venerdì 13 dicembre 2013

IL WINEBAR DEI MORTI

Situato all'angolo tra via Astorri e via Ghittoni, nelle vicinanze dell'obitorio, questo locale è aperto solo dalle 3.00 alle 5.00 del mattino ed è frequentato da persone morte. Gli avventori vi si recano in genere per l'ultimo bicchiere prima del loro funerale o commiato. Non possono invitare amici o parenti e devono accontentarsi di brindare con quelli che sono spirati nella loro stessa giornata. Anche chi non può pagare, può entrare e bere un bicchiere (di quello sfuso) o leggere un giornale; se piove, il cliente può prendere in prestito un ombrello per non più di 15 min. 
No telefono, no fax, no mail. Si sconsiglia di rivolgersi al medium Carmelo. Per maggiori informazioni clicca qui 
Il Winebar dei Morti esiste dal 1831, proprio come il Caffè Pedrocchi di Padova. 
Arredato con mobili in arte povera, sembra una tipica vecchia osteria, dove girano pochi soldi e l'aria è molto viziata. In passato, qualche essere vivente – ovvero qualcuno che non aveva varcato completamente la soglia tra la vita e la morte – riuscì a entrare in questa enoteca, fissandone alcuni particolari e tentandone in qualche caso una descrizione. Esistono infatti alcune testimonianze, conservate in una zona al momento non accessibile della Biblioteca Passerini Landi, in cui si parla genericamente dell'enoteca del trapasso o del bar dei defunti. Ne hanno parlato il drammaturgo francese Victorien Sardou, lo storico russo Michail Petrovic Pogodin e, in tempi più recenti, lo storico e ricercatore italiano Gerardo Bamonte. Persino il conduttore televisivo Cino Tortorella, meglio noto come Mago Zurlì. Infine, sembra che l'idea di un bar dei morti sia stata presa in considerazione dagli autori del fumetto Dylan Dog, ma per il momento non è stato realizzato un racconto specifico sul tema. 
Pochi sono a conoscenza del fatto che un' ampia descrizione dell'enoteca dei morti sia stata fornita da Anselmo Piacentini, un attore e cantante che nel 2009 rimase per quasi un mese in coma profondo. Costui, che negli anni Settanta e Ottanta faceva l'animatore di feste pubbliche e private nei territori di Piacenza, Pavia e Cremona (dove era considerato il sosia di Ugo Tognazzi), ebbe modo di raccontare più volte la sua incredibile esperienza, ma il pubblico pensò sempre a una invenzione per strappare qualche applauso supplementare. Dispiaciuto di non essere creduto, Piacentini rinunciò a parlarne durante i suoi spettacoli, ma in occasione della sua morte, avvenuta nel settembre del 2011, diede ancora una prova dell'esistenza di questo locale. L'artista morì improvvisamente durante un'esibizione di karaoke e il medico che aveva redatto il certificato di morte, dopo aver ricevuto alcune lettere anonime, tormentato dal dubbio, chiese alla magistratura la riesumazione della salma, temendo che il vero motivo del decesso fosse legato a una forma di avvelenamento. L'autopsia confermò invece l'arresto cardiaco, ma una piccola stranezza fu rilevata: in un angolo della bara fu trovato un bicchiere di vetro contenente ancora tracce di ortrugo: un fatto che rimase senza spiegazione. 
Un paio di esercizi pubblici di via Campagna sono stati soprannominati bar o caffè “dei morti”. Si tratta di forme dispregiative, tese a sottolineare l'avidità dei proprietari che approfittano dei funerali per rimpolpare i loro guadagni. Questi locali non hanno niente a che vedere con il vero Winebar dei Morti, da sempre al numero civico 2 di via Astorri.
Nota: 
su Anselmo Piacentini vedi: a cura di G.Dadati e G.B.Menzani, “Dizionario Biografico Fantastico dei Piacentini Illustri”, ed. Codex 10, Piacenza, 2012
Brunello Buonocore porta il nome di un prezioso vino toscano da lui assaggiato solo pochissime volte e un cognome tipico napoletano, pur non avendo alcun parente in quella città. La sua produzione letteraria varia tra il serio e il faceto, ma quasi tutti gli consigliano di insistere su questa seconda caratteristica. Lavora da molti anni nell’ambito del sociale, dal quale coglie molti spunti per i suoi racconti, guardandosi bene dal riportare fino in fondo fatti realmente accaduti, che sembrerebbero al lettore assolutamente esagerati. È veramente laureato in Scienze Politiche, è realmente sposato e padre di due figli, gioca regolarmente a calcetto. Tempo fa il diavolo, travestito da incaricato dell’Olio Vezze, con la scusa di sottoporlo a un’indagine di mercato, ha cercato di comprargli l’anima, ma la trattativa non è andata in porto.

mercoledì 11 dicembre 2013

#, 03

Incontro un amico davanti alla biblioteca del paese. Mi accompagni?, dico. Non ho soldi, dice. Non si paga, dico. Ma va?, dice.
#provinciagrassa

