E.G.O.E.S.O.N. – NOAH AND THE WHALE
Limit To Your Love – JAMES BLAKE
Loop The Loop – WILD BEASTS
Lotus Flower - RADIOHEAD
Mermaid – OKKERVIL RIVER
Need You Now – CUT COPY
Post Break Up Sex - VACCINES
Razzi Arpia Inferno e Fiamme - VERDENA
She’s Thunderstorm – ARCTIC MONKEYS
Too Deep – J. MASCIS
White Noise - MOGWAI
lunedì 4 luglio 2011
giovedì 30 giugno 2011
Quel fottuto capanno nel Wisconsin
Non era facile dare un seguito a “For Emma, Forever Ago”, il debutto strabiliante dei/di Bon Iver del 2008, opera incensata e mitica (mitizzata?). Si trattava di una raccolta di esili ed eteree canzoni, letteralmente strazianti e un po’ naif, composte dal leader e vocalist Justin Vernon ritiratosi in un capanno isolato del Wisconsin dopo una lacerante delusione amorosa e al termine di una lunga malattia.
Questo secondo album eponimo – anzi doppiamente eponimo, Vernon preferisce chiamarlo “Bon Iver, Bon Iver” – non cade nel tentativo di ripetere quel mood unico e irripetibile, generato da una situazione contingente, ma invece arricchisce il loro repertorio di nuove trame, di un sound piu’ strutturato, di arrangiamenti piu’ sofisticati e orchestrali (fondamentali in questo senso le collaborazioni con Greg Leisz e Colin Stetson), senza tuttavia tradire gli elementi più tipici del suo stile ormai codificato: la voce in falsetto, trattata grazie all’uso del vocoder e a sovraincisioni multiple, le suggestive e malinconiche melodie a cavallo tra la tradizione folk ed emotività soul, una comunicatività unica malgrado i testi quasi incomprensibili (i lamenti stranianti di Vernon ci rammentano la lingua inventata dei Sigur Ros, o i virtuosismi vocali di Robert Wyatt e Tim Buckley).
Nel frattempo è infatti arrivato il successo, quello con la S maiuscola, e da lì collaborazioni illustri ed eterogenee (National, Kayne West, St. Vincent) e attestati di stima (Peter Gabriel ha inserito la cover di Flume nel suo ultimo album); e anche lo straordinario EP dello scorso anno, intitolato “Blood Bank”. Insomma, deve aver pensato Justin: cosa cazzo ci torno a fare in quel fottuto capanno del Wisconsin?
“Bon Iver, Bon Iver” è quasi un concept-album, nel senso che ogni brano è ispirato a un luogo del mondo, che sia reale o inventato, una sorta di diario di viaggio dell’immaginario nel clima gelido dell’America settentrionale (Bon Iver è una storpiatura di buon inverno in francese).
In apertura troviamo uno dei capolavori della collezione: “Perth”. “Una canzone heavy metal con un suono da Guerra Civile”, la definisce Vernon per via del suo incedere marziale. Gli altri capolavori sono le commoventi “Holocene” e “Michigant”, ballate post-rock che solo lui sa scrivere, e “Calgary”, primo singolo estratto, con la sua aspra e spiazzante coda noisy.
Un gradino sotto le bucoliche “Towers” e “Wash”, e anche l’innocuo intermezzo di “Lisbon, OH”.
I restanti tre pezzi presentano le maggiori discontinuità con il passato: in “Minnesota, WI” e “Hinnon TX” Vernon abbandona il falsetto mentre nella conclusiva “Beth/Rest” si permette addirittura di citare – alla maniera dell’ultimo Sufjan Stevens – il pop elettronico degli eighties, senza paura di apparire ridicolo (“Fuck it, I love the way this sounds").
Insomma, siamo in presenza di un vero artista: Bon Iver è – in campo musicale - la cosa piu’ bella che ci è capitata da qualche anno a questa parte.
Questo secondo album eponimo – anzi doppiamente eponimo, Vernon preferisce chiamarlo “Bon Iver, Bon Iver” – non cade nel tentativo di ripetere quel mood unico e irripetibile, generato da una situazione contingente, ma invece arricchisce il loro repertorio di nuove trame, di un sound piu’ strutturato, di arrangiamenti piu’ sofisticati e orchestrali (fondamentali in questo senso le collaborazioni con Greg Leisz e Colin Stetson), senza tuttavia tradire gli elementi più tipici del suo stile ormai codificato: la voce in falsetto, trattata grazie all’uso del vocoder e a sovraincisioni multiple, le suggestive e malinconiche melodie a cavallo tra la tradizione folk ed emotività soul, una comunicatività unica malgrado i testi quasi incomprensibili (i lamenti stranianti di Vernon ci rammentano la lingua inventata dei Sigur Ros, o i virtuosismi vocali di Robert Wyatt e Tim Buckley).
Nel frattempo è infatti arrivato il successo, quello con la S maiuscola, e da lì collaborazioni illustri ed eterogenee (National, Kayne West, St. Vincent) e attestati di stima (Peter Gabriel ha inserito la cover di Flume nel suo ultimo album); e anche lo straordinario EP dello scorso anno, intitolato “Blood Bank”. Insomma, deve aver pensato Justin: cosa cazzo ci torno a fare in quel fottuto capanno del Wisconsin?
“Bon Iver, Bon Iver” è quasi un concept-album, nel senso che ogni brano è ispirato a un luogo del mondo, che sia reale o inventato, una sorta di diario di viaggio dell’immaginario nel clima gelido dell’America settentrionale (Bon Iver è una storpiatura di buon inverno in francese).
