Un febbraio fertile: ecco il grande ritorno dei Lambchop (“Mr. M”), sul quale forse torneremo più tardi, poi il pop sofisticato delle svedesi First And Kit e il prog dei Field Music, il nuovo EP della potessa dark austriaca Soap&Skin (“Narrow” - il brano “Wonder”, davvero meraviglioso – nome omen) e il torrenziale doppio album dei Crippled Black Phoenix, “(Mankind) The Crafty Ape”, le cui cavalcate acide ambiscono al titolo di “Dark Star” del nuovo millennio (siamo certi che piacerebbero anche al vecchio Zio Jerry).
Ma due uscite in particolare fanno discutere la stampa specializzata.
I giovanissimi Maccabees sono dei predestinati Dopo un paio di lavori caratterizzati da un pop fresco e di facile presa, la band di Brighton prova il salto di qualità con questo “Given To The World”, acclamatissimo in patria.
Gli arrangiamenti orchestrali e il massiccio utilizzo di organo e pianoforte ricordano gli Arcade Fire, ma qui la pietra di paragone è l’art-rock di Wild Beasts, Foals ed Elbow. Ma anche, andando in dietro: XTC, Echo & The Bunnymen.
Per dirla con le parole di Storiadellamusica.it, “abbiamo di fronte un'imponente prova di metabolizzazione degli ultimi dieci-venti anni di pop music inglese. Il risultato è quasi perfetto e si spinge oltre alla raccolta enciclopedica, facendo fluire forme e stili in un'ibridazione personale e spesso straniante”.
Il primo ascolto ci ha lasciati perplessi, forse a causa degli arrangiamenti troppo puliti.
Ci torneremo.
La band di Dylan Baldi arriva invece dell’America più profonda: Ohio.
Se i Maccabees hanno metabolizzato il pop made in GB, i Cloud Nothings è capace di sintetizzare – nessuno inventa più nulla - quanto di più buono prodotto recentemente oltreoceano.
Prodotti dal celebre Steve Albini (Rapeman, Big Black, Shellac), propongono in avvio con l’inquietante nichilismo di “No Future No Past” un revival della stagione del post-rock americano (Slint, Codeine) e con lo strumentale “Wasted Day” dell’epopea dell’etichetta Dischord di Chicago (Fugazi), per poi orientarsi verso un power-pop raffinato debitore, in particolare con tre-quattro pezzi molto belli, tra i primi Foo Fighters e l’hardcore Usa anni ’80-‘90 (Replacements e Husker Du): “Our Plans”, “Fall In” e “Cut You”.
Una delle sorprese più piacevoli dell’anno.
domenica 18 marzo 2012
domenica 19 febbraio 2012
Il pagellone di Sanremo, 2012

ARISA – La notte
La sorpresa.
Il suo duetto con Mauro Ermanno Giovanardi (La Crus) è una delle poche cose da ricordare di questo festival, e in più c’è il violino commovente di Mauro Pagani.
La canzone, dolce e intimista, è forse la più bella.
E in mezzo a tatuaggi inguinali e mutande nascoste, la sua sobrietà un po’ trista ci sta pure simpatica.
In finale abbiamo tifato per lei, inutilmente: troppo forte lo strapotere del televoto in favore dei prodotti del marketing targato Mediaset.
VOTO: 7,5
CHIARA CIVELLO – Al posto del mondo
Ci dicono che è famosa in tutto il mondo come cantante jazz: lo ripetono più volte nella speranza che noi ci crediamo davvero.
By the way, il colpo alla Gualazzi quest’anno non riesce, perché Chiara è sembrata - a pubblico e critica – poco più di una schiappa.
Ovvio, sul voto influisce anche il duetto non indimenticabile con la Michielin, fresca vincitrice di XFactor 5.
VOTO: 5
DOLCENERA – Ci vediamo a casa
Grintosa con vestitino nero, borchie, spilloni e schiena scoperta: peccato per quei booties che le regalano un bell'effetto cotechino.
L’arrangiamento del pezzo è troppo radiofonico, quasi dance, e i continui riferimenti a De Andrè c’azzeccano poco.
Con Gazzè il pezzo ne guadagna.
VOTO: 5
EUGENIO FINARDI – E tu lo chiami Dio
Il vecchio cantautore milanese, look total black, codino e un’aura da spiritualità zen, sfodera sorrisi immotivati e – ormai raggiunta la pace interiore - se ne fotte di tutto il caos che gli sta intorno.
L’interpretazione è di classe, così come il duetto con un'elegante Noa.
Il testo non è tra i suoi più ispirati, ma pare Proust al confronto con l’avvincente dibattito tra Pupo, Celentano e Morandi sulla sinistra e sulla vita di Gesù.
VOTO: 6,5
EMMA – Non è l’inferno
Non sarà l’inferno, ma ci assomiglia.
Emma canta in modo sguaiato ed eccessivo un pezzo straordinariamente brutto anche per la media non eccezionale di Kekko dei Modà (ma non poteva saltare un giro, quest’anno?). Il testo, poi, è talmente paraculo che si sarebbe vergognato persino Povia.
L’accoppiata salentina con la Amoroso – su Twitter qualcuno le ha definite “due rane” – rappresenta l’apoteosi del DeFilippi-pensiero.
Vince a mani basse: è lo specchio dell’inesorabile declino del paese.
VOTO: 4
FRANCESO RENGA – La tua bellezza
Mah.
L’ex-ledaer dei Timoria ci sembra decisamente involuto, ed è fastidioso questo suo eccesso di autostima. Alla fine fa parlare di sé solo per le polemica (sacrosanta) sul troppo spazio concesso a quello sciroccato del molleggiato: facciamo solo da contorno, si è lamentato. Come dargli torto?
L’accompagnamento del coro di Scala & Kolacny Brothers una pessima idea.
VOTO: 5,5
IRENE FORNACIARI – Il grande mistero
Il grande mistero è lei.
Tra le più assidue frequentatrici del festival, ancora una volta si rivela una meteora: inconsistente e impalpabile, non lascia traccia di sè.
Si presenta vestita come il tubo di una stufa in un sapiente nero che "sfila", e nemmeno al secondo cambio acquista dignità di donna, resta stufa.
Alla lunga stufa anche noi.
VOTO: 4,5
LOREDANA BERTE’ e GIGI D’ALESSIO
Lei esibisce evidenti segni di errori chirurgici sul viso, corredati dalle immancabili labbra a canotto. Non contenta, indossa un vestito che svela ciò che dovrebbe nascondere.
Lui ha l’aria del pappone, con un giubbino da motociclista e un sorriso assai sforzato.
Accanto a loro la povera Macy Gray – in pailettes e paltò – non si regge in piedi: probabilmente si è ubriacata di brutto quando ha saputo che doveva duettare con D'Alessio (pare che abbia provato la strada del certificato medico, senza esito).
Imbarazzanti.
VOTO: 3
MARLENE KUNTZ – Canzone per un figlio
Sul web impazzano le accuse di tradimento da parte dei fan della prima ora. Inevitabili, per loro questo palco è la morte della musica.
Godano – così conciato è il sosia di Mirko Vucinic, con tristi multistrati e improbabili multi grigi - parte troppo piano, bisbigliando frasi apparentemente sconnesse (noi abbiamo capito solo: “attonita”). Il ritornello invece è soffocato dall’enfasi ingiustificata della sezione archi e, insomma, il pezzo ne esce piuttosto male.
Tuttavia, il duetto con l’icona Patti Smith – “Impressioni di settembre” della P.F.M. e poi la celebre “Because the night” – è uno dei pochi momenti emozionanti di uno dei festival più brutti degli ultimi anni.
Lei, poi, sembra una prof di italiano vicina alla pensione: lezione di stile a Dalla e alla Bertè.
VOTO: 6,5
MATIA BAZAR – Sei Tu
Che tenerezza, sembrano dei Muppets, dei vecchi zii dalla faccia di gomma che accompagnano la vocalist vestita come Biancaneve.
Il pezzo, no, non l’abbiamo ascoltato: abbiamo abbassato l’audio.
Non potete chiedere troppo.
VOTO: 4 (sulla fiducia)
NINA ZILLI – Per sempre
La nostra punta di diamante puntava allo scudetto, ma si deve accontentare della Coppa Uefa.
La mandano a rappresentare l’Italia all’Eurofestival a Baku, Azerbaijan.
Povera.
Seppur annoiata dai paragoni con Mina e con Winehouse, Nina si diverte con Giuliano Palma e con Skye dei Morcheeba, bellissima tutta in bianco.
Ha classe e talento, forse il pezzo non era all’altezza.
VOTO: 6
NOEMI – Sono solo parole
Nonostante l’evidente pasticcio cromatico - capelli rosso fuoco, giacca verde cangiante e trucco bianco pallido – Noemi sfodera grinta e una bella voce, e nel complesso non fa una bruttissima figura (anche se, cazzarola, presentarla con “You Really Got Me” dei Kinks è davvero troppo).
Il pezzo è di Fabrizio Moro: scontato ma efficace.
Brava con Sarah Jane Morris, in versione Fiona di Shrek, nella cover da Tracy Chapaman.
VOTO: 5,5
PIERDAVIDE CARONE - Nani
Ha la gravissima colpa di aver scritto “Per tutte le volte che”, brano trash con cui Valerio Scanu ha vinto tempo fa la sezione giovani. Per questo motivo in un paese normale sconterebbe una pena tra i dieci e i dodici anni, mentre lui è a piede libero.
A poco servono l’accompagnamento di un Dalla in versione Biscardi e il duetto di un Grignani sopra le righe.
La sensazione è che l’amico Pierangelo Carbone – un passato illustre negli Hurlo – non lo avrebbe fatto rimpiangere.
VOTO: 4,5
SAMUELE BERSANI – Un pallone
A noi lui piace parecchio, anche se questo pezzo non è tra i suoi migliori.
Il duetto con Paolo Rossi, paragonato sul web al fratello brutto e senzatetto del Pinguino di Batman, non è memorabile; più divertente quello con Bregovic – presentato da Morandi come Goran Zuzminac (!, chi minchia se lo ricordava!), uno dei passaggi migliori del festival insieme all’inutile Ivanka che cita Ennio “Morriccione”.
Scontato il premio della critica (tra i giovani andato alla Erica Mou, non male infatti).
VOTO: 7
(grazie a Nilla, Walter, Ivan e Michele)
mercoledì 15 febbraio 2012
Uscito da qualche mese, questo prezioso DVD documenta il live della band di Kurt Cobain tenutosi al Paramount Theatre di Seattle, WA, l’ormai lontano 31 ottobre 1991, quando salì sul palco della propria città dopo i compaesani Mudhoney, tra i principali esponenti del nascente grunge, e i Bikini Kill.
Originariamente girato con pellicola 16 mm, il concerto è stato rimasterizzato in occasione del ventesimo anniversario di “Nevermind” - disco epocale, disco che ha cambiato la storia.
Il videoclip, poco più di un’ora di straordinaria musica, restituisce una band in ascesa e in assoluto stato di grazia: un sound grezzo e acerbo, ma potentissimo e viscerale.
Pochi fronzoli, molte emozioni.
Kurt Cobain si presenta con una maglia infeltrita e piena di buchi, grigia con collo a V, jeans e capelli spettinati davanti agli occhi, forse come forma di autodifesa per la sua timidezza. Sulla sua chitarra un grosso adesivo: “Vandalism: beautiful like a rock in a cop’s face”. Krist Novoselic con pizzetto, maglietta POWER e piedi rigorosamente scalzi; Dave Growl a torso nudo e i consueti tatuaggi sugli avambracci.
Pochissime parole, e una scenografia praticamente inesistente: Smells Like Teen Spirit con uno sfondo rosso acceso, la successiva About A Girl con un azzurro, e poi Polly che ancora vira sul rosso. Alcuni ragazzi salgono indisturbati sul palco e ballano fianco a fianco dei musicisti. Ogni tanto qualcuno fa surf lanciandosi sul pubblico.
La musica dei Nirvana non ha bisogno di effetti speciali.
Strepitosa la scaletta, tra “Nevermind” e “Bleach”, con qualche anticipazione da “Incesticide”: "Jesus Doesn't Want Me for a Sunbeam" (The Vaselines, ripresa anche in MTV Unplugged)/"Aneurysm"/"Drain You"/"School"/"Floyd the Barber"/"Smells Like Teen Spirit"/"About a Girl"/"Polly"/"Breed"/"Sliver"/"Love Buzz" (Shocking Blue)/"Lithium"/"Been a Son"/"Negative Creep"/"On a Plain"/"Blew"
L' edizione singolo DVD contiene 3 tracce bonus registrate l'8 marzo 1991 al Commodore Ballroom a Vancouver: “Breed”/”Territorial Pissings”/”Scoff”
Per i dizionari del presente e del futuro.