IL NASCONDIGLIO DELLA MADONNA SISTINA

La Caminata di San Sisto è un antico complesso rurale sito in aperta campagna nel comune di Gragnano Trebbiense. Nel medioevo era una fattoria fortificata; il centro aziendale, con caratteristiche castrensi ancora visibilissime, era circondato da un fossato alimentato dalle acque del Trebbia. 
Nel 1433 fu portata dal suo proprietario in dote al Monastero di San Sisto. Vi risiedeva tutto l’anno un frate incaricato dal monastero di controllare la coltivazione del fondo e curare gli interessi della proprietà. Fu per due giorni (18 e 19 giugno 1799) il quartier generale austro-russo durante la battaglia del Trebbia; vi risiedette in quei giorni il generale Suvorov. Confiscata da Napoleone nel 1805 insieme a tutto il patrimonio di San Sisto, restò di proprietà del demanio dello Stato fino al 1864, quando il Regno d’Italia la privatizzò.
Nel novembre del 2012 un geometra, che faceva i rilievi necessari a trasferire alcuni edifici antichi, fino a quella data considerati rustici, dal catasto terreni al catasto fabbricati, attraverso le sue misurazioni scoprì in uno di quegli edifici l’esistenza, ignota a tutti, di un piccolo locale privo di accessi. Un pertugio praticato in uno dei muri mostrò che il locale conteneva solo uno scartafaccio ingiallito. 
La storia che lo scartafaccio racconta, se fosse vera, sarebbe di un certo interesse.
È noto che, all’inizio del Cinquecento, il Papa Giulio II incaricò Raffaello, che stava lavorando per lui nelle Stanze Vaticane, di dipingere un quadro per l’altar maggiore della nuova chiesa del monastero di San Sisto a Piacenza. Ne risultò un grandissimo capolavoro, uno dei quadri più belli dipinti dalla mano dell’uomo: la Madonna Sistina. Essa fu inaugurata con la chiesa nel 1514. I padri di San Sisto fecero fare nel corso dei due secoli successivi alcune copie del dipinto, una delle quali risultò di qualità miracolosamente vicina a quella del quadro di Raffaello; per sicurezza e per pigrizia, questa copia fu utilizzata per periodi sempre più lunghi al posto dell’originale, che era invece spesso chiuso nel suo nascondiglio segreto. Pochissimi anche tra i padri sapevano dell’esistenza della copia, che divenne sostanzialmente un segreto che si trasmettevano gli abati e i loro segretari. A chi si recava a Piacenza per vedere la Madonna Sistina veniva mostrata con probabilità molto alta la copia, che però era quasi bella quanto l’originale. Capitò così anche all’abate Bianconi, che nel 1752-53 negoziò con il monastero l’acquisto del dipinto per conto dell’Elettore di Sassonia, e al pittore-restauratore Carlo Giovannini, che fu incaricato dall’Elettore di fare una perizia sul quadro prima della partenza e lo accompagnò nel suo viaggio da Piacenza a Dresda.
A quel tempo, uno dei segretari dell’abate e il frate comandato alla Caminata erano fratelli di sangue. Nessuno dei frati era più contrario alla cessione della Madonna Sistina dei due fratelli. Consegnarono a Giovannini la copia anziché l’originale; quando la copia fu imballata per la partenza, convinsero l’abate (che aveva altro per la testa) a nascondere l’altro dipinto (che era in realtà l’originale) alla Caminata per evitare la facile accusa di aver spedito la copia. Il frate di stanza alla Caminata affidò la sua verità allo scartafaccio, che murò col dipinto. Sull’altare fu messa un’altra copia, di qualità enormemente inferiore, quella siglata G.M. che ancora vi si trova. I fratelli pensavano di far riaffiorare l’originale quando la situazione in Sassonia e in generale in Europa l’avesse permesso. Ma non avevano previsto rivolgimenti così profondi come quelli di fine Settecento, che travolsero anche il monastero. 
In quale momento, tra il gennaio del 1754 e il novembre del 2012, venne estratto dal suo rifugio segreto l’originale di Raffaello? A opera di chi? Per portarlo dove? Nel 1892, lo storico svizzero Ludwig Jelinek, non si sa sulla base di quali indizi, suggerì che, al momento della spedizione del dipinto, fosse successo qualcosa di simile a quanto raccontato nello scartafaccio. Fu sonoramente smentito con una batteria di documenti autentici, che furono accettati da tutti anche se non provavano niente. 
 
Bibliografia: E. Gazzola, “La Madonna Sistina di Raffaello. Storia e destino di un quadro”, ed. Quodlibet, Macerata, 2013.
 
Domenico Ferrari Cesena è nato in un mondo governato da Roosevelt, Stalin, Hitler e Churchill, quando l’Italia era un regno retto da Pio XII e da Benito. Però, ha visto la luce in aperta campagna, ma non proprio sotto un cavolo, anche se c’è mancato poco. Nella grande casa che gli ha dato i natali è tornato ad abitare da 18 anni, dopo i 25 trascorsi in California a Berkeley nelle vesti di docente e ricercatore di computer science. Oltre ad alcuni libri illeggibili ai più, nel 2010 ha pubblicato “Terre piacentine” con Giovanni Zilioli. Lotta da anni contro i deturpatori del paesaggio e dei nostri beni culturali come Don Chisciotte contro i mulini a vento, con gli stessi risultati.

IL GIARDINO DELL'ABBAZIA DELLE ROSE

Confinante con l’unica ala che nel 1793 sopravvisse all’incendio che devastò l’abbazia, il Giardino Botanico è un’autentica chicca. Sviluppato su tre livelli, per un totale di circa 1800 mq. 
Nella parte adiacente il convento si trovano le tre enormi serre, risalenti al 1780, dedicate rispettivamente alle orchidee, ai gigli e alle peonie. Serre minori, leggermente defilate rispetto al viale principale, servivano per la coltivazione degli ortaggi necessari al sostentamento della comunità, mentre oggi sono sede del Piccolo museo attivo dell’Agricoltura, un progetto di orti per i bambini delle scuole materne ed elementari della zona. Nel secondo livello, oltre alle fontane a cascata troviamo i prestigiosi roseti a cui l’abbazia deve il nome: più di 750 specie differenti, tutte indicate per nome per consentire al visitatore di distinguerle, si succedono in uno spettacolo silenzioso e maestoso. Al centro dei roseti trova spazio il celebre Labirinto delle Rose, che ricopre una superficie complessiva di 300 mq. Il labirinto è stato realizzato secondo un mirabile progetto che unisce tipologie differenti di rose, dalle rampicanti alle cespugliose, integrate in modo che la sfioritura dell’una coincida sempre con la fioritura dell’altra, per far sì che non risulti mai spoglio. Nel cuore del labirinto, circondata da un laghetto, si trova la statua della Ss.Maria delle Rose, col bambino in braccio. E’ qui possibile fare una sosta approfittando della quiete e dei meravigliosi profumi che caratterizzano l’aria. Il labirinto è aperto solo la mattina, e non è consentito l’accesso ai minori non accompagnati. 
Scendendo ulteriormente si arriva alla zona delle passeggiate e dei frutteti, dove alberi da frutto potati ad arte sono i protagonisti dei tre tragitti: il Percorso dei Peri, il Percorso dei Meli e quello dei Ciliegi. Questi tre itinerari, della durata stimata di circa 45’ ciascuno, sono debitamente segnalati e portano alla scoperta di curiosità inerenti alle tre specie, notizie circa le qualità dei loro frutti e particolarità di ogni diversa tipologia. 
La leggenda narra che, tra le tante piante strane ed esotiche che si possono ammirare al Giardino Botanico, la più importante sia l’araba Rosa Pulcra Coeli, una rarissima specie tipica del deserto e delle zone nord africane che durante le notti di maggio canterebbe una specie di litania; secondo la tradizione indicherebbe la strada alle persone buone e pure di cuore, mentre farebbe girare a vuoto i cattivi e i prepotenti. 
 