In apertura troviamo uno dei capolavori della collezione: “Perth”. “Una canzone heavy metal con un suono da Guerra Civile”, la definisce Vernon per via del suo incedere marziale. Gli altri capolavori sono le commoventi “Holocene” e “Michigant”, ballate post-rock che solo lui sa scrivere, e “Calgary”, primo singolo estratto, con la sua aspra e spiazzante coda noisy.
Un gradino sotto le bucoliche “Towers” e “Wash”, e anche l’innocuo intermezzo di “Lisbon, OH”.
I restanti tre pezzi presentano le maggiori discontinuità con il passato: in “Minnesota, WI” e “Hinnon TX” Vernon abbandona il falsetto mentre nella conclusiva “Beth/Rest” si permette addirittura di citare – alla maniera dell’ultimo Sufjan Stevens – il pop elettronico degli eighties, senza paura di apparire ridicolo (“Fuck it, I love the way this sounds").
Insomma, siamo in presenza di un vero artista: Bon Iver è – in campo musicale - la cosa piu’ bella che ci è capitata da qualche anno a questa parte.
domenica 19 giugno 2011
Warp records non delude le aspettative.
In attesa dell’ennesimo Brian Eno – il guru dell’ambient farà uscire il suo “Drums Betwwen The Bells” il prossimo 20 giugno – e dei nuovi lavori di Gonjasufi e di Flying Lotus, tra le rivelazioni dell’anno passato, l’etichetta di Sheffield ospita il sorprendente ritorno dei Seefeel.
Quindici anni di pausa, interrotti unicamente da un Ep dello scorso autunno, peraltro nulla di eccezionale, per questo eponymous che invece eccelle per qualità e intensità.
Lunghe composizioni metalliche e dissonanti, come l’eccezionale singolo “Dead Guitars”, la cui trama gelida e industriale è a tratti squarciata dalla voce dreamy di Sarah Peacock, che eleva anche “Airless”, oppure le tessiture elettroniche di “Rip Run” (Aphex Twin, Boards Of Canada) e “Faults” (Autechre).
Notevole.
Restando nel campo dell’elettronica, segnaliamo inoltre il clamore suscitato dal terzo album degli australiani Cut Copy, da Melbourne, che – nome omen – fanno del “taglia e incolla” il loro manifesto artisitico: nel singolo “Take Me Over” assemblano, con esiti francamente raccapriccianti, addirittura un brano di Madonna e con uno dei Fleetwood Mac, mentre in “Where I’m Going” l’incipit è quello di “I’m Waiting For The Man” dei Velvet Underground. Sacrilegio.
Il loro sound è elementare e si ispira agli anni Ottanta, in particolare alla dance sintetica di New Order e Pet Shop Boys.
Si salvano un paio di episodi e l’iniziale “Need You Now”, che per la verità non suona nuova alle nostre orecchie.
Dove l’abbiamo già sentita?
lunedì 13 giugno 2011
Quando il nostro recensore di fiducia, CJ, ha lasciato spazio a Big per l'ultima strepitosa opera di Vinicio Capossela, ho pazientemente aspettato il mio turno. Che è arrivato, per mia iniziativa, con il quarto album degli Arctic Monkeys, tra le band più amate e allo stesso tempo detestate della scena inglese: un disco attesissimo dopo il deludente Humbug, disco della presunta maturità artistica e svolta hard non del tutto riuscita.
Come sempre è il web, che li portò a vendere un milione di copie dell'album di debutto senza alcuna campagna di lancio e in puro stile indie, il canale di diffusione preferito dal quartetto inglese, sul cui sito ufficiale è possibile ascoltare gratuitamente l'album.
Diciamolo subito, nonostante la forte tentazione di replicare alle consuete stroncature esagerate di parte della critica musicale, non riesco proprio a parlare di disco epocale.
Suck It And See è un disco che promette bene con un incipit formidabile, l'apertura dell'indovinata ballata psichedelica She's Thunerstorm, ma - pur rimanendo su uno standard accettabile - non mantiene del tutto le promesse, alternando pezzoni stoner (Brick by Brick, sgangheratamente retrò, e la cupa, potente ma non geniale Don't Sit Down Cause I've Moved Your Chair) a melodie più indovinate (Reckless Serenade, un pò brit pop e un pò R.E.M., Piledirver Waltz, That's Where You're Wrong e la title-track Suck It All And See, alla Morrissey).
Alex Turner racconta di essersi ispirato ad artisti come Nick Cave, John Cale, Lou Reed, David Bowie e Leonard Cohen.
Esagerato.
Però si coglie un tentativo di svolta verso la canzone d'autore, un paradosso se si analizzano invece i testi all’insegna del nonsense e l’assoluto disimpegno, forse suggerito dal soggiorno in California per la registrazione del disco, con la supervisione di James Ford.
La solarità e le sonorità della Orange County - psichedelia, atmosfere surf e il sound melanconico e struggente di gruppi come Red House Painters e American Music Club - si scorgono infatti dietro le chitarre e i coretti di Suck It And See.
Il titolo dell'album sta suscitando qualche polemica negli States – almeno nelle zone piu’ puritane e bacchettone degli States - dopo che alcuni negozi hanno deciso di censurarlo o addirittura di non metterlo in vendita. “Certi supermarket ci hanno detto che il titolo del disco è irrispettoso e maleducato. Pensano che sia incivile, così in America in alcuni negozi ci metteranno sopra un adesivo, un adesivo di quelli grossi”, ha spiegato Turner.
Operazione tutt’altro che facile, dal momento che la cover, ispirata al White Album dei Beatles, è completamente bianca con il titolo nel mezzo.