Alla voce: rock.
lunedì 6 febbraio 2012
Era destino inevitabile che, tale era stato l’hype dei mesi passati e tale l’attenzione su di lei da parte dei media, alla fine nessuno parlasse della sua musica.
Lana del Rey, al secolo Elizabeth Grant (classe 1986), newyorchese, ha finalmente pubblicato il suo primo album, preceduto da un’abilissima operazione di marketing; in molti le pronosticano da tempo un futuro da star. Che poi, di vero debutto non si tratta: la biondina dalla bellezza algida e dallo sguardo glaciale aveva già inciso un disco nel 2009 sotto lo pseudonimo di Lizzy Grant, poi misteriosamente ritirato dal mercato (assai più affascinante il nuovo nome d’arte, mutuato dalla diva di Hollywood Lana Turner, nota per le sue burrascose relazioni sentimentali, e la Ford Del Rey, una macchina di produzione sudamericana diventata obsoleta prima del tempo).
“Born To Die” è uscito a fine gennaio e già divampano le polemiche.
I duri e puri dell'alt rock sono rimasti delusi a causa di una produzione patinata e dagli arrangiamenti troppo pop.
Il popolo del web che l’aveva anzitempo adottata come nuova eroina – il videocilp di “Videogames”, primo singolo estratto, è da mesi tra i più cliccati sul tubo – l’ha pubblicamente rinnegata: si moltiplicano le parodie sui social network e le critiche sulla sua scarsa resa live (la sua esibizione al Saturday Night Live è stata definita "disastrosa", e c’è chi ha scritto che un ubriaco su un treno canterebbe meglio…; meglio è andata da Letterman qualche sera dopo, con il popolare showman che al termine dell’esibizione le dice: torna anche domani!)
Giudicate voi stessi:
http://www.youtube.com/watch?v=9zrvD-o8cII
http://www.youtube.com/watch?v=Hr52zTBp3oo
Alcuni dubitano della sua autenticità, ipotizzando che si tratti di una bufala colossale, di un prodotto studiato a tavolino da sedicenti strateghi del mercato discografico (ricordate The Great Rock’n’Roll Swindle, la grande truffa del Rock’n’Roll?). Altri ironizzano sul suo look ruffiano, artificiale e rétro; altri ancora sospettano pesanti iniezioni di chirurgia plastica, e le labbra a canotto alla Jessica Rabbit parrebbero avvalorare questa tesi.
La sua musica, dicevamo.
A noi ha lasciato un po’ di amaro in bocca.
I due brani già noti, “Videogames” e la title-track (con un video dark-gothic girato nel castello di Fountainebleu), sono due brani notevoli e dunque le aspettative, anche per noi, erano assai elevate. E invece il resto della collezione non si mantiene a quei livelli, invero eccellenti; meritano un cenno “Blue Jeans” – tra Portishead e Goldfrapp – l’orecchiabile “Dark Paradise” e infine la bella “Million Dollar Man”- tra Dido e Cat Power -, mentre "National Anthem" cita nell’incipit i Verve di "Bittersweet Symphony", che a loro volta avevano citato gli Stones di “You Can’t get Always What You Want” (“Money is the anthem/Of success/So before we go out/What's your address?”).
La aspettiamo alla prova del nove, anche se rischiamo di rimanere ancor più delusi: “Non credo che scriverò un altro disco”, ha dichiarato in questi giorni, ancora visibilmente scossa dalle critiche feroci, “Cosa potrei dire? Sento che ho già detto tutto quello che volevo dire”.
mercoledì 1 febbraio 2012
Idee vecchie

La voce è che il cantautore canadese – da tempo ritiratosi su un’isola sperduta dell’arcipelago greco e abbandonata l’attività – sia stato costretto a un frettoloso rientro a causa di un clamoroso crac finanziario; in altre parole, pare che il vecchio Leonard (77 anni) sia rimasto nello spazio di poche ore senza un becco di un quattrino.
Il Live in London del 2009, con il quale ripercorreva la sua gloriosa carriera, era infatti sembrato ad alcuni nient’altro che una furba operazione commerciale.
Sarà una storia vera, o saranno solo stupide malignità, questo non è dato a noi saperlo.
Resta il fatto che questa volta è tornato in studio per licenziare un nuovo album di materiale inedito, che ai suoi occhi suonano solo come un pugno di “vecchie idee”.
“Vecchie idee” che alle nostre orecchie suonano invece come l’ennesima dimostrazione della sua innata classe, della sua scrittura raffinata, del suo senso della misura e infine del suo humour nero e malinconico.
Lasciati da parti gli arrangiamenti orchestrali – a volte un po’ pomposi – delle ultime decadi, Cohen ritorna alla scarna e tenebrosa semplicità degli esordi. Anche i cori femminili che lo accompagnano in molti ritornelli stavolta restano in secondo piano, e non disturbano la struttura generale dei brani.
L’ottima opener Going Home – ascoltabile sul sito del New Yorker – è un autoritratto ("un pigro bastardo in giacca e cravatta") scritto con sarcasmo e ironia: “I love to speak with Leonard/He’s a sportsman and a shepherd/He’s a lazy bastard/Living in a suit/But he does say what I tell him/Even though it isn’t welcome/He will never have the freedom/To refuse/He will speak these words of wisdom/Like a sage, a man of vision/Though he knows he’s really nothing/But the brief elaboration of a tube”.
Sul sito http://www.leonardcohen.com/it/oldideas potete invece ascoltare Darkness, primo singolo, un blues apocalittico sul crepuscolo della vita e delle illusioni, un’oscurità senza fine (“Non ho futuro/So che mi restano pochi giorni/Il presente non è così piacevole/solo un mucchio di cose da fare/Pensavo che il passato mi sarebbe bastato/Ma l'oscurità ha inghiottito anche quello”).
Il disco registra anche qualche calo di tensione, ma nel complesso si mantiene su uno standard di alto livello, con picchi – oltre ai brani già citati – come Show Me The Place e Come Healing.
Nudo alla meta, nell’olimpo dei grandi:
Dylan, Cash, Waits.
sabato 28 gennaio 2012
domenica 15 gennaio 2012
La terra del ghiaccio
L’alba del nuovo anno – quello definitivo, secondo la profezia Maya – è ancora avara di novità, e dunque occorre guadarsi ancora indietro per ripescare tra le uscite di quello passato.
E quindi: notizie (non proprio fresche…) dalla lontana terra d’Islanda.
Lasciatasi alle spalle l’estremismo avanguardista e snob di “Medulla” e “Volta”, opere – va detto - quasi inascoltabili, Bjork ha dato alle stampe “Biophilia”, ovvero un lavoro che segna un timido ritorno all’elegante techno-pop degli esordi, soprattutto per ciò che riguarda gli episodi più radiofonici (Crystalline, Virus).
Tuttavia, l’artista ormai newyorchese d’adozione fa parlare di sè soprattutto per lo sfruttamento delle tecnologie digitali più trendy: ella concepisce i propri lavori in primo luogo come applicazioni da scaricare su tablet o smartphone, algoritmi "intelligenti" che non si limitano a proporre le canzoni dell’album ma che creano microcosmi multimediali – e variabili - intorno alle stesse (l’applicazione “Biophilia” è gratuita sull’AppStore, mentre le singole tracce sono sotto-applicazioni a pagamento).
Mah.
Dopo oltre tre anni di attesa – interrotti solamente dal secondo album solista di Jonsi – ecco invece un torrenziale live dei conterranei Sigur Ros – assai più legati alla terra natìa - tratto a dire il vero da un’esibizione non troppo recente: due concerti tenuti all’Alexandra Palace di Londra nel 2008.
Il titolo “Inni” significa dentro.
Ed è una bella esperienza quella di entrare dentro la musica sognante e misteriosa, eterea eppur emozionale, della band di Reykyavik, che resta comunque una delle migliori cose del panorama della musica popolare d’autore (post-rock?) degli ultimi tempi.
La confezione in vendita è composta da quattro vinili, due CD e un DVD contenete un film documentario della serata. Il live è un meraviglioso, e faticoso, compendio della carriera – 17 anni, si formarono infatti nel dicembre del 1994 prendendo il nome dalla sorellina neonata di Jonsi: Sigurros, ovvero Rosa della Vittoria - dei ragazzi islandesi. Quattordici brani che toccano e ripercorrono tutti i lavori, dall’ormai lontano “Von” all'ultimo “Með Suð I Eyrum Við Spilum Endalaust”. Le perle del disco: Hoppipolla, Saeglopur, Svefn-g-englar, Festival (cazzo, almeno un nome facile…)
La raccolta si conclude con l'inedito in studio Lúppulagið, un brano dall’atmosfera ambient che sembrerebbe anticiparci il loro futuro.
Non resta che attenderli alla prova.
lunedì 9 gennaio 2012
Archiviato l’anno appena trascorso con il trionfo annunciato – almeno per il pagellone di PiacenzaSera – di Justin Vernon aka Bon Iver, meritatamente un gradino o due sopra Wilco, P.J. Harvey, St. Vincent e James Blake, non resta che recuperare alcuni lavori assolutamente misconosciuti ma interessanti che, per ragioni di spazio, abbiamo in passato colpevolmente ignorato.
Ma anche qui non c’è spazio per tutti – verrebbero in mente i transalpini M83, i danesi Iceage, poi i Tuneyards, i Gang Gang Dance e anche il secondo album di Antlers, progetto solista di Peter Silberman, da Brooklyn – e dunque siamo costretti a scegliere solamente due titoli: Girls e Dirty Beachers.
I primi arrivano da San Francisco e sono capitanati da Christopher Owens, hipster magro e biondo con una biografia che sembra scritta da un Frank Capra in acido: orfano di padre in tenerissima età, cresciuto dalla setta religiosa Children of God dopo aver girovagato per anni con la madre prostituta, infine adottato da un milionario di Beverly Hills, che non si sa se è un lieto fine.
Il loro rock chitarroso e abrasivo si richiama alla migliore scuola americana anni ’80, epoca pre-grunge: Husker Du e Replacements.
Si ascoltino Vomit – il primo singolo estratto dall’album, un lungo lamento che fa pensare a Nick Cave – poi My Ma (palesemente ispirata dal Neil Young di Rust Never Sleeps), la cavalcata psych Die e la melodica Just a Song.
Quello di Alex Zhang Hungtai aka Dirty Beaches è invece un dischetto sporco e imperfetto (dura poco più di venti minuti, ma attenzione: è un vero gioiellino) scovato grazie a Sentire Ascoltare, che lo ha inserito tra le rivelazioni del 2011. L’atmosfera – lo dice il titolo – dovrebbe essere ispirata allo Springsteen crepuscolare di Nebraska. Si sente l’influenza anche dello psichobilly distorto e scomposto di Cramps e Suicide e della canzone d’autore di scuola francese; con echi di romanticismo tenebroso da Giant Sand, Portishead e Tindersticks.
Un grande dischetto.
martedì 20 dicembre 2011
Il pagellone del 2011
20
TOM WAITS – Bad As Me
VINICIO CAPOSSELA – Marinai, Profeti e Balene
Il paragone ad alcuni non piacerà, ma se esiste un Tom Waits italiano, allora quello è Capossela. L’ultima opera del cantautore lucano – recensito in esclusiva per PiacenzaSera dall’amico Big - è un concept che ha per tema il mare, con particolare riferimento alle opere di Melville e la mitologia omerica, aperto a un’incredibile varietà di sonorità.
E anche quel vecchio bastardo di Waits non tradisce le attese: probabilmente non aggiunge nulla di nuovo al suo vasto repertorio, ma stupisce ancora con la sua musica elegante e desolata, in equilibrio tra ballate pianistiche di sconfinata dolcezza - seppur avvolte dal fumo e dalla polvere - e i suoi blues sporchi, bislacchi e asimmetrici.
19
TINARIWEN - Tassili
GROUP DOUEH – Zaina Jumma
Dall’Africa nera due dischi bellissimi.
I TINARIWEN, dal Mali, sono ormai noti anche qui da noi.
Tassili – il loro disco più malinconico e intimista - ripropone il celebre Tishuomarem, ovvero un’imperdibile miscela di world-music, tradizioni tuareg e desert-blues.
I GROUP DOUEH, dalla Mauritania, sono invece una sorpresa. Per usare le parole di Storiadellamusica.it: percussioni indigene, reiterazioni psichedeliche, bordone di organo tenuto in sottofondo, richiami tribali, ghirigori afro di acustica che vanno a disegnare complessi raga poliritmici, FARNK ZAPPA che rilegge l’antico folklore aurale dei beduini.
18
THE DECEMBERISTS – The King Is Dead
Girerà a lungo sui nostri Ipod: terminava così la nostra recensione, lo scorso gennaio.
E così è stato.
La band di Portland, Oregon, riscopre le radici e l’amore per la tradizione folk-rock in una calorosa e calda profusione di mandolini, fise e armoniche a bocca: una sorta di Bringing It All Back Home, insomma.