Anna Costanza Tassotto Verdi vive nella bassa tra Lodi e Piacenza, con la madre, e le sue piante grasse e i suoi due cani. La sua grande cultura enogastronomica la rende piacentina se non di nascita, quantomeno di predisposizione. Sempre più amante della scrittura, sta cercando le regole auree per relazionarsi col prossimo, applicando ovviamente la meravigliosa sequenza di Fibonacci. E’ discalculica: inverte i numeri. Motivo per cui non le riesce molto bene l’applicazione della sequenza per la quale ha, ciò nonostante, un riguardo pressoché religioso.
 

IL FARO DI BETTOLA

Situata sulla sommità del Monte Osero, a mt 1308 slm, la Lanterna di Bettola è un autentico faro, risalente al 1800 circa, alto 75 metri, oltre alla lanterna vera e propria; la struttura ha base quadrata e lato di 7 metri; all’altezza di 5, tre piccoli gradini riducono la dimensione del monumento fino all’inizio della parte conica, che parte con un diametro di 5,80 metri e arriva alla sommità, con un diametro di 2,70 metri. Il faro vero e proprio ha un’altezza di 3 metri. 

Monumento architettonico di pregio, il faro mostra, nella prima parte del cono, gli altorilievi delle tre caravelle di Colombo, e sulla base 4 bassorilievi che narrano le fasi salienti della sua vita. Il più famoso, visibile in foto anche nella pagina facebook del faro - www.facebook.com/faro.bettola - narra la vicenda del giovanissimo Cristoforo nella sua casa natale nella Torre Medievale di Pradello.

Da sempre vicini per tradizioni e contiguità geografica alla Liguria, con la quale in passato, attraverso la famosa via di Genova, i mercanti scambiavano grano e olio, i bettolesi costruirono il Faro per dare ai viaggiatori per terra e per mare un punto di riferimento che fosse visibile da lontano e segnalasse a tutti la loro cittadina. Posto sulla sommità del Monte Osero, il faro era ed è tuttora raggiungibile da parte dei custodi, si dice discendenti in linea femminile della famiglia di Colombo, attraverso un sistema di tunnel e gallerie.

L’aspetto attuale del faro, frutto di ripetuti abbellimenti e restauri, costituisce un’ulteriore manifestazione dell’attaccamento dei bettolesi al famoso navigatore.

Con una sistema di illuminazione moderno, basato sulla luce crepuscolare, oltre che azionato direttamente dal custode, il faro è attualmente costituito da lampade elettriche e con motorizzazione dell’ottica; un tempo alimentato da un generatore diesel, oggi funziona anche grazie all’energia eolica e ad accumulatori fotovoltaici. Una luce fissa ad alta intensità emette brevi lampi luminosi omnidirezionali; caratteristica e periodo sono stati concordati con il Comando di zona di La Spezia.

La colorazione esterna del faro riprende il turchese e il verde dello stemma di Bettola, mentre altorilievi e bassorilievi sono in marmo bianco. Le luci intermittenti funzionano sia di notte sia di giorno, e un vero guardiano, con cappellino da marinaio, pipa e scarponi da montanaro, controlla che navi e altri mezzi – si racconta che negli anni in cui fu in uso, anche la Littorina utilizzasse il faro come riferimento – non perdano la rotta e assiste chi per caso giunge da lui offrendo prodotti tipici locali e un boccale di birra: da sempre nel faro si può gustare la birra prodotta dal Birrificio di Bobbio [cfr. in merito la voce omonima]. Oggi il ruolo del guardiano del faro è ricoperto da un eccentrico bettolese in pensione. Grazie all’iniziativa del suo predecessore, oltre a regolari visite guidate del monumento ogni seconda domenica del mese si organizzano simulazioni della vita del Guardiano, con azionamento manuale della lanterna e relativa manutenzione e visite nelle gallerie che dal faro conducono al paese, principalmente per bambini, ma anche per gruppi di ogni età.

Preso da modello dal famoso scrittore romano dei lucchetti per uno dei suoi ultimi romanzi e successivamente utilizzato come location per alcune scene del film tratto dal romanzo stesso, il faro non è stato citato nei titoli di coda a causa del rifiuto da parte del Birrificio di Bobbio, fornitore unico della birra offerta nel faro, e del più famoso distributore di carburante di Bettola di contribuire alla sponsorizzazione del film stesso.


Barbara Tagliaferri è nata il giorno dell’attraversamento del Rubicone da parte di Annibale, prima nata in città di una stirpe di nati in campagna. Ama la provincia di Piacenza perché ci è nata e la sente casa sua, ha un affetto speciale per la val Trebbia, perché è da lì che trae le sue origini, ed è felice quando cammina per le vie del suo quartiere con il suo adorato Tobia: lì, certi giardini, all’interno di piccoli complessi di case una volta popolari, per lei sono meglio di Notting Hill per Julia Roberts. Campionessa di briscola in cinque ai tempi del liceo, nuota sin da piccola, ma senza aver mai neanche pensato di applicarsi da un punto di vista agonistico, e ama la pallavolo femminile, che segue in veste di tifosa appassionata. Ama leggere e ogni tanto scrive. Vorrebbe riuscire a finire un romanzo iniziato alla Bottega di Narrazione, nel lontano 2011. Tutte le circostanze sono sinora state sfavorevoli, ma il vento sta cambiando.