Controcorrente David Letterman, che chiede alle scimmie artiche: "E' il classico disco per il Natale?", prima di lasciare la scena ai muri di chitarre delle scimmie artiche.
I wanna rock'n'roll brick by brick.
DJ Paulette
mercoledì 8 giugno 2011
“Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”: era il titolo di un album degli emiliani Skiantos, album tutt’altro che indimenticabile ma che conteneva un pezzo cult come “Sono un ribelle mamma”, sulla stessa falsariga di “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” degli Afterhours.
Ci viene in mente quel titolo ascoltando il nuovo lavoro di Daniele Silvestri, intitolato S.C.O.T.C.H. e con in copertina lo stesso Silvestri appiccicato a un muro intonacato di rosso grazie a un bel pò di nastro adesivo.
Ci piacciono infatti l’intelligenza e l’ironia che traspaiono da questa opera matura del cantautore romano, il suo impegno non urlato – così lontano dagli inni caciaroni di alcuni - e il suo senso della misura – così lontano dalla verbosità eccessiva di altri. Persino le tante collaborazioni in questo caso non appesantiscono un’opera fresca, leggera, gradevole.
Il disco si apre con l’intimità di “Le navi” e con un duetto quasi britpop con l’amico Niccolò Fabi in “Sornione”, che si risolve in un delizioso amalgama di voci e di umori: “Non è prevista l'onestà/e se ti guardi intorno/mi darai ragione/e va di moda la sincerità/ma solo quando/è urlata alla televisione”.
“Cos’è questa cosa qua” ha un tono scanzonato e naif alla Samuele Bersani – un altro dei piu’ bravi della loro generazione – e la successiva “Fifty Fifty” è invece una delle sue classiche filastrocche.
L’album entra nel vivo con la ballata “Acqua stagnante” – tra i brani migliori insieme a “Acqua che scorre”, che si avvale della voce tagliente di Diego Mancino – e con quella “Precario è il mondo” già sentita in tv da Fazio e Saviano (qui con Raiz, ex-voce degli Almamegretta).
Dopo un paio di cover da Paoli (divertente “La gatta” trasformata in “La chatta”, con tanto di telefonata allo stesso Paoli che poi fa un cameo) e da Gaber (“Io non mi sento italiano”, per tornare all’incipit di questa recensione…), parte il rock di “Monito(r)”, che ha un bel tiro e auspica la ribellione della penna del presidente Napolitano, al momento della firma in calce a leggi e decreti ad personam.
E ancora: il singolo “Ma che discorsi”, la title-track con la voce recitante di Servillo e Camilleri, un paio di episodi minori e infine l’amaro epilogo di “Questo paese”, impreziosito dal piano di Stefano Bolllani: “Non c'è nei discorsi di chi vado a votare/
se grandezza ce n'è non si riesce a vedere/così hai voglia a cercarla tra i mille canali/sia su quelli analogici che sui digitali/ma non serve aumentare la definizione/per vedere più grande un coglione”.
Ci viene in mente quel titolo ascoltando il nuovo lavoro di Daniele Silvestri, intitolato S.C.O.T.C.H. e con in copertina lo stesso Silvestri appiccicato a un muro intonacato di rosso grazie a un bel pò di nastro adesivo.
Ci piacciono infatti l’intelligenza e l’ironia che traspaiono da questa opera matura del cantautore romano, il suo impegno non urlato – così lontano dagli inni caciaroni di alcuni - e il suo senso della misura – così lontano dalla verbosità eccessiva di altri. Persino le tante collaborazioni in questo caso non appesantiscono un’opera fresca, leggera, gradevole.
Il disco si apre con l’intimità di “Le navi” e con un duetto quasi britpop con l’amico Niccolò Fabi in “Sornione”, che si risolve in un delizioso amalgama di voci e di umori: “Non è prevista l'onestà/e se ti guardi intorno/mi darai ragione/e va di moda la sincerità/ma solo quando/è urlata alla televisione”.
“Cos’è questa cosa qua” ha un tono scanzonato e naif alla Samuele Bersani – un altro dei piu’ bravi della loro generazione – e la successiva “Fifty Fifty” è invece una delle sue classiche filastrocche.
L’album entra nel vivo con la ballata “Acqua stagnante” – tra i brani migliori insieme a “Acqua che scorre”, che si avvale della voce tagliente di Diego Mancino – e con quella “Precario è il mondo” già sentita in tv da Fazio e Saviano (qui con Raiz, ex-voce degli Almamegretta).
Dopo un paio di cover da Paoli (divertente “La gatta” trasformata in “La chatta”, con tanto di telefonata allo stesso Paoli che poi fa un cameo) e da Gaber (“Io non mi sento italiano”, per tornare all’incipit di questa recensione…), parte il rock di “Monito(r)”, che ha un bel tiro e auspica la ribellione della penna del presidente Napolitano, al momento della firma in calce a leggi e decreti ad personam.
E ancora: il singolo “Ma che discorsi”, la title-track con la voce recitante di Servillo e Camilleri, un paio di episodi minori e infine l’amaro epilogo di “Questo paese”, impreziosito dal piano di Stefano Bolllani: “Non c'è nei discorsi di chi vado a votare/
se grandezza ce n'è non si riesce a vedere/così hai voglia a cercarla tra i mille canali/sia su quelli analogici che sui digitali/ma non serve aumentare la definizione/per vedere più grande un coglione”.
domenica 29 maggio 2011
I reduci dell’epica grunge, quella fantastica stagione che improvvisamente portò la lontana Seattle – Seattle è situata nello spigolo nord-ovest degli States, a uno sputo da Vancouver, Canada - al centro del mondo, non se la passano poi così male.