17
ANNA CALVI – Anna Calvi
Le charts inglesi vedono la lotta tra ADELE e FLORENCE & THE MACHINE, ma il gentil sesso non domina solamente nel pop – seppur sofisticato - da classifica.
Prendiamo l’eccellente esordio di Anna Calvi, nuova sacerdotessa dark osannata da BRIAN ENO e NICK CAVE: una produzione assai raffinata, quasi perfetta, che forse toglie un po’ di calore all’interpretazione di Anna, a tratti quasi glaciale.
16
ELBOW - Build A Rocket Boys!
LOW – C’mon
Le stelle polari dei primi sono i capostipiti dell’art-rock britannico colto e ambizioso: ENO, FRIPP, WYATT, SYLVIAN. E soprattutto GABRIEL.
Vero: svanito l’effetto novità, qua e là affiora il manierismo o un’enfasi ingiustificata, o una certa magniloquenza. La stessa critica mossa anche ai GENESIS: e noi che abbiamo amato alla follia Foxtrot e Selling England By The Pound ci teniamo stretti anche gli ELBOW.
Reduci da un’improvvida svolta elettronica, i LOW tornano alle loro radici, ovvero alle sonorità slowcore (SLINT, CODEINE) che ne avevano caratterizzato i fulgidi esordi.
15
VACCINES – What Did You Except From The Vaccines?
Si sono guadagnati, indubbiamente, il Grammy – dovrebbero inventarlo, se già non esiste - come miglior titolo dell’anno: “Che cosa vi aspettavate dai Vaccines?”, tante e tali erano le aspettative per il loro esordio. Questi esponenti della working class londinese suonano un garage-rock godibile e divertente (STROKES), con venature dark e similitudini con la scena wave (FRANZ FERDINAND), mettendo insieme una manciata di pezzi niente male.
Poi, per passare alla storia (del Dio Rock, si intende) servirà ben altro.
14
M83 – Hurry Up, We’re Dreaming
Esponenti del cosiddetto revival shoegaze – insieme agli ZOLA JESUS, che qui collaborano nell’intro di apertura al doppio album – i francesi M83 hanno letteralmente diviso la critica, raccogliendo stroncature feroci e commenti estasiati (Midnight City è addirittura il pezzo dell’anno per Pitchfork e per Stereogum).
A noi piace la loro elettronica così epica, in sospensione, tra MERCURY REV e MY BLOODY VALENTINE.
13
IRON & WINE - Kiss Each Other Clean
DESTROYER - Kaputt
IRON&WINE è il moniker del texano Sam Beam, giunto al quarto album. Frettolosamente catalogato sotto l’etichetta folk-rock, propone una grande varietà di soluzioni sonore: arrangiamenti orchestrali, standard jazz, ballate West Coast, blues e pulsioni etniche.
DESTROYER sta invece per DAN BEJAR, da Vancouver, Canada.
Il suo è un soft-rock assai elegante e rarefatto, dall’atmosfera vagamente jazzy e caratterizzato da sezioni ritmiche anni ottanta.
12
KASABIAN - Velociraptor
Vallo a sapere, il motivo per cui i Kasabian non godano qui da noi di buona stampa.
Forse perché fondamentalmente sono degli stronzi: atteggiamento strafottente, cantato arrogante e look tamarro.
Velociraptor conferma la band di Leicester come una delle migliori del panorama britannico, certamente meno ripetitivi rispetto alle next big things d’oltremanica dello scorso decennio (ARCTIC MONKEYS, BLOC PARTY, KAISER CHIEFS).
Insomma, saranno pure stronzi, questi Kasabian, ma sanno fare tutto e bene.
11
THE WEEKND – House Of Balloons
Il progetto The Weeknd risponde al nome del cantante canadese Abel Tesfaye, di evidenti origini eritree.
Il suo mixtape di debutto è totalmente autoprodotto, ha una bellissima cover vintage ed è disponibile sul web in free download.
Uno straordinario R&B elettronico.
10
GIRLS – Father, Son, Holy Ghost
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
La band di Christopher Owens - cresciuto nella setta Children of God e poi "riscattato" da un milionario di San Francisco – replica il successo dei primi lavori con una nuova cavalcata psichedelica ed elettrica, permeata da un suono old e da un’attitudine hipster.
Una delle nuove grandi band americane.
09
MEGAFAUN - Megafaun
REAL ESTATE - Days
A completare il trionfo dell’Americana, altre due bands eccezionali.
I REAL ESTATE provano a colmare la nostra nostalgia per le chitarre jingle-jangle alla BYRDS e CSN&Y intrecciando arpeggi acustici cesellati con finezza e grande bravura.
I MEGAFAUN, dalla North Carolina, con questo disco omonimo ci regalano uno straordinario compendio enciclopedico del rock a stelle e strisce.
08
J. MASCIS - Several Shades Of Why
MASCIS esibisce una strepitosa zazzera fluente e color grigio cenere, ed è il leader dei DINOSAUR JR, band campione del noise primi anni ’90: tra i reduci di quella straordinaria stagione, ottimi anche i lavori di STEPHEN MALMKUS (ex PAVEMENT) e BILL CALLAHAN (ex SMOG).
Questo disco acustico conferma la sua ritrovata vena compositiva. Depurate dai consueti muri di chitarrone, da feedback e scariche violente di amplificatori, restano le sue melodie, piacevoli e struggenti, e la sua voce nasale, indolente, sempre piu’ clone dell’idolo di sempre, NEIL YOUNG.
07
VERDENA - Wow
I ragazzi di Albino (Bergamo) sono diventati grandi: superata la fase di sterile copiatura del modello SONIC YOUTH, danno alle stampe un mastodontico lavoro composto da ben ventisette pezzi brevi e concisi, che non annoia mai grazie a una notevole varietà (e maturità) compositiva e a continui cambiamenti di scena.
Assolutamente il disco italiano dell’anno.
06
FLEET FOXES – Helplessness Blues
Il blues della vulnerabilità è il secondo album per il combo di Seattle, una delle rivelazioni di questo scorcio di inizio millennio, e propone ancora uno straordinario folk barocco e allo stesso tempo leggero, morbido e flautato, fatto di cori e melodie ariose; solidamente ispirato al mondo hippy degli anni ’70.
05
JAMES BLAKE – James Blake
Il giovanissimo (1989) e talentuoso Dj e produttore inglese – inserito dalla BBC al secondo posto del "Sound of 2011" – spacca letteralmente con le sue basi dubstep e il suo minimalismo elettronico, mai troppo compiaciuto o sintetico, ma anzi permeato da una vena soul (è cresciuto ascoltando STEVIE WONDER, D’ANGELO e SLY & FAMILY STONE) e da una voce capace di bassi profondi e di calde intonazioni.
Il gospel come dovrebbe suonare nel XXI secolo.
04
ST. VINCENT
Annie Clark, 28 anni, utilizza un nick name preso bizzarramente in prestito dal Saint Vincent’s Catholic Medical Center, ovvero l’ospedale in cui morì il poeta Dylan Thomas – colui che ispirò lo pseudonimo a un certo ROBERT “BOB” ZIMMERMANN.
La polistrumentista texana ci regala uno dei dischi più belli e intensi dell’anno: la sua musica è tecnicamente perfetta, onirica e glaciale, grazie all’abbandono delle sovraincisioni che avevano appesantito le opere del recente passato; non mancano persino i ritornelli-killer, come nel singolo danzereccio Cruel.
03
P.J. HARVEY – Let England Shake
La dispora OASIS (Noel solista, Liam con i BEADY EYE) si traduce in musica leggera e nostalgica, i COLDPLAY si divertono a duettare con RIHANNA e sbancano le classifiche di vendita, i RADIOHEAD si sono involuti in un’elettronica minimale di classe, tuttavia ostica e monocorde.
Tra i big della scena britannica, optiamo per l’ennesimo capolavoro di Polly Jean.
Let England Shake mette d’accordo tutti, ed entra in tutti polls di fine anno.
E chi siamo noi, per lasciarlo fuori?
02
WILCO – The Whole Love
I migliori rappresentanti dell’Americana contemporanea tornano con un nuovo capolavoro per la loro neonata etichetta, dBpm.
L’apertura è eccezionale, con Art Of Almost, un funky elettrico da lasciare senza fiato, senza alcun dubbio uno dei brani dell’anno.
Dopo, si torna alla normale amministrazione WILCO.
Una normale amministrazione di altissimo livello, si intenda: da oltre 15 anni registrano dischi ispirati e ottimamente suonati.
01
BON IVER – Bon Iver, Bon Iver
Vittoria per distacco per Justin Vernon.
Non era facile dare un seguito a For Emma, Forever Ago. Si trattava di una raccolta di esili ed eteree canzoni, composte dal leader ritiratosi in un capanno isolato del Wisconsin dopo una delusione amorosa e al termine di una lunga malattia. Questo secondo album eponimo – anzi doppiamente eponimo, Vernon preferisce chiamarlo Bon Iver, Bon Iver – non cade nel tentativo di ripetere quel mood unico e irripetibile, ma invece arricchisce il loro repertorio di nuove trame, di un sound piu’ strutturato, di arrangiamenti piu’ sofisticati e orchestrali, senza però tradire gli elementi più tipici del suo stile ormai codificato: la voce in falsetto, trattata grazie all’uso del vocoder e a sovraincisioni multiple, le suggestive e malinconiche melodie a cavallo tra la tradizione folk ed emotività soul, una comunicatività unica malgrado i testi quasi incomprensibili.
Nel frattempo è infatti arrivato il successo, quello con la S maiuscola, e da lì collaborazioni illustri ed eterogenee e attestati di stima. Insomma, deve aver pensato Justin: cosa cazzo ci torno a fare in quel fottuto capanno del Wisconsin?
Siamo in presenza di un vero artista: BON IVER è – in campo musicale - la cosa piu’ bella che ci è capitata da qualche anno a questa parte.
domenica 11 dicembre 2011
Real Estate
E' quasi tempo di chiudere l'anno - basta di finirla, diceva quel tale – ed è quasi il momento di stendere la consueta playlist di fine anno; c’è ancora il tempo, tuttavia, per segnalare ai lettori alcune uscite recenti.
Da Manchester - orfana ormai da secoli dellaMadchester che fu - arrivano i Wu Lyf, acronimo per "World Unite! Lucifer Youth Foundation!”, ovvero molto di più di una semplice band: sono un centro sociale, una società di produzione, una no profit, un collettivo anarchico di artisti e graffitari.
Sound energico seppur cupo e dalle venature dark-punk, il disco piace per la sua compattezza e per una scrittura già matura, non scevra da una certa magniloquenza da musica sacra (vedi profusione di organi e cori millenaristici e/o apocalittici, a là Swans e Crime and City Solution).
In concomitanza con l’uscita di un mastodontico Greatist Hits dei R.E.M. - ce ne era proprio bisogno? Trentasette brani straordinari che ripercorrono tutta la straordinaria carriera del gruppo di Athens, e tre inediti non irresistibili: We All Go Back To Where We Belong, A Month Of Saturdays e Hallelujah (tranquilli, non è l’ennesima cover da Cohen) – i Real Estate di Matthwe Mondanile provano a colmare la nostra nostalgia per le chitarre jingle-jangle alla Byrds e CSN&Y.
Bella cover (l’argomento, ovvio, è la speculazione edilizia), arpeggi acustici - semplici e forse un poco monocordi - eppure cesellati con finezza e grande bravura.
Con il tempo, alcuni brani entrano nel cuore: Easy, It’s Real, Municipality, Wonder Years e infine la splendida Younger Than Yesterday (dicevamo dei Byrds…)
Per ultimi gli Atlas Sound, progetto collaterale di Bradford Cow, leader dei Deerhunter e figura emergente del movimento indie.
Meno rumorosi e più onirici rispetto agli autori di Halcyon Digest, uno dei dischi più incensati del 2010, propongono un folk psichedelico leggero e fluido, persino acquatico – a noi vengono in mente lo Steve Hillage di Fish Rising e certe cose dei Gong –, come suonato in apnea.
Soffice ed elegante, la colonna sonora ideale per una stressante giornata di lavoro in ufficio.
domenica 4 dicembre 2011
Bad


Il buonismo - ai tempi del governo tecnico - torna inevitabilmente alla ribalta, e fortuna che ci sono in giro ancora dei cattivi.
Come Lou Reed e i Metallica, ad esempio.
Se avete visto la copertina di alcune riviste in edicola, con quella foto in cui i nostri sfoggiano un look total black e dei ghigni da duri di periferia, un brivido avrà percorso la vostra schiena.
E che dire della cover di Lulu (ispirata da una piece teatrale composta dal tedesco Frank Wedekind oltre cento anni fa, sul girovagare sbandato di una ragazza afflitta e tossica), con un’inquietante manichino femminile dalle braccia monche e una scritta che pare fatta con il sangue?
Cattivissimi.