IL CIMITERO DEI FONDI DI PROSCIUTTO

Terra di cerniera tra Emilia e Lombardia, tra le valli del Piacentino l’alta val Tidone può vantare i pendii più dolci e riccamente punteggiati di vigneti, boschi, antichi borghi, rocche, castelli e casali ristrutturati. Si snoda attorno al fiume Tidone che dalle pendici del Monte Penice (mt 1.460 slm) scende al Po tra i comuni di Pianello, Nibbiano, Caminata e Pecorara. Quest’ultimo è il borgo più alto e qui svettano i monti Pietra Corva (mt 1.078 slm) e Mosso (mt 1.008 slm).
Un tempo terra di mulini (tradizione recuperata grazie alla Strada dei Mulini), oggi la valle è nota per i suoi prelibati tartufi (celebrati da una rassegna che si tiene in ottobre a Pecorara), la sua tradizione enogastronomica e la sua tranquillità.
È in questi luoghi, tra le località Salenzo e Ca’ del Diavolo, in un’area fra Pecorara e Pianello, che nel 2001 un assessore regionale - poi processato per aggiotaggio, abigeato e concubinato - si incaponì a creare un progetto presentato come “la risposta concreta a un annoso problema”: un impianto di smaltimento dei fondi di prosciutto, salame, coppa e affettati vari che intasano gli scaffali dei supermercati emiliani. “Tranci di lardo, avanzi di mortadelle e bresaola, rimasugli di cotto e culatello parcheggiati per mesi sugli scaffali”, sottolineò in conferenza stampa l’assessore, “intasano il ciclo produttivo, rallentano l’economia territoriale, frenano il rilancio della filiera enogastronomica del Sistema paese. Toglieremo questo granello di sabbia dagli ingranaggi”.
Per indorare la pillola, l’impianto fu chiamato Centro Unico Lavorazione. Gli uffici stampa snocciolarono studi di geologi e di università che ne certificavano l’impatto zero. Nei rendering distribuiti ai media l’impianto era appena visibile, circondato da alberi e siepi, con uno stabilimento per il recupero delle confezioni costruito secondo i dettami della bioedilizia e una vasca di raccolta degli insaccati, il tutto su un’area di 28mila metri quadrati.
La risposta della società civile piacentina contro il maxi impianto fu immediata. La mobilitazione abbracciò un fronte che andava dai centri sociali ai Digiunatori per la Pace, dalla Confraternita dei Grass all’Associazione Amici del Vombato. Ben presto però il fronte “No CUL” si frantumò fra le istanze anarchico-global-insurrezionaliste dell’ala dei movimenti (“Uscire dalla gabbia del conformismo, generare percorsi di lotta e riproporre le istanze del territorio tramutandole in mobilitazione globale contro il profitto dei Poteri Forti. Con lo Stato borghese non si discute, lo si abbatte. NO al cimitero dei prosciutti”) e le rivendicazioni pragmatico-localiste dell’associazionismo di base (“I culi delle coppe dateli a noi”, scrissero i Grass al Prefetto). Fu incendiato qualche escavatore, lanciata qualche molotov ma poi calò il silenzio.
Tre mesi dopo l’inaugurazione mezza giunta regionale fu arrestata e il CUL messo sotto sequestro. Il tempo, i vandali e il sale degli insaccati fecero il resto: i macchinari si arrugginirono, una frana spaccò il vascone in due come una noce e nel capannone presero a farci le gare di softair.


Fabrizio Tummolillo è nato a Milano e vive a Pecorara, sulle amate colline piacentine della val Tidone, con la moglie e il gatto Fennec*. Laureato in Scienze dell'Educazione all'Università di Bologna, è giornalista professionista dal 2004 e redattore del quotidiano Il Cittadino. Con l'attore e regista teatrale Giulio Cavali ha scritto "Linate 8 ottobre 2001 - La strage", spettacolo-inchiesta sulla strage di Linate, la cui prima si è tenuta nel 2006 nel Piccolo Teatro di Milano, con repliche in numerose città d'Italia. Dallo spettacolo è stato tratto un libro pubblicato da Edizioni XII. Con il cantautore Riccardo Maffoni ha scritto la canzone “A saperlo prima”, dedicata alla strage. Ha anche pubblicato una raccolta di racconti brevi intitolata "Un'altra sera" (ed. Il Papiro/Altrastoria). Probiviro della Confraternita dei Grass, convive con un’inestinguibile tendenza all’obesità.

* Nessun collegamento con l’attrice, che peraltro di cognome fa “Fenech”. Il fennec (vulpes zerda) è una piccola volpe che abita il deserto del Nordafrica (coste escluse).

sabato 7 dicembre 2013

LA BARGNOLERIA DEI BALOSSI

Via Pace 38/C
Dalla stazione ferroviaria si consiglia di prendere l’autobus n. 3 in direzione Borghetto, fermata piazza Duomo. La Bargnoleria è aperta dalle 9.00 alle 01.00. Il giorno di chiusura è il lunedì. Chiusura estiva in agosto. Su prenotazione è possibile visitare il laboratorio dove viene prodotto il bargnolino. Info: Tel 0523.543897 - Fax 0523.543367 - Email: info@labargnoleria.it - Sito web: www.labargnoleria.it 
 