Mark Lanegan è molto attivo, diviso tra la carriera solista, duetti illustri (con Isobel Campbell dei Belle & Sebastian) e progetti collaterali (Gutter Twins, con Greg Dulli degli Afghan Whighs). Mark Arm, definitivamente archiviati i gloriosi Mudhoney, sta lavorando al terzo album dei Monkeywrench. Chris Cornell, dopo l’addio agli Audioslave e un paio di dimenticabili episodi solisti, ha preannunciato la reunion dei Soundgarden.
Ma è senza dubbio Dave Grohl il baricentro della scena.
Dopo la tragica fine di Kurt Cobain, l’ex-batterista dei Nirvana è stato l’anima di importanti progetti quali Queens Of The Stone Age (con Josh Homme dei Kyuss) e Them Crooked Voltures, e ha fondato i Foo Fighters, di cui è anche voce e leader.
I Foo’s suonano un rock’n’roll elementare, diretto e senza fronzoli: strofa-ritornello-strofa-ritornello. Magari non originale, anzi davvero poco originale, ma onesto. Quest’ultimo Wasting Light ricalca lo schema dei dischi precedenti, con un sound ruvido come alle origini, e come quelli non mancherà di mietere grande successo, di pubblico e di critica (è da anni che ripetono le stesse cose, che poi sono l’ABC del rock, ma di stroncature neanche a parlarne; anzi, qualcuno addirittura ha paragonato questo album a Led Zeppelin II…).
In apertura, tre-quattro pezzi adrenalinici che entrano di diritto nel loro repertorio live (Bridge Burning, il singolo Rope, Dear Rosemary e l’abrasiva e potente White Limo) e nel palinsesto di MTV.
Nella seconda parte, monocorde e priva di colpi di coda, prevale la noia.
Si muove su tutt’altro registro Eddie Vedder, che reduce da una lunga tournee con i Pearl Jam si è ritirato nella solitudine intimista di Ukulele Songs, una raccolta di canzoni acustiche, brevissime, nemmeno due minuti per ognuna; fragili e sussurrate, in qualche caso solo uno schizzo o una pennellata, come qualcosa di non finito.
Difficile non innamorarsi di brani come Longing To Belong o Goodbye, con la voce meravigliosa del nostro e il suono struggente e un po’ country dell’ukulele, suo unico compagno di viaggio, a eccezione del cameo di Cat Power in Tonight You Belong To Me e di Glen Hansard in Sleepless Nights (cover degli Everly Brothers). In chiusura, Dream A Little Dream di Louis Armstrong.
Piu’ che Neil Young, i riferimenti sembrano qui Woody Guthrie e il menestrello John Fahey.
Tuttavia l’album regge a fatica la lunga distanza e si arriva alla fine con la sensazione che manchi qualcosa o che sarebbe stato meglio un EP.
Due dischi di genere, di quelli che non fanno la storia.
Buoni per una sola stagione.
Mark Lanegan è molto attivo, diviso tra la carriera solista, duetti illustri (con Isobel Campbell dei Belle & Sebastian) e progetti collaterali (Gutter Twins, con Greg Dulli degli Afghan Whighs). Mark Arm, definitivamente archiviati i gloriosi Mudhoney, sta lavorando al terzo album dei Monkeywrench. Chris Cornell, dopo l’addio agli Audioslave e un paio di dimenticabili episodi solisti, ha preannunciato la reunion dei Soundgarden.
Ma è senza dubbio Dave Grohl il baricentro della scena.
Dopo la tragica fine di Kurt Cobain, l’ex-batterista dei Nirvana è stato l’anima di importanti progetti quali Queens Of The Stone Age (con Josh Homme dei Kyuss) e Them Crooked Voltures, e ha fondato i Foo Fighters, di cui è anche voce e leader.
I Foo’s suonano un rock’n’roll elementare, diretto e senza fronzoli: strofa-ritornello-strofa-ritornello. Magari non originale, anzi davvero poco originale, ma onesto. Quest’ultimo Wasting Light ricalca lo schema dei dischi precedenti, con un sound ruvido come alle origini, e come quelli non mancherà di mietere grande successo, di pubblico e di critica (è da anni che ripetono le stesse cose, che poi sono l’ABC del rock, ma di stroncature neanche a parlarne; anzi, qualcuno addirittura ha paragonato questo album a Led Zeppelin II…).
In apertura, tre-quattro pezzi adrenalinici che entrano di diritto nel loro repertorio live (Bridge Burning, il singolo Rope, Dear Rosemary e l’abrasiva e potente White Limo) e nel palinsesto di MTV.
Nella seconda parte, monocorde e priva di colpi di coda, prevale la noia.
Si muove su tutt’altro registro Eddie Vedder, che reduce da una lunga tournee con i Pearl Jam si è ritirato nella solitudine intimista di Ukulele Songs, una raccolta di canzoni acustiche, brevissime, nemmeno due minuti per ognuna; fragili e sussurrate, in qualche caso solo uno schizzo o una pennellata, come qualcosa di non finito.
Difficile non innamorarsi di brani come Longing To Belong o Goodbye, con la voce meravigliosa del nostro e il suono struggente e un po’ country dell’ukulele, suo unico compagno di viaggio, a eccezione del cameo di Cat Power in Tonight You Belong To Me e di Glen Hansard in Sleepless Nights (cover degli Everly Brothers). In chiusura, Dream A Little Dream di Louis Armstrong.
Piu’ che Neil Young, i riferimenti sembrano qui Woody Guthrie e il menestrello John Fahey.
Tuttavia l’album regge a fatica la lunga distanza e si arriva alla fine con la sensazione che manchi qualcosa o che sarebbe stato meglio un EP.