La strombazzata collaborazione tra i mostri sacri del metal e il leggendario ex-leader dei Velvet Underground si rivela tuttavia un album mastodontico, rumoroso, troppo; e lungo, lunghissimo; a volte inutile; spesso mortalmente noioso.
Confessiamo di non essere riusciti a completarne l’ascolto.
Un altro a essere indiscutibilmente cattivo è Tom Waits: voce rauca e aura da bohemien maledetto, abuso costante di alcol e tabacco, pessime frequentazioni.
Il suo nuovo lavoro, a quasi sette anni da Real Gone, si intitola infatti Bad As Me.
Il cantautore di Pomona non tradisce le attese.
Probabilmente non aggiunge nulla (o quasi) di nuovo al suo ormai vasto repertorio, ma è innegabile come egli sia ancora capace di affascinare e di ammaliarci con la sua musica elegante e desolata, giocando con misura ed equilibrio all’eterno dualismo - mai sopito - tra le ballate pianistiche di sconfinata dolcezza, seppur avvolte dal fumo e dalla polvere (New Year’s Eve, Kiss Me, Pay Me) e i blues sporchi, bislacchi e asimmetrici (la title-track, Hell Broke Luce e il trittico di partenza Chicago, Raised Right Man e Talking At The Same Time, che ci riporta ai capolavori degli anni Ottanta, quelli di Rain Dogs per intenderci).
Insomma: cattivo sì, ma non patetico.
sabato 19 novembre 2011
Le charts inglesi vedono la lotta tra Adele e Florence And The Machine – interessante il suo Ceremonials, nei negozi da poche settimane – ma il gentil sesso non domina solamente nel pop da classifica.
Annie Clark, 28 anni, utilizza un nick name preso bizzarramente in prestito dal Saint Vincent’s Catholic Medical Center, ovvero l’ospedale in cui morì il celebre poeta Dylan Thomas – colui che ispirò lo pseudonimo a un certo Robert “Bob” Zimmermann.
Giunta al terzo atto di una trilogia ideale (Marry Me, 2007; Actor, 2009), la polistrumentista texana non delude le attese e - con l’aiuto di preziose collaborazioni (Midlake) – ci regala uno dei dischi più belli e intensi di questo semestre, in uscita per la mitica label indipendente 4AD.
L’influenza di Bjork è evidente sin dall’opener Chloe In The Afternoon, ma in alcuni passaggi successivi (l’algida Dilettante, Surgeon) emerge una personalità originale e art-rock oriented (Peter Gabriel, Kate Bush, David Byrne); la sua musica è tecnicamente perfetta, onirica e glaciale, questo anche grazie all’abbandono degli arrangiamenti barocchi e delle sovra incisioni che avevano appesantito le opere del recente passato; non mancano persino ritornelli-killer, come nel singolo danzereccio Cruel.
Più ostico - e meno convincente - il lavoro di un’altra artista assai promettente, anch’essa one-girl-band, ovvero quella Shara Worden meglio conosciuta come My Brightest Diamond, che vanta anch’ella collaborazioni illustri (Decemberists, Clogs, l’immancabile Sufjan Stevens).
Nato su commissione, questo suo All Things Will Unwind si avvale dell’apporto dei fiati e degli archi dell’orchestra yMusic Ensemble e dovrebbe rappresentare una sorta di opera-concerto. Il suo pop da camera è raffinato e ambizioso, quasi da musical teatrale, e la sua formazione lirica emerge senza esitazioni.
Eppure, sulla lunga distanza, l’ascolto si fa difficile e la noia rischia di far capolino.
Brani come Be Brave e Reaching Through To The Other Side, tuttavia, non mancheranno per nessun motivo nelle nostre compilation di fine anno.
domenica 6 novembre 2011
Vallo a sapere, il motivo per cui i Kasabian – incensati e idolatrati in madrepatria – non godano qui da noi di buona stampa.
Forse perché fondamentalmente sono degli stronzi: atteggiamento arrogante e sfrontato da workingclass dei sobborghi e look tamarro, in particolare quello del leader Sergio Pizzorno, di origini genovesi.
Non deludere le attese dopo l’ottimo West Rider Pauper Lunatic Asylum, il loro successo planetario del 2009, non era impresa semplice.
Tuttavia questo Velociraptor conferma la band di Leicester come una delle migliori del panorama britannico, panorama peraltro oggi non entusiasmante. Certamente più bravi a non ripetersi rispetto alle tante next big things d’oltremanica dello scorso decennio (Arctic Monkeys, Bloc Party, Kaiser Chiefs).
Insomma, saranno pure stronzi, questi Kasabian, ma sanno fare tutto e bene.
Nella nuova raccolta – eclettica e zeppa di citazioni: il primo singolo Days Are Forgetten fa addirittura il verso a un monumento come Immigrant Song dei Led Zeppelin - non mancano il clubbing duro stile Prodigy (Switchblade Smiles e la title-track, forse il momento più debole insieme all’elettronica insipida di I Hear Voices), il blues-rock spavaldo tra Primal Scream e Rolling Stones (Re-wired, da non perdere il videoclip nel quale i quattro sono impegnati in un inseguimento a bordo di una Fiat 126 rossa), il brit-pop classico (Goodbye Kiss e Man Of Simple Pleasures) e i Beatles lisergici di Sgt Pepper (La Fee Verte e Neon Noon).
Ma le vere gemme dell’album sono a nostro parere due episodi dall’atmosfera vagamente orientaleggiante, ovvero l’iniziale Let’s Roll Just Like We Used To (la memoria va a Spirit e Kaleidoskope) e l’ipnotica Acid Turkish Bath (Shelter From The Storm), probabile omaggio ai grandi Chemical Brothers di The Private Psychedelic Reel.

lunedì 31 ottobre 2011
Un titolo brutto, bruttissimo.
Una copertina altrettanto brutta.
Un singolo tutto sommato innocuo, Every Teardrop is a Waterfall, che esibisce una metafora talmente immagnifica (ogni lacrima è una cascata d’acqua; ma più avanti ritroviamo anche cose del tipo "the sky is blue"), roba da Baci Perugina.
C’erano le premesse per stroncare – senza nemmeno ascoltarlo - il nuovo lavoro della band inglese, da tempo presa di mira dalla critica più alternativa e militante a causa della recente involuzione rispetto alla magia degli esordi – ricordate Trouble e Yellow? – e di una serie di imbarazzanti accuse di plagio (tra gli altri, i Kraftwerk).
Eppure.
Eppure questo disco dal titolo così brutto è un disco che vale comunque la pena ascoltare: persino il famigerato (almeno sulla carta) duetto elettrodance con la regina dello stasystem Rihanna – Princess Of China - non riesce a convincerci del contrario.
Ma.
Mylo Xyloto si apre con il breve intro della title-track, uno dei tre strumentali del lotto, e con il caleidoscopio psichedelico di Hurts Like Heaven - qui la mano di Eno si sente; ma il livello scende subito con la mediocre Paradise, che parte come un pezzo di Moby ma si rivela come il singolo perfetto da charts, e con la successiva Charlie Brown che sembra ammiccare ai Muse. Non riescono a sollevare il livello i brani tra i più tipici del loro repertorio, Major Minus e Don’t Let It Break Your Heart. Infine c’è ampio spazio per le malinconiche softs (U.F.O., Us against the World e Up In Flames, la migliore) purtroppo quasi mai al livello di quelle che le hanno precedute.
Tuttavia, Martin se ne sbatte.
Pare essersi scrollato di dosso le tensioni del post-successo mondiale e le ansie di essere considerato il più bravo (“Se qualcuno pensa che io sia un testa di cazzo, bene, che ascolti i dischi di qualcun altro. Non siamo in un regime totalitario. Nessuno è obbligato ad ascoltare i Coldplay” o anche: “Lo sappiamo, i nostri testi sono merda pura”) e tira furbescamente avanti per la sua strada, con il suo pop tecnicamente perfetto – quanti gruppi pop all’altezza dei Coldplay conoscete? – ma ormai un po’ stanco, in bilico tra la riproposizione della consueta epica alla U2 e alcune, timide, aperture alla ricerca di un nuovo sound.
Forse non resta che seguire il consiglio di Chris Martin.
Una copertina altrettanto brutta.
Un singolo tutto sommato innocuo, Every Teardrop is a Waterfall, che esibisce una metafora talmente immagnifica (ogni lacrima è una cascata d’acqua; ma più avanti ritroviamo anche cose del tipo "the sky is blue"), roba da Baci Perugina.
C’erano le premesse per stroncare – senza nemmeno ascoltarlo - il nuovo lavoro della band inglese, da tempo presa di mira dalla critica più alternativa e militante a causa della recente involuzione rispetto alla magia degli esordi – ricordate Trouble e Yellow? – e di una serie di imbarazzanti accuse di plagio (tra gli altri, i Kraftwerk).
Eppure.
Eppure questo disco dal titolo così brutto è un disco che vale comunque la pena ascoltare: persino il famigerato (almeno sulla carta) duetto elettrodance con la regina dello stasystem Rihanna – Princess Of China - non riesce a convincerci del contrario.
Ma.
Mylo Xyloto si apre con il breve intro della title-track, uno dei tre strumentali del lotto, e con il caleidoscopio psichedelico di Hurts Like Heaven - qui la mano di Eno si sente; ma il livello scende subito con la mediocre Paradise, che parte come un pezzo di Moby ma si rivela come il singolo perfetto da charts, e con la successiva Charlie Brown che sembra ammiccare ai Muse. Non riescono a sollevare il livello i brani tra i più tipici del loro repertorio, Major Minus e Don’t Let It Break Your Heart. Infine c’è ampio spazio per le malinconiche softs (U.F.O., Us against the World e Up In Flames, la migliore) purtroppo quasi mai al livello di quelle che le hanno precedute.
Tuttavia, Martin se ne sbatte.
Pare essersi scrollato di dosso le tensioni del post-successo mondiale e le ansie di essere considerato il più bravo (“Se qualcuno pensa che io sia un testa di cazzo, bene, che ascolti i dischi di qualcun altro. Non siamo in un regime totalitario. Nessuno è obbligato ad ascoltare i Coldplay” o anche: “Lo sappiamo, i nostri testi sono merda pura”) e tira furbescamente avanti per la sua strada, con il suo pop tecnicamente perfetto – quanti gruppi pop all’altezza dei Coldplay conoscete? – ma ormai un po’ stanco, in bilico tra la riproposizione della consueta epica alla U2 e alcune, timide, aperture alla ricerca di un nuovo sound.
Forse non resta che seguire il consiglio di Chris Martin.
sabato 29 ottobre 2011
Scritture pazze, 01
Vieni svegliato in piena notte da un rumore sospetto.
Ti sembra provenire dal piano di sotto.
Potrebbe essere uno scassinatore, ti chiedi mentre ancora ti stropicci gli occhi. Nell’ultima settimana hanno svaligiato già tre villette nel quartiere, un’immensa distesa di villette tutte uguali ai margini della tangenziale. Te l’ha detto il commissario, l’ahi incrociato proprio stamattina in edicola. Restate all’erta, ti ha consigliato. Ci sono un sacco di balordi in giro, oggigiorno.
Accendi la luce sul comodino e, nel farlo, travolgi il bicchiere con la dentiera di tua moglie. Cerchi di mettere le pantofole, senza trovarle.
Scendi da basso e ti acquatti dietro il paravento intarsiato del soggiorno, inutile regalo di nozze.
Ora il silenzio avvolge la casa.
Resti in attesa, osservando il quadro sopra il cassettone, quello con la cornice dorata, che raffigura tuo nonno. Che figura lugubre, con quel pastrano nero, quel naso adunco e quegli occhi dall’aspetto equino. Faceva l’orologiaio, aveva una bottega a pochi metri dalla stazione, ma così conciato sembra un impresario delle pompe funebri. Ti massaggi lo stomaco rigonfio infilandoti una mano sotto il pigiama di flanella. Ho esagerato con il pesce, ieri sera, pensi. Dovresti fare più attenzione, il gastroenterologo te l’ha detto di fare la dieta, ma come prepara il branzino il vecchio Gino non ce n’è. E quelle sardine affumicate…
Passano i minuti. Ancora nessun rumore.
Vai in cucina e ti versi un po’ d’acqua, poi cerchi l’alka seltzer nell’armadietto dei medicinali. Prima di tornare in soggiorno, ti affacci alla finestra che da sul retro, sulla rampa di autobloccanti che porta al garage.
Tutto tranquillo.
Forse ti sei sbagliato. Forse non c’è stato nessun rumore. Forse sei solo ancora rintronato dalla mangiata di ieri sera.
E allora te ne torni a letto, sbadigliando, e mentre a torni a letto inciampi nel tappeto finto persiano. Stronzo di un tappeto, mormori.
(Vocaboli: DENTIERA, COMMISSARIO, SARDINE, POMPE FUNEBRI, OROLOGIAIO)
Ti sembra provenire dal piano di sotto.