La Bargnoleria è uno dei locali più frequentati di Piacenza. Qui è possibile acquistare bargnoli o prugnoli freschi (in dialetto bargnö, prügnö o spein négar), ovvero bacche di susino spinoso (detto anche nerospino), di color bruno nerastro, utilizzate per la distillazione di un tipico liquore locale, il bargnolino. Ma anche trascorrere un dopocena o una pausa durante la giornata sorseggiando bargnolini delle migliori riserve, distillati dalle bacche provenienti dalle siepi più rinomate della provincia piacentina. Tra le più prestigiose vintage si consigliano l’ottobre 2003 riserva brüt, da un maccione che costeggia il passo Caldirola, sotto la Pietra Parcellara; il novembre 2005, vendemmia tardiva della boscaglia del Monte Pillerone (Mont Pirlon); il dicembre 2008, selection des Grain nobles della rasèra di Soprarivo di Boscone.
La rivendita si trova in una zona centralissima della città, in prossimità della piazza del Duomo, ed è ospitata al pian terreno di un antico palazzo cinquecentesco di proprietà dei conti Anguissola che, alla fine dell’Ottocento, decisero di affittarne una sala a una giovane famiglia, i Balossi di Chero, i quali investirono ogni loro denaro per avviare l’attività. Il capofamiglia Luigi Balossi era così innamorato del sapore brusco dei prugnoli che volle inventarsi un liquore ricavato dalla bacca. Così mise a punto una ricetta che ancora oggi, nei dettagli, resta sconosciuta ai più. Attualmente la Bargnoleria è gestita dalla quarta generazione, ed è il Signor Antonio il mastro bargnolaio depositario degli antichi segreti della distillazione del gustoso nettare. 
Entrando nel locale il visitatore è investito da una vivace fragranza di zucchero e alcool, tra gli ingredienti che si suppone siano alla base della ricetta, mescolati a qualche ignota sostanza che rilascia nell’aria effluvi portentosi. Ma poi sono gli occhi a cedere alla meraviglia degli stucchi dorati che brillano sull’ampio soffitto a volta della sala principale, riservata alla degustazione. Qui, in teche di cristallo, vetrine, credenzini in legno bianco laccato e intarsiato, tintinna un luccichio di bottiglie e brocche di varie fogge e misure, mentre al bancone sono conservati, in contenitori refrigerati, prugnoli appena raccolti suddivisi per località e diverso grado di asprezza. 
I pavimenti sono in cotto originario mentre le pareti, decorate con ramoscelli di prugnoli essiccati dalle varie tonalità di verde e con i fiori bianchi della pianta, rendono l’atmosfera calda e rilassante. Il servizio è molto attento e curato e, per i meno esperti, un inserviente sa consigliare sulla migliore annata o sugli aromi più adatti a deliziare il palato. Ci sono bargnolini aromatizzati alla ciliegia di Villanova, alla prugna meschina di Albarola, ai fichi di San Giorgio, al Gutturnio, all’asparago piacentino, al tortello con la coda. Generalmente vengono serviti con stuzzichini a base di prodotti locali (coppa e gnocco fritto, ciccioli, formaggi stagionati, pancetta e salame). Molto richiesti sono anche i coktail Bargnö Frozen e Kaipi Bargnö.
Assidui frequentatori della Bargnoleria sono lo stilista Giorgio Armani, il calciatore Filippo Inzaghi, l’attrice Isabella Ferrari. Lo scrittore Dino Buzzati, di passaggio, ebbe a dire: “Il liquore più buono del mondo”. Oggi questa frase è diventata un marchio stampato su tutte le bottiglie prodotte dalla Bargnoleria. Bottiglie che nel periodo natalizio vengono impacchettate in originali confezioni regalo da non perdere.
 
Note: 
Presso la Bargoleria è possibile acquistare il libro a cura di Luke Zaninoni, “Bargnolino, mon amour” (ed. Mondadori, Milano, 2011). Viste le numerose richieste di bargnolini provenienti da tutto il mondo non sorprenderà sapere che il profilo twitter della Bargnoleria sia seguito da un esercito di 100.347.998 followers, estimatori della bevanda. Tra questi figurano il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il cantante Mick Jagger, il regista spagnolo Pedro Almodovar, il tennistavolista giapponese Ai Fukuhara, il cagnolino Dudù e Papa Francesco che recentemente ha cinguettato: “#bargnolinodipiacenza: non puoi starne senza”.
  
Chiara Ferrari vive con Stefano, un adorabile cuoco che le prepara deliziosi manicaretti.  Non ci abita più, ma al paese di Centovera ha trascorso una spensierata infanzia e l’adolescenza. Tutti i bambini dovrebbero crescere tra campi di pomodori. Lì, alla scuola elementare, aveva lanciato la moda di disegnare volti di persone, a cui assegnava un’identità. Aveva tappezzato i muri. Crescendo ha scoperto che, invece dei pastelli, le veniva meglio usare la scrittura per creare storie e personaggi. Così, ogni tanto, prova a inventare racconti di luoghi immaginari o biografie di piacentini illustri. Nel tempo libero si diverte a disturbare la quiete pubblica gorgheggiando canzoni irlandesi insieme alla sua band, sforzandosi, il giorno dopo, di essere seria e credibile dietro una cattedra. 

giovedì 5 dicembre 2013

#, 02

Il mio cane è malato e perde il pelo, così ho dovuto comprargli un cappottino, marca Fashion Dog.
Ora lui mi guarda con odio.

DEVENDRA BANHART, "Mala" (2013) - KURT VILE, "Wakin’ on a pretty daze" (2013) - IRON & WINE, "Ghost on ghost" (2013)

La geografia USA è immensa, e spostandoci da una costa all’altra andiamo a scovare alcuni tra i migliori cantautori di questo inizio millennio. 
Banhart ormai non è più un novellino. Questo strambo hippie fuori tempo, cresciuto in Venezuela e poi trasferitosi in California (prima a Frisco e poi a Los Angeles), è giunto all’ottavo disco. “Mala” - dal serbo, lingua della sua compagna, la fotografa Ana Kras - non è uno dei suoi migliori, leggero e a tratti sfocato, ma non tradirà le attese dei fan più duri, con la consueta miscela di indie-folk fricchettone e ritmi caraibici e sudamericani. 
Vile, da Philadelphia, è invece assurto da meno tempo alle cronache, anche se ha all’attivo ormai cinque album. In questo “Wakin’ on a pretty daze” si fanno notare l’incedere indolente e sbilenco alla Lou Reed - ci sono almeno tre o quattro pezzi che assomigliano a “Sweet Jane”, in questo disco, anche se la critica preferisce i paragoni con Neil Young - e il gusto per la ripetizione all’infinito di un riff o di un giro di basso – prendete la conclusiva “Goldtone”, lunga quasi dieci minuti e tra le migliori insieme a “Pure pain” e “Shame chamber” (quest’ultima con uno strillo rubato all’hombre lobo degli Eels).
Un doppio album per quasi settanta minuti di musica, forse troppi.
Iron&Wine, al secolo Sam Bean, aveva abbandonato il folk da strada degli esordi per le orchestrazioni raffinate e a più strati di “Kiss each other clean” (2011), che a noi era tanto piaciuto, e per questo era stato accusato di tradimento come un novello Bob Dylan. Prosegue ora il nuovo percorso con un album ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon. Tra i pezzi più riusciti “Caught in the briars”, “Low light buddy of mine” e i gioielli acustici “Joy” e “Sundown (Back in the briars)”.
Notevole.