Due dischi di genere, di quelli che non fanno la storia.
Buoni per una sola stagione.
Della proposta di spostare in Padania un paio di Ministeri sapete già, così come della promessa di una cancellazione di tutte le multe causa Ecopass.
Questo blog, tuttavia, è in grado di svelare le ulteriori, straordinarie idee che i leader del centrodestra hanno studiato allo scopo di ribaltare il risultato del primo turno delle elezioni per il sindaco di Milano.
Eccole:
1 – Con ogni probabilità, Milano sarà la nuova capitale del Canada. I distretti di Toronto e Montreal si sarebbero già dichiarati d’accordo. Qualche resistenza ancora da Vancouver.
2 – Saranno annessi a Milano i territori istriani e il Sud Tirolo.
3 - Dall’anno prossimo, si svolgeranno a Milano la Triennale di Venezia e il Festival di Cannes: per questo motivo, saranno piantati sul Naviglio Grande oltre mille palme da dattero. Problemi, invece, per il trasferimento il GP del Belgio e del Carnevale di Rio.
4 - Pisapia vuole “La Stanza del Buco”? La Moratti farà di meglio. Finanzierà la costruzione di un tunnel superveloce per collegare direttamente Milano ai bordelli di Lugano e Mendrisio, che saranno raggiungibili in soli venti minuti.
E’ allo studio, inoltre, l’apertura di alcune succursali meneghine.
Titolo del progetto “La Topa Km Zero”.
5 – Rottamazione dei mutui prima casa. Basterà presentarsi a Palazzo Marino con la documentazione completa e il Comune si accollerà il pagamento di tutte le rate residue, oltre ad occuparsi della cancellazione dell’ipoteca.
E’ prevista una franchigia di 500 euro per le cifre superiori a 100.000 Euro.
6 – Per gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, maxisanatoria per le note sul registro. I ragazzi potranno inoltre viaggiare in scooter senza casco e senza patentino, ma sarà vietato trasportare oltre tre passeggeri sul sellino posteriore.
7 – Verrà ricostruita a Milano la Piramide di Cheope.
Masso per masso, schiavo per schiavo, comunista per comunista.
martedì 24 maggio 2011
Dopo la piacevole ospitata di Big, che ringraziamo per la sua bellissima recensione dell’ultimo lavoro di Vinicio Capossela, torna il vostro recensore con un uno-due da knock out.
Fleet Foxes e Okkervil River sono infatti – insieme agli attesissimi Bon Iver - tra le bands piu’ interessanti del variegato panorama folk-rock americano, ed escono quasi in contemporanea con un nuovo album.
I primi vengono da Seattle, incidono per Sub Pop/Bella Union e provano a bissare lo straordinario successo di pubblico e di critica ottenuto con il loro disco omonimo di debutto del 2008 (c’è chi giurò che sarebbero diventati “il grande classico dell’Americana del nuovo decennio”).
Questo “Helplessness Blues” (il blues della vulnerabilità) ripropone un folk barocco e allo stesso tempo leggero, morbido e flautato, fatto di cori e melodie ariose; solidamente ispirato al mondo hippy degli anni ’70 (Crosby, Stills & Nash, Byrds, Beach Boys, Tim Buckley) e con sfumature di prog inglese da battaglia (Roy Harper, Fairport Convention).
Tra le perle del disco, la title-track, quasi gospel, l’arrangiatissima The Shrine / An Argument, Blue Spotted Tail e The Plains/Bitter Dancer.
Sempre bravi anche i secondi, da Austin Texas, assai piu’ esperti e navigati - questo I Am Very Far è il loro sesto lavoro sulla lunga distanza - ma anch’essi alla ricerca di suoni magici e fuori dal tempo, lontani dalle mode e dalle esigenze del mercato discografico.
L’incedere marziale di The Valley/Rider (meglio la seconda) e il soul languido della brutta Piratess introducono un’opera contraddittoria, disorientante e coraggiosa, anche se a volte sovraccarica: davvero quello che non ti aspettavi da un gruppo che ci aveva abituato a un sound minimalista, asciutto e scarno.
Lay Of The Survivor ci riporta in territori conosciuti, ma è solo un trucco, e le successive White Shadow Waltz e We Need A Mith sono cavalcate che esplodono solo nel finale. Per fortuna c’è Mermaid, la classica ballata in stile Sheff. L’album si chiude con la straordinaria Wake And Be Fine, psichedelica anni ’70, e l’ostica e altalenante The Rise.
E’ un ascolto difficile, probabilmente influenzato dalla musica degli Arcade Fire.
Merita tempo per essere capito.
E noi il tempo lo abbiamo.
Fleet Foxes e Okkervil River sono infatti – insieme agli attesissimi Bon Iver - tra le bands piu’ interessanti del variegato panorama folk-rock americano, ed escono quasi in contemporanea con un nuovo album.
I primi vengono da Seattle, incidono per Sub Pop/Bella Union e provano a bissare lo straordinario successo di pubblico e di critica ottenuto con il loro disco omonimo di debutto del 2008 (c’è chi giurò che sarebbero diventati “il grande classico dell’Americana del nuovo decennio”).
Questo “Helplessness Blues” (il blues della vulnerabilità) ripropone un folk barocco e allo stesso tempo leggero, morbido e flautato, fatto di cori e melodie ariose; solidamente ispirato al mondo hippy degli anni ’70 (Crosby, Stills & Nash, Byrds, Beach Boys, Tim Buckley) e con sfumature di prog inglese da battaglia (Roy Harper, Fairport Convention).