Potrebbe essere uno scassinatore, ti chiedi mentre ancora ti stropicci gli occhi. Nell’ultima settimana hanno svaligiato già tre villette nel quartiere, un’immensa distesa di villette tutte uguali ai margini della tangenziale. Te l’ha detto il commissario, l’ahi incrociato proprio stamattina in edicola. Restate all’erta, ti ha consigliato. Ci sono un sacco di balordi in giro, oggigiorno.
Accendi la luce sul comodino e, nel farlo, travolgi il bicchiere con la dentiera di tua moglie. Cerchi di mettere le pantofole, senza trovarle.
Scendi da basso e ti acquatti dietro il paravento intarsiato del soggiorno, inutile regalo di nozze.
Ora il silenzio avvolge la casa.
Resti in attesa, osservando il quadro sopra il cassettone, quello con la cornice dorata, che raffigura tuo nonno. Che figura lugubre, con quel pastrano nero, quel naso adunco e quegli occhi dall’aspetto equino. Faceva l’orologiaio, aveva una bottega a pochi metri dalla stazione, ma così conciato sembra un impresario delle pompe funebri. Ti massaggi lo stomaco rigonfio infilandoti una mano sotto il pigiama di flanella. Ho esagerato con il pesce, ieri sera, pensi. Dovresti fare più attenzione, il gastroenterologo te l’ha detto di fare la dieta, ma come prepara il branzino il vecchio Gino non ce n’è. E quelle sardine affumicate…
Passano i minuti. Ancora nessun rumore.
Vai in cucina e ti versi un po’ d’acqua, poi cerchi l’alka seltzer nell’armadietto dei medicinali. Prima di tornare in soggiorno, ti affacci alla finestra che da sul retro, sulla rampa di autobloccanti che porta al garage.
Tutto tranquillo.
Forse ti sei sbagliato. Forse non c’è stato nessun rumore. Forse sei solo ancora rintronato dalla mangiata di ieri sera.
E allora te ne torni a letto, sbadigliando, e mentre a torni a letto inciampi nel tappeto finto persiano. Stronzo di un tappeto, mormori.
(Vocaboli: DENTIERA, COMMISSARIO, SARDINE, POMPE FUNEBRI, OROLOGIAIO)
martedì 25 ottobre 2011
Pop.it 2.0
Settimana scorsa, raccontandovi dell’addio alle scene di Ivano Fossati, abbiamo accennato alla nuova scuola cantautoriale italiana.
Esiste davvero?
Proviamo allora ad ascoltare alcuni tra i più interessanti artisti emersi qui da noi negli ultimi anni.
Bugo per la verità non è per nulla una novità.
Giunto ormai all’ottavo lavoro, Cristian Bugatti – Novara, 1973; ma attualmente vive in India (Nuova Delhi) dove nel frattempo ha intrapreso una carriera parallela nel campo della videoarte e della scultura contemporanea - conferma vizi e virtù del suo recente passato.
Certo, è cresciuto molto, non è più solamente la fotocopia stramba di Beck. Lo scarno vocabolario degli inizi si è via via arricchito di accenti acid-rock, atmosfere lisergiche alla Flaming Lips (I miei occhi vedono) e persino synthpop (Mattino), senza rinunciare alla sua originalità e alla sua vena leggermente squilibrata.
Tuttavia anche stavolta l’ascolto lascia l’amaro in bocca, come un senso di incompiuta: pare insomma di trovarsi di fronte all’ennesima (grande) promessa non mantenuta fino in fondo.
Tra le tracce più convincenti l’eterea Il sangue mi fa vento, E comunque voglio te e Città cadavere; quest’ultima, poi, sembra scritta su misura per la nostra pigra e sonnolenta provincia.
(illustrazione: Alberto Madrigal)
Dario Brunori, calabrese di Cosenza, miglior esordio al Premio Ciampi del 2009, supera con “Vol. 2 - Poveri Cristi” le angosce tardo-adolescenziali del primo album per approdare a una scrittura più sicura e matura, concentrata su un iperrealismo grottesco che fa i conti con la quotidianità povera e disillusa del sud della penisola. Alcuni ritratti riusciti: Il giovane Mario, che deve fare i conti col salario - ispirata alla graffiante satira del conterraneo Rino Gaetano -, l’omaggio al padre scomparso (Bruno mio dove sei?), l’amore perduto di Tre capelli sul comò. Cameo di Dente in Il suo sorriso.
Lo stesso Dente, atteso alla prova del quarto album dopo il soprendente L'amore non è bello del 2009, si conferma sempre in bilico tra farsa e ironia: geniale e al tempo stesso demenziale, innovativo e legato alla tradizione.
Battisti, De Gregori e la poesia di Ungaretti sono i riferimenti che si sprecano nei confronti del suo lavoro, per nulla un disco difficile e inaccessibile, che scivola via - al contrario – con inusuale leggerezza. Il fidentino canta di amori impossibili (Io sono il lungo inverno e tu la bella estate, siamo rette parallele), amori finiti (L'ultimo amore non si scorda fino a che non ci pensi più) e tradimenti (Più che il destino è stata l'Adsl che vi ha unito), e si candida ad essere il menestrello degli sfigati in amore dei nostri tempi. Il singolo Saldati è leggiadra e romantica in stile La Crus, e sarebbe un hit se a cantarla fosse un big (Portami a vedere il cielo questa sera anche se è nuvolo); Piccolo destino ridicolo rimanda allo stesso Bugo, La settimana enigmatica è un blues sgangherato, Da Varese a quel paese una marcetta.
Il disco di Dente sarà presentato in anteprima nazionale al Fillmore di Cortemaggiore venerdì 28 ottobre, un'occasione da non perdere.
Esiste davvero?
Proviamo allora ad ascoltare alcuni tra i più interessanti artisti emersi qui da noi negli ultimi anni.
Bugo per la verità non è per nulla una novità.
Giunto ormai all’ottavo lavoro, Cristian Bugatti – Novara, 1973; ma attualmente vive in India (Nuova Delhi) dove nel frattempo ha intrapreso una carriera parallela nel campo della videoarte e della scultura contemporanea - conferma vizi e virtù del suo recente passato.
Certo, è cresciuto molto, non è più solamente la fotocopia stramba di Beck. Lo scarno vocabolario degli inizi si è via via arricchito di accenti acid-rock, atmosfere lisergiche alla Flaming Lips (I miei occhi vedono) e persino synthpop (Mattino), senza rinunciare alla sua originalità e alla sua vena leggermente squilibrata.
Tuttavia anche stavolta l’ascolto lascia l’amaro in bocca, come un senso di incompiuta: pare insomma di trovarsi di fronte all’ennesima (grande) promessa non mantenuta fino in fondo.
Tra le tracce più convincenti l’eterea Il sangue mi fa vento, E comunque voglio te e Città cadavere; quest’ultima, poi, sembra scritta su misura per la nostra pigra e sonnolenta provincia.
(illustrazione: Alberto Madrigal)
Dario Brunori, calabrese di Cosenza, miglior esordio al Premio Ciampi del 2009, supera con “Vol. 2 - Poveri Cristi” le angosce tardo-adolescenziali del primo album per approdare a una scrittura più sicura e matura, concentrata su un iperrealismo grottesco che fa i conti con la quotidianità povera e disillusa del sud della penisola. Alcuni ritratti riusciti: Il giovane Mario, che deve fare i conti col salario - ispirata alla graffiante satira del conterraneo Rino Gaetano -, l’omaggio al padre scomparso (Bruno mio dove sei?), l’amore perduto di Tre capelli sul comò. Cameo di Dente in Il suo sorriso.
Lo stesso Dente, atteso alla prova del quarto album dopo il soprendente L'amore non è bello del 2009, si conferma sempre in bilico tra farsa e ironia: geniale e al tempo stesso demenziale, innovativo e legato alla tradizione.
Battisti, De Gregori e la poesia di Ungaretti sono i riferimenti che si sprecano nei confronti del suo lavoro, per nulla un disco difficile e inaccessibile, che scivola via - al contrario – con inusuale leggerezza. Il fidentino canta di amori impossibili (Io sono il lungo inverno e tu la bella estate, siamo rette parallele), amori finiti (L'ultimo amore non si scorda fino a che non ci pensi più) e tradimenti (Più che il destino è stata l'Adsl che vi ha unito), e si candida ad essere il menestrello degli sfigati in amore dei nostri tempi. Il singolo Saldati è leggiadra e romantica in stile La Crus, e sarebbe un hit se a cantarla fosse un big (Portami a vedere il cielo questa sera anche se è nuvolo); Piccolo destino ridicolo rimanda allo stesso Bugo, La settimana enigmatica è un blues sgangherato, Da Varese a quel paese una marcetta.
Il disco di Dente sarà presentato in anteprima nazionale al Fillmore di Cortemaggiore venerdì 28 ottobre, un'occasione da non perdere.
domenica 23 ottobre 2011
Zanzavino, 02
Il campo dell'oratorio era allora - e lo è anche adesso - un piazzale di cemento pieno di buche e di pozzanghere, dalla forma piuttosto irregolare, vagamente trapezoidale.
Sul lato sinistro, il terreno di gioco era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla senza dover per questo interrompere il gioco, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo, questo almeno in teoria, perché la striscia di gesso era costantemente lavata dalle piogge invernali. Ci si accordava prima della partita: alle volte si decideva che era valido far rimbalzare la palla anche contro i muri in mattoni dell'alloggio del sacrestano, un uomo calvo e dal naso adunco che parlava sempre poco e camminava sempre di fretta.
Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato lì a fianco, bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Cazzo, c'era una donnetta zoppa che ci metteva un'eternità.
Le bestemmie che tiravamo.
Con buona pace del parroco, che faceva finta di non sentire.
Quando veniva buio, mandava fuori sua sorella - un'anziana e scorbutica zitella con due baffi neri così e un gigantesco neo purulento sulla punta del naso - che requisiva la palla malgrado i nostri schiamazzi.
Era quello, d'altra parte, l'unico modo per far terminare le nostre partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità, fino a che non si riusciva a vedere più nulla, fino a che non si poteva riconoscere la palla dalle scarpe di un avversario o addirittura dalle nostre stesse scarpe.
La maledivamo, quella vecchia strega.
Andassero affanculo, lei e quello stronzo del fratello prete, ci dicevamo mentre tornavamo a casa, sudati fradici e con i pantaloni nuovi sbucciati sulle ginocchia. E mica c’era il mercuriocromo: ci venivano delle croste che sembravano delle mappe geografiche.
Uno fa il prete, ci dicevamo, perché non ha voglia di fare un cazzo. O perché non è capace di fare un cazzo. Se fosse capace di fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, ci dicevamo, non sarebbe qui a dire la messa in latino per quattro babbione incartapecorite con un rosario di madreperla in mano, e a farsi insultare da un esercito agguerrito di ragazzini senza Dio.
Questo per dirvi che razza di piccoli bastardi maleducati e impertinenti eravamo.
Sul lato sinistro, il terreno di gioco era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla senza dover per questo interrompere il gioco, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo, questo almeno in teoria, perché la striscia di gesso era costantemente lavata dalle piogge invernali. Ci si accordava prima della partita: alle volte si decideva che era valido far rimbalzare la palla anche contro i muri in mattoni dell'alloggio del sacrestano, un uomo calvo e dal naso adunco che parlava sempre poco e camminava sempre di fretta.
Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato lì a fianco, bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Cazzo, c'era una donnetta zoppa che ci metteva un'eternità.
Le bestemmie che tiravamo.
Con buona pace del parroco, che faceva finta di non sentire.
Quando veniva buio, mandava fuori sua sorella - un'anziana e scorbutica zitella con due baffi neri così e un gigantesco neo purulento sulla punta del naso - che requisiva la palla malgrado i nostri schiamazzi.
Era quello, d'altra parte, l'unico modo per far terminare le nostre partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità, fino a che non si riusciva a vedere più nulla, fino a che non si poteva riconoscere la palla dalle scarpe di un avversario o addirittura dalle nostre stesse scarpe.
La maledivamo, quella vecchia strega.
Andassero affanculo, lei e quello stronzo del fratello prete, ci dicevamo mentre tornavamo a casa, sudati fradici e con i pantaloni nuovi sbucciati sulle ginocchia. E mica c’era il mercuriocromo: ci venivano delle croste che sembravano delle mappe geografiche.
Uno fa il prete, ci dicevamo, perché non ha voglia di fare un cazzo. O perché non è capace di fare un cazzo. Se fosse capace di fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, ci dicevamo, non sarebbe qui a dire la messa in latino per quattro babbione incartapecorite con un rosario di madreperla in mano, e a farsi insultare da un esercito agguerrito di ragazzini senza Dio.