JAMES BLAKE, "Overgrown" (2013)

Con colpevole ritardo vi parliamo del secondo album di James Blake, enfant prodige della scena dubstep londinese, acclamatissimo dalla critica britannica - e non solo - per il suo debutto eponimo del 2011.
“Overgrown”, questo il significativo titolo del nuovo lavoro (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta – Blake è del 1988), si apre con il brano omonimo che denuncia le sue difficoltà e le sue angosce derivate da un improvviso successo, che tutto travolge (“I don’t wanna be a star/But a stone on the shore/Long door, frame the wall/When everything’s overgrown”). Brano delicato e suggestivo, tra Antony e Bon Iver, la Bjork più sperimentale e il grande Tim Buckley. Una voce emozionante, struggente, matura e personale; quasi nera. Imparentata, oltre che con Antony, con il soul contemporaneo di Drake.
In successione, arrivano le altrettanto ottime e introspettive “I am sold”, che risente dell’influenza del miglior Moby,  e “Life rounds here”, con un groove futurista. Potrebbe affiorare la stanchezza, ed ecco che Blake spiazza tutti con “Take a fall from me”, ove lascia spazio all’hip hop sommesso di RZA. La strepitosa ed epica “Retrograde”, nuovo singolo, chiude nel migliore dei modi l’ipotetica side A (“I’ll wait, so show me why you’re strong/Ignore everybody else/We’re alone now/Suddenly I’m hit/Is this darkness of the dawn/And your friends are gone/When you friends won’t come/So show me where you fit/So show me where you fit...”).
La seconda parte inevitabilmente cala di tensione, e tuttavia “Digital lion” – che vanta la produzione di un mago dell’elettronica come Brian Eno – e “Voyeur” aprono nuovi orizzonti con l’apertura a ritmi più sincopati e a un’elettronica house. In chiusura, due brani minimali e struggenti come “To the last” – con una notevole coda melodica, quasi Bristol sound - e “Our loves come back”.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra. 
Un disco praticamente perfetto.

mercoledì 4 dicembre 2013

BEST_OFF 2013, 01

NME:
1. Arctic Monkeys 
2. Kanye West 
3. Queens of the Stone Age 
4. Foals 
5. Savages 
6. Daft Punk 
7. Arcade Fire  

 
Mojo:
1. B. Callahan (great) 
2. Daft Punk 
3. D. Bowie 
4. A. Monkeys 
5. J. Grant 
6. Deerhunter 
7. Vampire Weekend  

martedì 3 dicembre 2013

GLI INSULTI DI MR. BINGO





TROVARSI IN MEZZO A BURROUGHS E GINSBERG

(da "Il Fatto quotidiano". edizione online, 01.12.2013)
Monumentale, mozzafiato, denso, caleidoscopico. Questo e molto altro è Sunnyside, il voluminoso romanzo dello scrittore statunitense Glen David Gold (tradotto da Daniela Liucci e pubblicato in Italia da LiberAria). Il libro si apre su una fredda giornata d’inverno del 1916: una come molte altre, se non fosse che in questa il famoso attore Charlie Chaplin viene avvistato in più di ottocento posti simultaneamente. La successiva e straordinaria delusione collettiva, suscitata dalla scoperta che si tratta solo di presunte, dunque false, apparizioni, legherà per sempre il destino di tre uomini ignoti l’uno all’altro: Leland Wheeler, il figlio dell’ultima (e peggiore) star del Wild West, che scoprirà un amore inaspettato sui campi di battaglia francesi; Hugo Black, arruolato per combattere sotto il comando del generale Edmund Ironside nella spedizione senza speranza contro i bolscevichi; infine lo stesso Chaplin, che sarà alle prese con una serie di infinite complicazioni: i magnati degli studios che metteranno in dubbio il suo patriottismo, il suo cuore irrequieto e, cosa ancor più minacciosa, la propria madre. La narrazione di Glen David Gold è ricca e vasta, tanto quanto l’ambientazione e l’elenco dei personaggi sono arricchiti da una lista strabiliante di persone vere e inventate: Mary Pickford, Douglas Fairbanks, Adolph Zukor, la prima moglie bambina di Chaplin, una scout ladra, il segretario del tesoro, uno studioso di cinema innamorato, tre principesse russe, una quantità industriale di fan e perfino il famoso cane Rin Tin Tin. Leggero ma sempre intenso, coinvolgente nella trama e strabiliante nello stile, Sunnyside è un romanzo ammaliante che ci racconta i sogni, l’ambizione e l’alba dell’epoca moderna.
Sempre per LiberAria è uscito un testo, evocativo e intenso, dell’architetto piacentino Giovanni Battista Menzani: L’odore della plastica bruciata. Tredici racconti conditi di humor allucinato e grottesco. Un’immensa periferia globale e stereotipata fatta di svincoli autostradali, capannoni prefabbricati, outlet di cartapesta e cartelloni pubblicitari. Un paesaggio scorticato, popolato da persone disilluse, incattivite, apparentemente senza prospettive in un contesto sociale caratterizzato da una pesante crisi economica. Cartoline dall’inferno spedite ai lettori. Un’Italia letta e scritta attraverso una lente di ingrandimento deformante dove gli unici sentimenti ancora possibili sono la paura e la conseguente rassegnazione alla pena di vivere in un mondo votato all’eccesso e privo della quotidianità rassicurante ormai ingoiata dai nuovi mostri: esseri senza ribellione e senza via di fuga.
Uno stile secco e diretto, senza fronzoli quello di Nuccio Franco, autore de Il sogno di Safiyya (Arkadia Editore), romanzo che nasce fra le ceneri della Bosnia violentata dalla guerra fratricida per giungere fino al villaggio di Nevè Shalom, un’oasi di pace dove musulmani, ebrei e cristiani convivono in perfetta armonia. Il libro narra la storia del reporter Jan, nella mente esso ha il sorriso di Youssuf e gli occhi della figlia Safiyya, che ha lasciato in Italia prima di partire come cronista. Tornato dai Balcani, abbandonato lo scenario truculento di Sarajevo, Jan deciderà di dare una svolta alla sua vita e convincere Safiyya a seguirlo alla ricerca di una terra in cui ogni essere umano è uguale, dove non si muore perché si appartiene alla fede sbagliata o si possiede un colore di pelle diverso.
Portato sul grande schermo da John Krokidas con il titolo Giovani ribelli-Kill your darlings, è stata pubblicato dal Saggiatore l’opera che ha ispirato il film, Bloodsong, di Allen Ginsberg (a cura di James Grauerholz). Nel 1943 alla Columbia University di New York nacque fra tre giovani un’amicizia che avrebbe dato vita al cuore del movimento beat: in quell’anno Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs frequentavano l’istituto insieme a Lucien Carr, lo studente che li aveva fatti incontrare. Allievo eccezionale dalla mente fertile, sognatore e amante della notte, Carr era il collante che teneva insieme i tre giovani artisti. L’anno successivo Carr venne accusato dell’omicidio di David Kammerer, amico di infanzia di Burroughs e rampollo di una ricca famiglia di St. Louis. Questo omicidio, per il quale Kerouac e Burroughs furono arrestati come testimoni e possibili complici, colpì terribilmente l’immaginazione di Ginsberg, che decise di trarne un romanzo, Bloodsong, rimasto incompiuto. Questo volume raccoglie una scelta di brani dai diari giovanili di Ginsberg, soffermandosi in particolare sul suo rapporto con Carr, sull’omicidio e sulle conseguenze che questo ebbe sui frammenti dell’opera incompiuta.
Può una religione diventare fonte di odio e di morte? Esiste, tra le varie fedi della terra, una più propensa rispetto ad altre a connotarsi in maniera fondamentalista? Se lo chiede, e cerca di rispondere, lo psicologo Christian Zanon in un saggio di facile e veloce lettura, Fondamentalismi. Le chiavi psicologiche per capire l’integralismo religioso (Arkadia Editore). L’autore prende in esame le più grandi religioni del pianeta interpretandole dal punto di vista psicologico per comprendere quali siano i meccanismi di trasformazione e come un messaggio, che dovrebbe essere di pace e amore, possa deviare dal suo cammino e produrre effetti a volte devastanti. Basandosi sulle vicende internazionali degli ultimi decenni, prendendo spunto dalle lunghe interviste con esponenti di diversa matrice religiosa, Zanon ricostruisce un quadro lineare ed esaustivo, arrivando alla conclusione che nessuna fede, di per sé, è fondamentalista. Sono gli uomini che vi aderiscono a determinarne sempre, per i più svariati motivi, le derive che conducono a massacri, guerre, attentati, discriminazioni, persecuzioni.
Di solito non mi occupo di poesia, ma Mattanza dell’incanto (Marco Saya Editore), di Nicola Vacca, una delle voci più originali, attente, indipendenti e coraggiose del panorama intellettuale italiano, va oltre il lirismo per imporsi al lettore come uno spaccato onesto e limpido della condizione attuale del Belpaese. Poesia civile di chiara indignazione ideologica e culturale quella dello scrittore, critico letterario e opinionista gioiese. Nella prefazione, Gian Ruggero Manzoni scrive: “Nicola Vacca indica, in questo suo ultimo libro, oltre che le cause, anche i possibili effetti del crollo, affidandosi alla poesia, la quale ritorna a diventare ‘metodo sociale di lotta’ al fine di sensibilizzare (accusare) poi di spronare una possibile reazione a uno stato, non accettato, putrescente e cancrenoso”. Un antidoto al nichilismo, una scossa per i sensi e per le atrofizzazioni mentali che investono tutti. “Il mondo brucia / anche se non ci sono fuochi / che accendono l’oscurità”. Da leggere e rileggere.
(Lorenzo Mazzoni)