Tra le perle del disco, la title-track, quasi gospel, l’arrangiatissima The Shrine / An Argument, Blue Spotted Tail e The Plains/Bitter Dancer.
Sempre bravi anche i secondi, da Austin Texas, assai piu’ esperti e navigati - questo I Am Very Far è il loro sesto lavoro sulla lunga distanza - ma anch’essi alla ricerca di suoni magici e fuori dal tempo, lontani dalle mode e dalle esigenze del mercato discografico.
L’incedere marziale di The Valley/Rider (meglio la seconda) e il soul languido della brutta Piratess introducono un’opera contraddittoria, disorientante e coraggiosa, anche se a volte sovraccarica: davvero quello che non ti aspettavi da un gruppo che ci aveva abituato a un sound minimalista, asciutto e scarno.
Lay Of The Survivor ci riporta in territori conosciuti, ma è solo un trucco, e le successive White Shadow Waltz e We Need A Mith sono cavalcate che esplodono solo nel finale. Per fortuna c’è Mermaid, la classica ballata in stile Sheff. L’album si chiude con la straordinaria Wake And Be Fine, psichedelica anni ’70, e l’ostica e altalenante The Rise.
E’ un ascolto difficile, probabilmente influenzato dalla musica degli Arcade Fire.
Merita tempo per essere capito.
E noi il tempo lo abbiamo.
domenica 15 maggio 2011
Big docet
Quando il nostro recensore di fiducia, CJ, mi ha detto che per questa settimana avrei dovuto sostituirlo con un pezzo sul nuovo lavoro di Vinicio Capossela, mi sono stramaledetto per avergliene parlato.
Recensire Capossela non è facile nemmeno per i critici musicali “veri”, figurarsi per me. E poi quest’ultimo lavoro è davvero complesso e immenso, denso e stracolmo di suoni, voci e parole: forse la summa di un’intera carriera.
Ma tant’è, e quindi mi metto all’opera.
“Marinai, Profeti e Balene” è una sorta di concept diviso in due parti, per un totale di diciannove canzoni e circa un’ora e mezza di musica, che hanno per tema il mare - con particolare riferimento alle opere di Melville (Moby Dick su tutte) - e la mitologia omerica.
L’incredibile varietà di generi musicali, le particolarissime sonorità, ottenute con stratificazioni di strumenti rock, strumenti classici e “strumenti” inventati (lumachine di mare, pentoline, ondioline, teste di moro!), l’uso costante dei cori, a volte in chiave quasi operistica, e l’affabulazione ininterrotta di Capossela lo rendono il disco meno “facile” del nostro.
Quindi rilassatevi, sedetevi in poltrona, abbassate le luci, tenete a portata di mano il libretto dei testi – non dovete perdervi neanche una parola - e una bottiglia di rum invecchiato (io consiglio un Brugal Extra Viejo Gran Reserva, ma se siete ricchi andate direttamente sullo Zacapa Centenario).
La vecchia baleniera Pequod inizia il viaggio con l’impatto devastante, cupo e disperato de “Il Grande Leviatano” (“io vidi spalancarsi la bocca dell’inferno”) e prosegue con due brani più lievi, in particolare con il divertissement anni ’30 di “Pryntyl”, per approdare al non sense di “Polpo d’Amor”, la cui musica è stata scritta da Burns e Convertino dei Calexico.
Il momento topico del disco è “La Bianchezza della Balena”: “niente è più terribile di questo colore, una volta separato dal bene”. E in questa dicotomia lacerante, tra purezza e scandalo, tra bianco e nero, tra demonio e santità, tra cielo e mare – che sta alla base del disco e di tutte le sue opere, forse della sua vita - Capossela inchioda i suoi personaggi e le sue storie, sempre alla ricerca di qualcosa che non si trova, sempre ad un passo dal baratro.
Notevolissima anche “Billy Budd”, blues sgangherato impreziosito dalla chitarra di Marc Ribot; poi tra citazioni di personaggi biblici (“Job”) e omerici (“La lancia del Pelide”, quieta canzone d’amore), si conclude il disco 1 e inizia il disco 2, nel quale vengono introdotti strumenti di tradizione greca (lyra, daoulaki, flauti), a sottolineare le parabole mitologiche (la struggente “Le Pleiadi”, “Aedo”, “Dimmi Tiresia”, “Goliath” e infine “Vinocolo”, autentico sabba etilico).
Tra un brano tropicale (“Calypso”) e la filastrocca/minuetto “La Madonna delle conchiglie”, l’enciclopedica opera si avvia alla fine. In “Nostos” c’è l’esaltazione del viaggio di Ulisse, ma è l’ultimo brano, “Le Sirene”, a togliere il fiato (confesso di essermi ritrovato con gli occhi lucidi la prima volta che l’ho ascoltata… e pensare che una volta ascoltavo i gruppi hardcore di Washington): pianoforte, viola e contrabbasso, quasi a sottrarre tutto quello che viene prima (i suoni, i rumori, le idee) per lasciare Capossela nudo, indifeso, spossato per il lungo viaggio.
Che dire ancora?
Un disco enorme, non per la mole, ma per il coraggio, i mille spunti che offre, la genialità sempre presente, il lavoro di ricerca sui testi davvero di altissimo livello. Tolti due o tre momenti a mio parere minori, siamo in presenza di un lavoro davvero importante.
In spiccioli, 5 stelle.
Firmato: Big
Recensire Capossela non è facile nemmeno per i critici musicali “veri”, figurarsi per me. E poi quest’ultimo lavoro è davvero complesso e immenso, denso e stracolmo di suoni, voci e parole: forse la summa di un’intera carriera.
Ma tant’è, e quindi mi metto all’opera.