Questo per dirvi che razza di piccoli bastardi maleducati e impertinenti eravamo.
martedì 18 ottobre 2011
L’addio di Ivano Fossati - al pari di quello di Antonio Cassano, ma lui tra tre anni - ha fatto parlare molto i media (“Mi sono sempre chiesto se al prossimo disco avrei potuto garantire la stessa passione che mi ha portato fino a qui. Non credo che potrei ancora fare qualcosa che aggiunga altro rispetto a quello che ho fatto fino ad ora”) e forse è una delle ragioni del successo fulmineo di questo suo nuovo lavoro, uscito nei negozi solo il 4 ottobre e già in testa alle classifiche nostrane.
Un altro è la consueta bravura del nostro, artista di classe ed eleganza quasi senza pari nel panorama triste della canzone italiana (ma aspettiamo con fiducia la riscossa dei Bugo, dei Dente, dei Brunori s.a.s….)
La decadenza apre l’album con un ritmo ballabile ma prevedibile – un po’ troppo alla Zucchero, per i nostri gusti – che dà il titolo all’album (un brutto gioco di parole), uno spietato ritratto di un paese in decadenza e apparentemente senza futuro.
Ritmo sostenuto anche per Quello che manca al mondo, un pezzo nello stile classico del cantautore genovese (“quello che mancherà al domani/è un monumento all’uguaglianza”) che tuttavia ricalca cose già sentite.
Più avanti, il disco convince sempre di più.
I bellissimi pezzi pop, quasi americani, di La sconosciuta e La normalità, intervallati dalla delicata e intensa Settembre, una storia d’amore che finisce male (“Il bene che ci siamo voluti noi due è un taxi che si ferma qui/io stavo bene nelle tue mani non avrei chiesto mai niente di più”), sono uno dei picchi della raccolta.
Raccolta che prosegue senza intoppi sino a Laura e l’avvenire (“Ora questo posto non fa più per noi / questo è un deserto di democrazia”) e alle straordinarie ballate Nella terra del vento (“Grazie per le rose d'inverno/ in un momento fiorite/ e in un giorno appassite di nuovo”) e la conclusiva Tutto questo futuro (“Eppure mi piace tutto questo futuro e anche il tempo sprecato che non vedo già più. Io e te, in mezzo al mondo, siamo un pugno di fiori. Ora passa la notte e, come senti, non piove più.”).
Grazie di tutto.
Un altro è la consueta bravura del nostro, artista di classe ed eleganza quasi senza pari nel panorama triste della canzone italiana (ma aspettiamo con fiducia la riscossa dei Bugo, dei Dente, dei Brunori s.a.s….)
La decadenza apre l’album con un ritmo ballabile ma prevedibile – un po’ troppo alla Zucchero, per i nostri gusti – che dà il titolo all’album (un brutto gioco di parole), uno spietato ritratto di un paese in decadenza e apparentemente senza futuro.
Ritmo sostenuto anche per Quello che manca al mondo, un pezzo nello stile classico del cantautore genovese (“quello che mancherà al domani/è un monumento all’uguaglianza”) che tuttavia ricalca cose già sentite.
Più avanti, il disco convince sempre di più.
I bellissimi pezzi pop, quasi americani, di La sconosciuta e La normalità, intervallati dalla delicata e intensa Settembre, una storia d’amore che finisce male (“Il bene che ci siamo voluti noi due è un taxi che si ferma qui/io stavo bene nelle tue mani non avrei chiesto mai niente di più”), sono uno dei picchi della raccolta.
Raccolta che prosegue senza intoppi sino a Laura e l’avvenire (“Ora questo posto non fa più per noi / questo è un deserto di democrazia”) e alle straordinarie ballate Nella terra del vento (“Grazie per le rose d'inverno/ in un momento fiorite/ e in un giorno appassite di nuovo”) e la conclusiva Tutto questo futuro (“Eppure mi piace tutto questo futuro e anche il tempo sprecato che non vedo già più. Io e te, in mezzo al mondo, siamo un pugno di fiori. Ora passa la notte e, come senti, non piove più.”).
Grazie di tutto.
domenica 16 ottobre 2011
sabato 15 ottobre 2011
HALLELUJAH
Qualche tempo indietro avevo postato alcuni brani immortali della storia del pop, sotto l'etichetta: Tutti i pezzi che non vorremo mai ascoltare - e che non avremmo mai voluto ascoltare - a XFactor.
La molla era stata la visione, durante un inutile zapping serale, era una di quelle sere che devi scegliere tra una replica della Bundesliga su Sky e un poliziesco già visto, di una versione atroce di Redemption Song del grande Marley.
Leggo questa cosa su Wittgenstein e mi viene voglia di riprendere il discorso.
Dal blog di Luca Sofri:
“Hallelujah” è una canzone del 1984 di Leonard Cohen, grandissimo cantautore canadese che la settimana scorsa ha compiuto 77 anni. La canzone la conoscono quasi tutti perché da un certo punto in poi si sono messi a farne cover a bizzeffe. In particolare, nel 1994, Jeff Buckley: che morì giovane nel 1997 e lasciò come firma del suo mito postumo il sospiro all’inizio della sua bellissima versione di “Hallelujah” (a sua volta ripresa da un adattamento di John Cale). Da lì iniziò la seconda vita più popolare della canzone – fino ad allora confinata all’apprezzamento dei fans del vecchio e tenebroso Cohen – che la portò ai posti alti delle classifiche di vendita, nelle cerimonie inaugurali delle Olimpiadi, dentro Shrek, e in mille e mille sfruttamenti e riproduzioni, fino a entrare negli avvilenti repertori dei talent show.
Tanto che qualche giorno fa David Daley del sito Salon ha scritto dell’”uso criminale” di “Hallelujah” dopo aver assistito alla versione dell’improbabile gruppo dei “Canadian Tenors” alla serata di premiazione degli Emmy, e ha ricordato come lo stesso Cohen abbia detto un paio d’anni fa che “la canzone è bella ma forse l’hanno cantata un po’ in troppi”. Daley si è associato a Cohen nel chiedere una moratoria, e soprattutto ha ricordato che malgrado la successiva trasformazione in svenevolezza da boy band o da raduno di preghiera, Buckley la canzone la spiegava così: “Chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul sesso, sull’amore e sulla vita terrena. Non è un hallelujah per una fede, un idolo o un dio, ma l’hallelujah dell’orgasmo”.
La molla era stata la visione, durante un inutile zapping serale, era una di quelle sere che devi scegliere tra una replica della Bundesliga su Sky e un poliziesco già visto, di una versione atroce di Redemption Song del grande Marley.
Leggo questa cosa su Wittgenstein e mi viene voglia di riprendere il discorso.
Dal blog di Luca Sofri:
“Hallelujah” è una canzone del 1984 di Leonard Cohen, grandissimo cantautore canadese che la settimana scorsa ha compiuto 77 anni. La canzone la conoscono quasi tutti perché da un certo punto in poi si sono messi a farne cover a bizzeffe. In particolare, nel 1994, Jeff Buckley: che morì giovane nel 1997 e lasciò come firma del suo mito postumo il sospiro all’inizio della sua bellissima versione di “Hallelujah” (a sua volta ripresa da un adattamento di John Cale). Da lì iniziò la seconda vita più popolare della canzone – fino ad allora confinata all’apprezzamento dei fans del vecchio e tenebroso Cohen – che la portò ai posti alti delle classifiche di vendita, nelle cerimonie inaugurali delle Olimpiadi, dentro Shrek, e in mille e mille sfruttamenti e riproduzioni, fino a entrare negli avvilenti repertori dei talent show.
Tanto che qualche giorno fa David Daley del sito Salon ha scritto dell’”uso criminale” di “Hallelujah” dopo aver assistito alla versione dell’improbabile gruppo dei “Canadian Tenors” alla serata di premiazione degli Emmy, e ha ricordato come lo stesso Cohen abbia detto un paio d’anni fa che “la canzone è bella ma forse l’hanno cantata un po’ in troppi”. Daley si è associato a Cohen nel chiedere una moratoria, e soprattutto ha ricordato che malgrado la successiva trasformazione in svenevolezza da boy band o da raduno di preghiera, Buckley la canzone la spiegava così: “Chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul sesso, sull’amore e sulla vita terrena. Non è un hallelujah per una fede, un idolo o un dio, ma l’hallelujah dell’orgasmo”.
giovedì 13 ottobre 2011
Zanzavino, 02
Calcisticamente parlando, sono cresciuto nel vivaio della Bolide, mitica squadra della parrocchia di San Savino.
Ma i primi calci li ho tirati al campo dell’oratorio.
Detto “Zan Zavino” per via di un tipo che frequentava il Bar Sport, il Bar Sport era quasi di fronte all’ingresso dell’oratorio, e che ogni tanto faceva irruzione nel campetto di cemento con la sua Ritmo color azzurro zucchero - paraurti in tinta carrozzeria e antenna parabolica sul cofano – e urlava, urlava verso di noi piccoli sfigati coi pantaloni lisi e le ginocchia sbucciate, noi piccoli sfigati che tiravamo i primi calci al pallone di gomma tipo elite:
Eccoli qui, Zan Zavino!
Diceva Zan Zavino per via di un difetto di pronuncia della “S” assai marcato.
Le prime volte incuteva timore, aveva diversi anni più di noi ed era considerato un duro, ma poi aveva preso l’abitudine di fermarsi a giocare anche lui: gli piaceva vincere facile.
Fece una brutta fine, quel tipo.
Una notte d'inverno andò a finire in una scarpata con la sua Ritmo in uno di quei curvoni assurdi che ci sono poco dopo il ponte sul Po, appena dopo l’Auchan, che poi allora l’Auchan non c’era, non c’erano proprio i centri commerciali, e la roba la si comprava ancora nei negozi.
Per dire: nella mia via c’erano ben due fruttivendoli, a distanza di trenta metri uno dall’altro. Poi c’era un rivenditore di elettrodomestici, caro come il sangue, un fotografo, la parrucchiera, il negozio di fiori, una latteria incommensurabilmente triste, tre sorelle che vendevano il pane – tutte tre zitelle acide antipatiche e attaccate al soldo: o forse una era sposata, non si è mai saputo con certezza – poi l’alimentari sotto casa mia che vendeva le focaccine tonde a sessanta lire e appunto il Bar Sport.
Il Bar Sport c’è anche adesso.
Attorno al Bar Sport adesso resiste solo la parrucchiera, e forse il fotografo qualche volta tiene aperto.
Adesso ci sono due o tre kebab, un take away pakistano, gestito da un uomo elegante che parcheggia sempre un Mercedes coupè sul marciapiede sull’altro lato della strada, un centro massaggi con l'arredamento minimal-giapponese - le canne di bambù i sassi bianchi e tutte quelle ciotole del cazzo, non servono mai a un cazzo quelle ciotole - e un call center con transfer money in Ecuador o Romania, una lavanderia a gettone, una copisteria e qualche vetrina sfitta.
L’oratorio c’è ancora.
Ma i primi calci li ho tirati al campo dell’oratorio.
Detto “Zan Zavino” per via di un tipo che frequentava il Bar Sport, il Bar Sport era quasi di fronte all’ingresso dell’oratorio, e che ogni tanto faceva irruzione nel campetto di cemento con la sua Ritmo color azzurro zucchero - paraurti in tinta carrozzeria e antenna parabolica sul cofano – e urlava, urlava verso di noi piccoli sfigati coi pantaloni lisi e le ginocchia sbucciate, noi piccoli sfigati che tiravamo i primi calci al pallone di gomma tipo elite:
Eccoli qui, Zan Zavino!
Diceva Zan Zavino per via di un difetto di pronuncia della “S” assai marcato.
Le prime volte incuteva timore, aveva diversi anni più di noi ed era considerato un duro, ma poi aveva preso l’abitudine di fermarsi a giocare anche lui: gli piaceva vincere facile.
Fece una brutta fine, quel tipo.
Una notte d'inverno andò a finire in una scarpata con la sua Ritmo in uno di quei curvoni assurdi che ci sono poco dopo il ponte sul Po, appena dopo l’Auchan, che poi allora l’Auchan non c’era, non c’erano proprio i centri commerciali, e la roba la si comprava ancora nei negozi.
Per dire: nella mia via c’erano ben due fruttivendoli, a distanza di trenta metri uno dall’altro. Poi c’era un rivenditore di elettrodomestici, caro come il sangue, un fotografo, la parrucchiera, il negozio di fiori, una latteria incommensurabilmente triste, tre sorelle che vendevano il pane – tutte tre zitelle acide antipatiche e attaccate al soldo: o forse una era sposata, non si è mai saputo con certezza – poi l’alimentari sotto casa mia che vendeva le focaccine tonde a sessanta lire e appunto il Bar Sport.
Il Bar Sport c’è anche adesso.
Attorno al Bar Sport adesso resiste solo la parrucchiera, e forse il fotografo qualche volta tiene aperto.