venerdì 29 novembre 2013

GUIDA AI LUOGHI FANTASTICI DI PIACENZA (E PROVINCIA)

Il mondo esiste. E questa è una gran bella notizia. Passato al vaglio dai filosofi un secolo dopo l'altro, scandagliato dai naturalisti e dai biologi, mappato con perizia sempre crescente dai geografi, il mondo senza dubbio esiste. In effetti, esisteva ben prima che filosofi, naturalisti, biologi e geografi ci si mettessero di buzzo buono perché – dobbiamo dirlo – esisteva ben prima della comparsa dell'uomo, ben prima della comparsa del babbo dell'uomo (quello peloso che mangia banane e passa agilmente da un albero all'altro), ben prima della comparsa del nonno minuscolo dell'uomo (quello fatto di qualche cellula che vagola nei mari) e via risalire. D'ogni modo, a quanto pare, tra i tanti abitanti che l'hanno gremito nel tempo e tuttora lo gremiscono, l'uomo è il solo che si è dato la pena di cercare di capirlo nel suo complesso, da tutti i punti di vista possibili. Ma sempre partendo da un presupposto: che il mondo è questo qui che abbiamo sotto i piedi. Non di altro ci si deve occupare.
Nel loro piccolo, le guide turistiche sono un modo per affrontare il mondo, anche se quando le prendiamo in mano le consideriamo strumenti d'uso spiccio. A differenza della maggior parte dei libri non le si legge dalla prima all'ultima pagina, ma le si consulta saltabeccando qua e là e cogliendo quel minimo che ci serve: in fondo loro sono solo un mezzo, l'esplorazione del posto in cui ci troviamo è il fine. Insomma: il ritorno al mondo, è il fine. E tuttavia, col nostro uso spiccio, forse tralasciamo di renderci conto che comporre una guida significa compiere tutta una serie di azioni spregiudicate e a tratti spericolate. Prima azione: rendersi conto di cosa c'è dentro il fazzoletto di mondo prescelto (città, regione, stato che sia), vale a dire percorrerlo e considerarlo, allertare i sensi, farsi capienti di impressioni. Seconda azione: stabilire un'orografia di valori tra tutto quello in cui si è incappati (quali sono i musei da non perdere?, in quali piazze si è fatta davvero la Storia con la esse maiuscola?, quali ristoranti è meglio consigliare?, da dove trarre i souvenir senza che abbiano l'aspetto atroce di souvenir pur essendoli?). Terza azione: stabilire un ordine in cui rilasciare tra le pagine i materiali di cui ci siamo appropriati. Quarta azione: trovare uno stile di rilascio che proceda in equilibrio tra sintesi e analisi, non dilungandosi in frivolezze ma nemmeno tralasciando quello che è importante dire. Insomma, comporre una guida vuol dire prendere per le corna il mondo e farci i conti, dando fuori un manualetto d'uso che sia utile a chi vorrà prenderlo per le corna dopo di noi.
E va bene, okay, tutto questo è vero partendo dal presupposto che il mondo esista e che di quel che è nel mondo ci si voglia occupare. Ma se il presupposto invece cambiasse? Se, pur continuando a esistere il mondo, si volessero esplorare e inventariare cose che non ci sono, ma potrebbero, messe a fianco di quelle vere? Su questo presupposto riposa il lavoro compreso nelle pagine seguenti. Si tratta infatti di una serissima guida a luoghi fantastici, o a dettagli fantastici di luoghi reali. Il fazzoletto di mondo preso in considerazione è la provincia di Piacenza, una strana terra che ha tutte le carte in regola per essere resa fantastica: a partire dalla sua posizione geografica ambigua, che la rende anfibia tra Emilia, Lombardia, Piemonte e Liguria, impossibilitata a dedicarsi davvero anima e corpo a una delle regioni, passando per un clima infarcito di nebbia, vale a dire dell'elemento climatico che favorisce l'invenzione per eccellenza, per arrivare infine alla tanta acqua sventagliata nel territorio, tra il Po e i suoi affluenti, e si sa, l'acqua è quanto di più mutevole si possa trovare ai nostri piedi.
Nella guida dunque troverete musei, luoghi di rilevanza storica, negozi, ristoranti, chiese, sotterranei, vie a vario diritto notevoli, aree verdi e quant'altro, oltre naturalmente a un'appendice dedicata alle principali ricorrenze del territorio, vale a dire feste e manifestazioni: del resto, in un luogo ci si reca non solo per visitarlo, ma anche per immergersi nei suoi usi&costumi. E per una volta, la lettura di una guida vi prenderà dalla prima all'ultima pagina, non sarà un varco di passaggio per arrivare al viaggio vero e proprio ma sarà un viaggio in sé e per sé, compiuto e, appunto, fantastico.
Va da sé che probabilmente desidererete visitare davvero le tappe descritte. O talvolta farci finire qualcuno che vi sta antipatico (non tutto quel che di notevole c'è in un territorio è per forza piacevole...). Purtroppo non è possibile. Oppure sì? A lungo andare qualche cosa colerà fuori dalla guida, attecchirà nella realtà e crescerà fino a esserci davvero e del tutto? Chi lo sa. La guida è piena di proposte, adesso sta al mondo accoglierle.
(prefazione di Gabriele Dadati e Giovanni Battista Menzani)