“Marinai, Profeti e Balene” è una sorta di concept diviso in due parti, per un totale di diciannove canzoni e circa un’ora e mezza di musica, che hanno per tema il mare - con particolare riferimento alle opere di Melville (Moby Dick su tutte) - e la mitologia omerica.
L’incredibile varietà di generi musicali, le particolarissime sonorità, ottenute con stratificazioni di strumenti rock, strumenti classici e “strumenti” inventati (lumachine di mare, pentoline, ondioline, teste di moro!), l’uso costante dei cori, a volte in chiave quasi operistica, e l’affabulazione ininterrotta di Capossela lo rendono il disco meno “facile” del nostro.
Quindi rilassatevi, sedetevi in poltrona, abbassate le luci, tenete a portata di mano il libretto dei testi – non dovete perdervi neanche una parola - e una bottiglia di rum invecchiato (io consiglio un Brugal Extra Viejo Gran Reserva, ma se siete ricchi andate direttamente sullo Zacapa Centenario).
La vecchia baleniera Pequod inizia il viaggio con l’impatto devastante, cupo e disperato de “Il Grande Leviatano” (“io vidi spalancarsi la bocca dell’inferno”) e prosegue con due brani più lievi, in particolare con il divertissement anni ’30 di “Pryntyl”, per approdare al non sense di “Polpo d’Amor”, la cui musica è stata scritta da Burns e Convertino dei Calexico.
Il momento topico del disco è “La Bianchezza della Balena”: “niente è più terribile di questo colore, una volta separato dal bene”. E in questa dicotomia lacerante, tra purezza e scandalo, tra bianco e nero, tra demonio e santità, tra cielo e mare – che sta alla base del disco e di tutte le sue opere, forse della sua vita - Capossela inchioda i suoi personaggi e le sue storie, sempre alla ricerca di qualcosa che non si trova, sempre ad un passo dal baratro.
Notevolissima anche “Billy Budd”, blues sgangherato impreziosito dalla chitarra di Marc Ribot; poi tra citazioni di personaggi biblici (“Job”) e omerici (“La lancia del Pelide”, quieta canzone d’amore), si conclude il disco 1 e inizia il disco 2, nel quale vengono introdotti strumenti di tradizione greca (lyra, daoulaki, flauti), a sottolineare le parabole mitologiche (la struggente “Le Pleiadi”, “Aedo”, “Dimmi Tiresia”, “Goliath” e infine “Vinocolo”, autentico sabba etilico).
Tra un brano tropicale (“Calypso”) e la filastrocca/minuetto “La Madonna delle conchiglie”, l’enciclopedica opera si avvia alla fine. In “Nostos” c’è l’esaltazione del viaggio di Ulisse, ma è l’ultimo brano, “Le Sirene”, a togliere il fiato (confesso di essermi ritrovato con gli occhi lucidi la prima volta che l’ho ascoltata… e pensare che una volta ascoltavo i gruppi hardcore di Washington): pianoforte, viola e contrabbasso, quasi a sottrarre tutto quello che viene prima (i suoni, i rumori, le idee) per lasciare Capossela nudo, indifeso, spossato per il lungo viaggio.
Che dire ancora?
Un disco enorme, non per la mole, ma per il coraggio, i mille spunti che offre, la genialità sempre presente, il lavoro di ricerca sui testi davvero di altissimo livello. Tolti due o tre momenti a mio parere minori, siamo in presenza di un lavoro davvero importante.
In spiccioli, 5 stelle.
Firmato: Big
domenica 8 maggio 2011
Colpisce tutti, senza fare sconti a nessuno.
A noi di PiacenzaSera l’album di debutto dei newyorchesi Cold Cave (Love Comes Close, 2009) era piaciuto: minimale e diretto, senza troppi fronzoli.
Questo seguito, intitolato Cherish The Light Years, invece delude profondamente – malgrado alcuni episodi non trascurabili - per la piattezza di una sound synth-wave che pare la fotocopia di New Order e Depeche Mode (ascoltare Underworld USA).
Peccato.
Anche i Glasvegas - il cui nome è un gioco di parole tra Las Vegas e la loro città natale, Glasgow; ma poi sono emigrati a Santa Monica, L.A., California – si ispirano agli anni Ottanta (Ultravox, Simple Minds, Cocteau Twins, Jesus & Mary Chain).
Giungono con fatica al secondo lavoro, dopo il debutto omonimo del 2008 e un minilp natalizio dello stesso anno intitolato A Snowflake Fell.
Il primo singolo Euphoria, Take My Hand, una ballata brit molto languida ed emotiva, alla Suede o Pulp, non prometteva certamente un capolavoro.
Purtroppo Euphoric Heartbreak conferma le previsioni piu’ fosche, collezionando brani piuttosto scontati, tronfi ed enfatici, con arrangiamenti che presentano una sovrastruttura talmente complessa da risultare difficilmente digeribili.
Sono pochi i pezzi che si salvano dalla mediocrità generale di questa grandeur davvero ingiustificata (Change? I Feel Wrong – Homosexuality Part 1?, gli episodi dove non a caso staccano la spina).
Anzi, forse nessuno.
Amici e nemici ci accusano di parlare di dischi poco conosciuti. Il vecchio Steve, per esempio, ironizza pungente come sempre: “insomma, vi siete fatti la solita borsa in nome di un elitarismo musicale giovanilistico”.