Adesso ci sono due o tre kebab, un take away pakistano, gestito da un uomo elegante che parcheggia sempre un Mercedes coupè sul marciapiede sull’altro lato della strada, un centro massaggi con l'arredamento minimal-giapponese - le canne di bambù i sassi bianchi e tutte quelle ciotole del cazzo, non servono mai a un cazzo quelle ciotole - e un call center con transfer money in Ecuador o Romania, una lavanderia a gettone, una copisteria e qualche vetrina sfitta.
L’oratorio c’è ancora.
sabato 8 ottobre 2011

Sono i riconosciuti rappresentanti dell’Americana contemporanea, ovvero quel genere che pesca piene mani nella tradizione U.S.A. e che qui da noi ha conosciuto grande fortuna in passato grazie a riviste come Il Mucchio Selvaggio e L’Ultimo Buscadero (ovvero i titoli di due film di Peckinpah).
Gli Wilco di Jeff Tweedy tornano con un nuovo lavoro per la loro neonata etichetta, dBpm.
L’apertura è eccezionale, con Art Of Almost, un funky elettrico che lascia senza fiato.
Con I Might, primo singolo estratto dall’album, si torna alla normale amministrazione Wilco. Una normale amministrazione di alto livello, si intenda: da oltre 15 anni registrano dischi ispirati e ottimamente suonati. Tuttavia, il grande successo non è mai arrivato, vuoi per le loro facce da brava gente, per un atteggiamento poco da mainstream e anche perché non hanno mai centrato il ritornello pop giusto, quello che per intenderci è riuscito ai R.E.M.
Pregevoli sono il power-pop di Dawned On Me, il crepuscolo di Black Moon e Rising Red Lung, il vaudeville di Capitol City, la conclusiva One Sunday Morning, dolce e intenso trattato sul rapporto tra padre e figlio.
Tra gli allievi di cotanti maestri, fanno parlare di sé i Megafaun dalla North Carolina.
A dire il vero, altro riferimento è Bon Iver (State Meant), anche solo per questioni geografiche. E gli Okkervil River (You Are The Light).
Questo disco omonimo – scelta inusuale per quella che è la loro terza prova sulla lunga distanza– è un vero piacere: si sentano l’iniziale Real Slow, Resurection e Second Friend.
Ancora disagi nel piacentino per colpa dell’ormai celebre tunnel dei neutrini, fortemente voluto dal Ministro dell’Istruzione Gelmini. Com’è noto, l’arditissima infrastruttura - che collega il CERN di Ginevra ai rilievi del Gran Sasso – insiste anche nel nostro territorio, anche se nessuno conosce con certezza il suo tracciato esatto.
Tuttavia, da tempo alcuni cittadini lamentano scosse di tipo tellurico alle loro abitazioni: in molti casi si è verificata l’apertura di crepe e fessurazioni, anche di dimensioni significative. Le autorità indagano.
In zona Sant’Antonio, inoltre, i cani passano la notte con il muso rivolto verso il selciato, abbaiando e latrando, con ovvie ricadute sulla quiete pubblica.
Il caso più clamoroso, poi, avviene al Capitolo, dove una coppia di anziani non riceve più il segnale di Rai e Mediaset, ed è costretta – tutte le sere - a guardare Capodistria, oppure “Scacciapensieri” sulla tv svizzera.
Tuttavia, da tempo alcuni cittadini lamentano scosse di tipo tellurico alle loro abitazioni: in molti casi si è verificata l’apertura di crepe e fessurazioni, anche di dimensioni significative. Le autorità indagano.
In zona Sant’Antonio, inoltre, i cani passano la notte con il muso rivolto verso il selciato, abbaiando e latrando, con ovvie ricadute sulla quiete pubblica.
Il caso più clamoroso, poi, avviene al Capitolo, dove una coppia di anziani non riceve più il segnale di Rai e Mediaset, ed è costretta – tutte le sere - a guardare Capodistria, oppure “Scacciapensieri” sulla tv svizzera.
domenica 2 ottobre 2011
La notizia (brutta) è l’abbandono delle scene da parte dei R.E.M..
La favolosa band di Athens si scioglie dopo 31 anni di successo e gloria: «Ai nostri fan e ai nostri amici. Come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band. Ce ne andiamo con grande senso di gratitudine, di compiutezza, e di stupore per tutto ciò che abbiamo realizzato. A chiunque sia mai stato toccato dalla nostra musica va il nostro più profondo ringraziamento per averci ascoltato».
Nulla da aggiungere alle belle parole del comunicato online.
Life goes on, e quindi ecco una strana coppia dalla California, Stephen Malkmus e Beck Hansen, a sollevarci il morale – e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno, in tempi così bui.
Il primo è l’ex-leader dei Pavement, gruppo seminale del noisy degli anni ’90. Mirror Traffic è la sua quinta opera solista – come sempre accompagnato dai Jicks – con la quale finalmente riesce a ripetere, seppur in parte, i fasti degli esordi (assai meglio di Primus e Meat Puppets, i cui recenti ritorni non lasciano traccia alcuna); il secondo è il sempre-sia-lodato autore di Loser, uno dei primi a tentare un crossover tra alternative rock, folk, blues e addirittura hip hop.
L’attitudine lo-fi dei due fa capolino anche in questo lavoro: il quarantacinquenne Malkmus ci ha abituato, infatti, a una svagata imperfezione, a una certa approssimazione studiata a tavolino; un Beck ormai maturo, tuttavia, lo aiuta a contenere la sua attitudine sgangherata e a far emergere la sua vena cantautoriale e la melodia.
50 minuti di quasi pop – come recitano le note di copertina – di ottimo livello, tra i quali scegliere il singolo Tigers, poi Stick Figures In Love, Forever 28 e le ballate in chiave alt country Share The Red e No One Is (As Are I Be), oltre alla corrosiva Senator (“I know what the senator wants is a blow job”: sembrerebbe parlare di certi politici italiani…)
La favolosa band di Athens si scioglie dopo 31 anni di successo e gloria: «Ai nostri fan e ai nostri amici. Come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band. Ce ne andiamo con grande senso di gratitudine, di compiutezza, e di stupore per tutto ciò che abbiamo realizzato. A chiunque sia mai stato toccato dalla nostra musica va il nostro più profondo ringraziamento per averci ascoltato».
Nulla da aggiungere alle belle parole del comunicato online.
Life goes on, e quindi ecco una strana coppia dalla California, Stephen Malkmus e Beck Hansen, a sollevarci il morale – e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno, in tempi così bui.
Il primo è l’ex-leader dei Pavement, gruppo seminale del noisy degli anni ’90. Mirror Traffic è la sua quinta opera solista – come sempre accompagnato dai Jicks – con la quale finalmente riesce a ripetere, seppur in parte, i fasti degli esordi (assai meglio di Primus e Meat Puppets, i cui recenti ritorni non lasciano traccia alcuna); il secondo è il sempre-sia-lodato autore di Loser, uno dei primi a tentare un crossover tra alternative rock, folk, blues e addirittura hip hop.
L’attitudine lo-fi dei due fa capolino anche in questo lavoro: il quarantacinquenne Malkmus ci ha abituato, infatti, a una svagata imperfezione, a una certa approssimazione studiata a tavolino; un Beck ormai maturo, tuttavia, lo aiuta a contenere la sua attitudine sgangherata e a far emergere la sua vena cantautoriale e la melodia.
50 minuti di quasi pop – come recitano le note di copertina – di ottimo livello, tra i quali scegliere il singolo Tigers, poi Stick Figures In Love, Forever 28 e le ballate in chiave alt country Share The Red e No One Is (As Are I Be), oltre alla corrosiva Senator (“I know what the senator wants is a blow job”: sembrerebbe parlare di certi politici italiani…)
mercoledì 28 settembre 2011
Prima che lui dica bah
Il ghiro è tornato.
Alle prime luci dell’alba, puntuale, inizia a rovistare nel sottotetto facendo un casino pazzesco e svegliandoci inesorabilmente.
E’ la sua stagione.
Saggezza popolare dice – che poi qui in paese i vecchi saggi iniziano a farsi dei bianchi alle sei del mattino e quando sono solo le undici più che saggi sono pieni marci – che sta facendo provviste per il lungo e gelido inverno che lo/ci attende. Pare che stia mettendo insieme una scorta di noci per tre-quattro mesi di letargo.
Astuto.
Astuto e coraggioso.
La pianta del noce dista almeno dieci metri dal tetto di casa mia, e l’unico collegamento tra di essi è un vecchio cavo del telefono posto a circa sei metri d’altezza. Me lo vedo, quel figlio di puttana, camminare sul filo come un equilibrista trascinando con sé - sospesa sopra la testa? - una noce ancora avvolta dal mallo.
Un lavoraccio, cazzo.
Resta il fatto che casino fa casino, che siano le noci che mette via o - se la saggezza popolare è solo leggenda - che si accontenti di rosicchiare le lastre di poliuretano espanso o le cantinelle di abete grezzo della copertura.
La reazione c'è stata, ed è stata dura. Dura e decisa.
L’altro ieri ho scagliato sul tetto una dozzina almeno di esche velenose, potentissime: una di quelle è in grado di squarciargli lo stomaco in pochi minuti e - prima che lui dica bah - polverizzargli poi tutti gli organi vitali. Brutta fine. Roba da pazzi sadici, lo ammetto. Ma è una guerra senza esclusione di colpi.
Tanto non ottengo alcun effetto.
Ci credo, Cristo, sono bustine dall’inquietante color azzurrognolo, davvero non si vede perché lo stronzo dovrebbe essere attratto da quella roba così sgargiante e un tantino psichedelica. A meno che non sia un ghiro tossico, un ghiro dal sorriso sdentato e appassionato di trip lisergici e pasticche colorate varie.
La verità, dicono sempre i vecchi saggi, è che non bisogna toccare le esche con le mani, così facendo i piccoli bastardi di roditori – che siano topi o ghiri – sentono l’odore dell’umano e non si lappano l’inquietante bustina dal colore azzurrognolo.
Dunque dovrò riprovare usando i guanti di lattice, come un infermiere, e magari una fionda artigianale per arrivare più in lato sul tetto.
Che poi, a pensarci bene, a un ghiro così astuto e coraggioso ci sarebbe da pagargli un bianchino, quell’ortrugo ormai sgasato per via del tappo di plastica che una volta si usava per le bottiglie della minerale, altro che esche velenose.
sabato 24 settembre 2011

La leggenda dei Jethro Tull e di Ian Anderson ha inizio, nel nostro paese, nel febbraio del 1971.
L’Italia è in quel periodo terra di conquista per gli alfieri del cosiddetto progressive rock britannico, nelle sue varie declinazioni: dal filone sinfonico/classico (Yes, EL& P, Gentle Giant, Procul Harum) a quello più politicamente impegnato e con venature jazzy (King Crimson, Family); anche se, in generale, Woodstock è lontana - le manifestazioni studentesche anche - e il si vive un periodo di riflusso che culminerà negli anni di piombo.
Numerosi rappresentanti del genere – tra i migliori i primi Genesis di Peter Gabriel, i Van der Graaf Generator di Peter Hammill e i King Crimson di Robert Fripp – fecero molta fatica ad affermarsi in casa propria, e tuttavia il loro teatro barocco e artistoide, fatto di tastiere e complessi arrangiamenti orchestrali, in poco tempo sbancò le charts in Svizzera, Belgio, Olanda e Italia, dando vita tra l’altro a una fioritura di ottimi gruppi nostrani (da noi Il Banco del Mutuo Soccorso, Il Rovescio della Medaglia, Le Orme e – con sfumature diverse – band storiche come la Premiata Forneria Marconi e gli Area di Demetrio Stratos).
Il primo febbraio 1971 i Tull suonano, per la prima volta in Italia, al Teatro Smeraldo di Milano, davanti a 4.000 fans rapiti ed estasiati.
Sino ad allora, erano usciti tre album - This Was (1968), Stand Up (1969) e Benefit (1970) – che avevano suscitato l’interesse di un pubblico ancora ristretto e che restavano, tutto sommato, nel campo blues-rock.
Nonostante il fumo dei lacrimogeni e gli scontri, all’esterno del teatro, tra gruppi di autonomi e forze dell’ordine, la serata milanese si rivela un autentico trionfo per la band di Blackpool.
Al centro dell’attenzione di tutti, ovviamente, il leader Ian Anderson e il suo piffero magico – è un flauto traverso - e il suo look eccentrico: pastrano a scacchi, fuseau neri e stivali scamosciati e stringati.
Il concerto si apre con una versione acustica di My God, uno dei vertici della loro carriera e uno dei pezzi trainanti del nuovo album Aqualung - che ancora non è uscito nei negozi per l’etichetta Chrysalis - ovvero la storia drammatica ed aspra di un clochard (il barbone raffigurato sulla celebre copertina assomiglia molto allo stesso Anderson) in un contesto urbano squallido e assai degradato, popolato da ladri e puttane ("Sitting on a park bench, eyeing little girls with bad intent"): la mini-suite non è altro che l’ultimo rantolo rabbioso di Aqualung in punto di morte, e contiene guidizi sarcastici e sprezzanti nei confronti della "sanguinosa Chiesa d'Inghilterra”: The bloody Church of England in chains of history requests your earthly presence at the vicarage for tea.
I nuovi brani vengono eseguiti da una band in autentico stato di grazia: lunghe cavalcate con improvvisi cambiamenti di scena e di ritmo, sfrenate jam intervallate da intervalli acustici: la straordinaria Locomotive Breath e Cross-Eyed Mary, oltre naturalmente alla title-track, il ritratto proletario di Up To Me e la sarcastica Hymn 43, e poi il repertorio tratto dalle opere precedenti: Nothing is Easy, Bouree e Jeffrey Goes To Leicester Squeare. Il live-asct si conclude con una strepitosa versione di Wind Up, altro atto di accusa nei confronti di Dio ("He’s not the kind you have to wind up on Sundays/Non è il caso disturbarlo di Domenica")
Quello dei Jethro Tull è un prog assolutamente atipico, capace com’è di amalgamare l’hard-rock degli Zeppelin – il riff di chitarra di Acqualung è uno dei riff definitivi della storia del rock – con la classica e con il jazz, ma in primo luogo con il folk e la grande tradizione blues: l’attaccamento alla radici è testimoniato anche dall’incoinsueta scelta del nome, ispirata dal pioniere della moderna agricoltura, l'agronomo Jethro Tull (1674-1741).
Dopo Aqualung verranno altri ottimi lavori – il concept album Thick As A Brick (1972) e altri episodi minori; insomma, quello fu il momento magico, e dopo quel momento nulla fu come prima.
martedì 20 settembre 2011

C’era la Swinging London degli anni Sessanta.
Le minigonne.
I Beatles e gli Stones.
C’erano le epiche battaglie tra Rockers e Mods.
E pensare che noi trenta-quarantenni ci siamo dovuti accontentare dei litigi tra i fratelli Gallagher (sic!) o di qualche loro scazzo con Albarn, ovvero ciò che la Cool Britannia dell’epoca Blair ci ha saputo offire.
Ma il bel volume di Eleonora Bagarotti sugli Who – ovvero: Pete Townshend (chitarra), Roger Daltrey (voce), John Entwistle (basso) e Keith Moon (batteria) - edito recentemente da Arcana, oltre e a restituire l’atmosfera vibrante della Swinging London, passa meticolosamente in rassegna tutti i testi della storica band britannica, aggiungendo alle traduzioni anche una serie di commenti e di aneddoti che ci fanno entrare nel loro mondo e che si rivelano assai utili al fine di svelare la genesi delle canzoni.
In alcuni casi, contribuisce persino a smitizzare gli inni (o anti-inni) generazionali degli esordi, da I Can’t Explain alla celeberrima My Generation, senza tuttavia sminuirne la portata storica (“già solamente con questo brano”, scrive la Bagarotti riferendosi alla seconda, “gli Who hanno impresso un’indelebile orma sulla vetta del mondo musicale”).
Troppi significati sono stati dati a My Generation, lamenta infatti Townsend, che precisa: “è una canzone contro l’ipocrisia e il perbenismo. Due atteggiamenti che ho sempre detestato”.
Resta il fatto che, chiosa Eleonora, in un’era che ancora risentiva dei coretti beat e in cui Beatles e Stones erano alle prese con storie d’amore, il balbettio di Daltrey, la furia della band e versi come: “La gente cerca di metterci sotto/solo perché ce ne andiamo in giro/Le cose che fanno sono terribilmente fredde/spero di morire prima di diventare vecchio”, non potevano non scatenare un immediato effetto di immedesimazione in tantissimi ragazzi, che vi videro il riflesso del proprio malessere.
Il lavoro ripercorre le varie tappe della carriera degli Who dedicando spazio, ovviamente, al primo concept-album, The Who Sell Out (1967), che imita le trasmissioni di una radio pirata, con stacchi pubblicitari compresi: celebre quello degli Heinz Baked Beans, già omaggiati da Warhol dalla Pop Art.
E ovviamente alle due rock-opera Tommy (1969) – chi scrive è particolarmente affezionato alla storia del bambino cieco, sordo e muto che diventa un campione di flipper, avendo visto il film per la prima volta al cinema Jolly quando aveva solo dieci anni, accompagnato dal fratello maggiore (chissà cosa gli stava passando in testa?) - e Quadrophenia (1973), sull’epopea Mods.
Tra i nostri must, Baba O’Riley, ovvero uno dei brani forti di Who’s Next (1971), forse l’album più celebrato.
Com’è noto, si voleva omaggiare lo spiritualismo di Meher Baba e al contempo celebrare uno dei musicisti che piu’ avevano influenzato la band: Terry Riley, padre del minimalismo. Meno noto è il processo creativo – piuttosto casuale – alla base del leggendario intro di synth, che apprendiamo dalle pagine di questo prezioso volume tramite la ricostruzione di Townsend: “Ho scritto il brano mentre stavo giocando a fare sperimentazioni con i nastri e il sintetizzatore. C’era l’idea di scegliere una persona tra il pubblico e chiederle informazioni personali – altezza, peso, segno zodiacale – e metterli nel sintetizzatore. Il mio progetto era tradurre un essere umano in musica. Nella canzone ho programmato i dettagli della vita di Meher Baba, e il risultato è diventato il tema iniziale e di sottofondo di Baba O’Riley”.
Discorso analogo per il ritornello – It’s only teenage wasteland/E’ solo un deserto di adolescenti – che è nato riprendendo una frase di un fotografo a un roadie della band, intento a raccogliere un mare di rifiuti dopo un concerto all’Isola di Wight.
Più arduo invece fare chiarezza sul vero significato di Won’t Get Fooled Again (più o meno: non ci prenderete più per il culo), ovvero il testo più discusso e chiacchierato della loro lunga carriera. Spesso etichettato come un brano reazionario - per il rifiuto di Townsend di fare la rivoluzione, per l’atmosfera disillusa lontana anni luce dall’idealismo hippie, e anche per il suo epilogo di marca orwelliana: ”ti presento il nuovo padrone/è uguale al vecchio” - è stato tuttavia adottato dagli operai inglesi durante le loro rivendicazioni sindacali. “Tutti a dirmi che dovevamo avere un ruolo politico, di combattere il capitalismo e finanziare certe comunità (Townsend aveva dovuto subire pesanti critiche per aver allontanato in malo modo Abbie Hofmann, attivista politico di sinistra, che era salito sul palco a Woodstock interrompendo l’esibizione dei Who). Con quella canzone volevo solo dire alle persone che mi dicevano cosa fare: andatevene a fare in culo!”, ammette oggi Townsend. Che, in tempi recenti, ha negato a Michael Moore l’utilizzo del brano per la soundtrack di Farenheit 9/11 e, ai laburisti che gli hanno chiesto di poterlo utilizzare in campagna elettorale, ha risposto: “Sì, ma solo se mi permettete di cambiare tutti i versi”.
Un’ultima cosa, un consiglio per i neofiti degli Who: andate a cercarvi una copia di Live At Leeds, 1970, uno dei piu’ grandi dischi migliori di sempre, nell’edizione deluxe.
Per alcuni critici il migliore di sempre: una scaletta da brividi e un’esecuzione secca e potente, ineguagliabile.
John/Jack Frusciante è di nuovo uscito dal gruppo – stavolta a Enrico Brizzi importa poco, impegnato com’è nei suoi pellegrinaggi laici sulla Via Francigena – ma il gruppo ha deciso di continuare. Sostituito l’ormai ex-figliol prodigo con il trentenne Josh Klinghoffer, già nella line-up della band californiana durante l’ultima tournee e un viso da sbarbatello che poco si addice a quei vecchi figli di puttana dei suoi nuovi compagni di viaggio, dopo cinque anni di silenzio manda alle stampe un nuovo album, presentato in anteprima il 30 agosto a Colonia con un live-act ripreso in alta definizione e trasmesso in oltre 900 sale cinematografiche di tutto il mondo. Bizzarrie del marketing.
Un’ora abbondante di funky e pop, non particolarmente ispirato, assai lontano dalla furia sfrontata degli esordi e forse nemmeno dettato da un’urgenza incontenibile; preciso e patinato, maybe per colpa di un Rubin da sempre in cabina di regia (è pur sempre garanzia di una continuità con il passato illustre); anche se, tutto sommato, I’m With You suona meno anonimo e piatto del precedente Stadium Arcadium.
Tra i quattordici pezzi della raccolta, un posto di primo piano spetta ai ritornelli facili e ruffiani e però irresistibili – “il mitico ritornello, che poi è sempre lo stesso e che non lascia neanche più disorientati o peggio schifati, tanto poi ti ritrovi a cantarlo mentre ti fai la barba”, scrive Ondarock.it – come in Factory Of Faith, Ethiopia o nel singolo The adventures of Rain Dance Maggie, già in heavy rotation su MTV e Virgin Radio.
Ma le cose migliori – in mezzo a parecchi episodi senza storia - sono a nostro giudizio le ballate Police Station e Brendan’s death song, dedicata ad un amico del gruppo recentemente scomparso, proprietario del LA Nightclub che fece praticamente esordire la band, e la beatlesiana, pianistica, Happiness Love Company.
martedì 6 settembre 2011
La lunga pausa estiva consente al recensore di tirare un po’ il fiato e anche di recuperare alcuni dischi usciti nella prima metà dell’anno e inevitabilmente – datane l’immensa mole - sino a ora trascurati. E’ innegabile, infatti, che le nuove tecnologie e il trionfo del web abbiano provocato (o accelerato) l’attuale crisi del mercato discografico; il rovescio della medaglia è che la possibilità di far ascoltare facilmente il proprio lavoro a un gran numero di persone sparse per il mondo incentiva e stimola un’enorme e costante diffusione di bands e artisti di interesse.
Tra essi, gli Wild Beasts arrivano da Kendal, profondo Galles, e suonano un pop sensuale ed elegante, a volte persino un po’ stucchevole, di chiara ispirazione romantic rock. Degna di nota la performance del cantante Hayden Thorpe: la sua voce da tenore è sempre in primo piano. Albatross come primo singolo è una scelta poco felice, noi preferiamo Loop the Loop e la conclusiva End Come Too Soon.
In ambito indie-folk, segnaliamo le nuove uscite per Leisure Society e Dodos.
I primi sono da tempo attivi nel Wilkommen Collective, la "comune musicale" di stampo progressista e new-hippy della scena di Brighton, e con il loro secondo lavoro (“Nell’acqua scura”) aprono il campo a sonorità piu’ ariose e ad arrangiamenti piu’ complessi; ottima la title-track, accompagnata dall’ukulele.
I secondi, californiani di San Francisco, con No Color (c’è una strana affinità tra i titoli di questi album…) ripropongono la loro consolidata ricetta, un folk corale dolce e umorale che si rivelerà – ne siamo certi - un’ottima colonna sonora per l’autunno che incombe.
Per ultimi i Luup, ovvero un collettivo sorto attorno al flautista greco Stelios Romaliadis che ha stregato gran parte della critica e che può vantare una serie infinita di illustri collaboratori. E’ un disco difficile, un ambient di stampo cameristico che lascia poco spazio alla melodia; i “rituali del pascolo”, assai flebili, suonano allo stesso tempo sinistri e magici.
Ci vorrà del tempo per digerirli.
Tra essi, gli Wild Beasts arrivano da Kendal, profondo Galles, e suonano un pop sensuale ed elegante, a volte persino un po’ stucchevole, di chiara ispirazione romantic rock. Degna di nota la performance del cantante Hayden Thorpe: la sua voce da tenore è sempre in primo piano. Albatross come primo singolo è una scelta poco felice, noi preferiamo Loop the Loop e la conclusiva End Come Too Soon.
In ambito indie-folk, segnaliamo le nuove uscite per Leisure Society e Dodos.
I primi sono da tempo attivi nel Wilkommen Collective, la "comune musicale" di stampo progressista e new-hippy della scena di Brighton, e con il loro secondo lavoro (“Nell’acqua scura”) aprono il campo a sonorità piu’ ariose e ad arrangiamenti piu’ complessi; ottima la title-track, accompagnata dall’ukulele.
I secondi, californiani di San Francisco, con No Color (c’è una strana affinità tra i titoli di questi album…) ripropongono la loro consolidata ricetta, un folk corale dolce e umorale che si rivelerà – ne siamo certi - un’ottima colonna sonora per l’autunno che incombe.
Per ultimi i Luup, ovvero un collettivo sorto attorno al flautista greco Stelios Romaliadis che ha stregato gran parte della critica e che può vantare una serie infinita di illustri collaboratori. E’ un disco difficile, un ambient di stampo cameristico che lascia poco spazio alla melodia; i “rituali del pascolo”, assai flebili, suonano allo stesso tempo sinistri e magici.
Ci vorrà del tempo per digerirli.
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