Così, in attesa di dedicarci alla consueta sfornata di primavera – sono tantissime le uscite che meritano attenzione: Foo Fighters, Fleet Foxes, Sonic Youth, Cold Cave, Glasvegas, Mogwai, Panda Bear, Erland & The Carnival, e ancora Cut Copy, Akron Family, Esben & The Witch – abbiamo ascoltato il recente parto di uno dei big della scena italiana, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti (non potevate chiederci di dedicarci a un Vasco sempre più bolso, oppure all’ultimo Ligabue, uguale al penultimo Ligabue e al terzultimo Ligabue, per non andare più indietro), anche perché incuriositi dalle recensioni positive di alcuni siti di ispirazione rock (Soundsblog e Indieforbunnies su tutti).
“Ora” è un disco allegro, gradevole, orecchiabile e danzereccio (per alcuni è uno dei dischi piu’ dance di Lorenzo).
Lui è uno che non si risparmia, che si espone, senza paura di apparire patetico o ridicolo. E questo ci piace. Ci piace la sua vena piu’ cantautoriale: Le tasche piene di sassi e l’ispirata Un’illusione non sfigurerebbero nel repertorio di De Gregori, Ora e l’atipico primo singolo Tutto l'amore che ho (alla Gorillaz) ne mettono in mostra il mestiere, e infine la ballata Quando sarò vecchio, tra Brassens e De Andrè, con la quale abbandona il buonismo Veltroniano del quale è stato per anni indiscutibile alfiere (“Quando sarò vecchio sarò vecchio/Nessuno dovrà più venirmi a rompere i coglioni “). Divertono anche cinque-sei pezzi, tutti potenziali singoli-killer/tormentoni estivi: l’opener Megamix – con il ritornello “E’ questa la vita che sognavo da bambino/Un po’ di apocalisse e un po’ di Topolino” – oppure il rock scontatissimo eppure irresistibile di Il più grande spettacolo dopo il big bang (che vi dicevo dello sprezzo del ridicolo?), Io danzo e Spingo il tempo al massimo, che pompano come fossero i Chemical Brothers.
Quello che ci piace meno è la consueta eccessiva verbosità – lo ammette lui stesso: “quanta roba scritta ci sta qui dentro”-, le frasi fatte e i clichè (“Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri”, “Non c'è montagna più alta di quella che non scalerò”) , le troppe citazioni letterarie o musicali (“Ogni cosa è illuminata”, “La risposta che soffia nel vento”, e così via). Ci piacciono poco anche alcuni riempitivi come Amami, Dabadabadance e Go!!!!!!!
E poi, purtroppo, i soliti duetti, tra gli episodi meno riusciti del lavoro: con Cremonini in I pesci grossi, con Carboni in L’Elemento Umano (“Si vince, si perde/Si pestano merde”), con Amadou e Mariam (africani del Mali) per il trito tribalismo di La bella vita (La belle vie) e con Michael Franti (ex-Sperhead) in Battiti di ali di farfalla.
Così, in attesa di dedicarci alla consueta sfornata di primavera – sono tantissime le uscite che meritano attenzione: Foo Fighters, Fleet Foxes, Sonic Youth, Cold Cave, Glasvegas, Mogwai, Panda Bear, Erland & The Carnival, e ancora Cut Copy, Akron Family, Esben & The Witch – abbiamo ascoltato il recente parto di uno dei big della scena italiana, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti (non potevate chiederci di dedicarci a un Vasco sempre più bolso, oppure all’ultimo Ligabue, uguale al penultimo Ligabue e al terzultimo Ligabue, per non andare più indietro), anche perché incuriositi dalle recensioni positive di alcuni siti di ispirazione rock (Soundsblog e Indieforbunnies su tutti).
“Ora” è un disco allegro, gradevole, orecchiabile e danzereccio (per alcuni è uno dei dischi piu’ dance di Lorenzo).
Lui è uno che non si risparmia, che si espone, senza paura di apparire patetico o ridicolo. E questo ci piace. Ci piace la sua vena piu’ cantautoriale: Le tasche piene di sassi e l’ispirata Un’illusione non sfigurerebbero nel repertorio di De Gregori, Ora e l’atipico primo singolo Tutto l'amore che ho (alla Gorillaz) ne mettono in mostra il mestiere, e infine la ballata Quando sarò vecchio, tra Brassens e De Andrè, con la quale abbandona il buonismo Veltroniano del quale è stato per anni indiscutibile alfiere (“Quando sarò vecchio sarò vecchio/Nessuno dovrà più venirmi a rompere i coglioni “). Divertono anche cinque-sei pezzi, tutti potenziali singoli-killer/tormentoni estivi: l’opener Megamix – con il ritornello “E’ questa la vita che sognavo da bambino/Un po’ di apocalisse e un po’ di Topolino” – oppure il rock scontatissimo eppure irresistibile di Il più grande spettacolo dopo il big bang (che vi dicevo dello sprezzo del ridicolo?), Io danzo e Spingo il tempo al massimo, che pompano come fossero i Chemical Brothers.
Quello che ci piace meno è la consueta eccessiva verbosità – lo ammette lui stesso: “quanta roba scritta ci sta qui dentro”-, le frasi fatte e i clichè (“Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri”, “Non c'è montagna più alta di quella che non scalerò”) , le troppe citazioni letterarie o musicali (“Ogni cosa è illuminata”, “La risposta che soffia nel vento”, e così via). Ci piacciono poco anche alcuni riempitivi come Amami, Dabadabadance e Go!!!!!!!
E poi, purtroppo, i soliti duetti, tra gli episodi meno riusciti del lavoro: con Cremonini in I pesci grossi, con Carboni in L’Elemento Umano (“Si vince, si perde/Si pestano merde”), con Amadou e Mariam (africani del Mali) per il trito tribalismo di La bella vita (La belle vie) e con Michael Franti (ex-Sperhead) in Battiti di ali di farfalla.
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