mercoledì 27 novembre 2013

#, 01

Mia figlia si è accorta che tutti i giocattoli sono Made in China.
Però, ha detto ieri a tavola, questi cinesi fanno proprio delle cose belle.

domenica 24 novembre 2013

ROCK’n’GOAL: CALCIO E MUSICA. PASSIONI POP, di Antonio Bacciocchi e Alberto Galletti

Sottovalutato anche qui da noi, forse a causa di quella timidezza, di quel garbo e di quella pacatezza che lo contraddistinguono, Antonio “Tony Face” Bacciocchi - coinventore di “Tendenze” e membro storico dei Not Moving - è stato ed è tutt’ora un grande agitatore culturale. Cultura da intendersi nel senso popolare del termine. A differenza di altri intellettuali più snob, Tony non ha mai nascosto le sue simpatie verso passioni pop come la musica e il calcio, oltre che per la politica e i temi sociali. Chi legge il suo blog (http://tonyface.blogspot.it) lo sa bene.
“Entrambi i fenomeni, calcio e rock, sono identitari” - racconta Bacciocchi in una recente intervista a Rolling Stone – “hanno un immaginario simile: come in un concerto la rockstar si esibisce davanti a un pubblico numeroso che lo incita e lo appoggia, lo stesso fa il calciatore…”. Per chiarire meglio il concetto, cita John Peel, storico DJ della BBC: “Sebbene entrambi siano condotti da gente volgare e rozza che non ha cuore altro che il cliente che paga, il prodotto in sé in entrambi i casi mantiene una capacità di partecipazione emotiva che va oltre la comprensione dei suddetti rozzi e volgari”.
Il tema del rapporto tra calcio e musica viene approfondito davvero con dovizia di particolari in “ROCK’n’GOAL. CALCIO E MUSICA. PASSIONI POP”, scritto a due mani con Alberto Galletti ed edito da Vololibero, con prefazione di Jacopo Casoni e postfazione di Claudio Agostoni.
Un libro che parla di calcio e di pop-rock. Ovvero, il sogno di Nick Hornby. Il sogno di molti di noi. "Rock’n’goal" ne analizza tutte le possibili, anche quelle più improbabili e insospettabili, connessioni. Calciatori cantanti, canzoni dedicate al calcio, tifosi eccellenti, il rock e le sottoculture nelle curve. Con stralci di interviste sulle passioni calcistiche di Mick Jagger, Paul McCartney, Roger Daltrey, Clash e decine di musicisti e cantautori italiani.
Il volume ha avuto una vasta eco sui media nazionali: ne hanno parlato i maggiori quotidiani,  il sito del Corriere gli ha dedicato persino una bella galleria fotografica, e Tony è stato ospite di Sky e a Quelli che il calcio.
Gli aneddoti e gli episodi da riportare sarebbero tantissimi, basti citare di un Julio Iglesias portiere della squadra giovanile del Real Madrid, di un piccolo David Bowie ottima ala sinistra, di un Badly Drawn Boy che a diciotto anni fece un provino per il Manchester United. O anche dei 45 giri incisi da Paul Gaiscogne, Kevin Keegan e Giorgio Chinaglia. Delle esibizioni pedatorie di Rod Stewart ed Elton John. Della fede dei fratelli Gallagher per il City, o di quella nerazzurra di Luciano Ligabue, che ha omaggiato Oriali nel brano “Una vita da mediano”. Di “Santa Maradona”, grande successo dei Manonegra. Di Jagger sul palco a Torino, l’11 luglio del 1982, con la maglia azzurra di Paolo Rossi. E del finale di “Fearless” dei Pink Floyd, con il coro della Kop, la curva del Liverpool, che intona “You’ll never walk alone”.
Tra le storie meno conosciute, c’è quella di Billy Bragg: durante un suo viaggio in Bolivia per realizzare un documentario per la BBC, a 4000 metri di quota davanti a un panorama mozzafiato, riuscì a captare una trasmissione inglese in cui si annunciava che il suo West Ham aveva perso 6-0 contro l’Oldham. Commentò: ‘Sentii il mondo crollarmi addosso”. Oppure c’è quella di “Munich Air Disaster 1958”, una bellissima canzone di Morrissey, da ragazzo assiduo frequentatore delle gradinate dell’Old Trafford, omaggio ai calcatori del Manchester United scomparsi in una tragedia aerea: “Li abbiamo amati, li piangiamo, sfortunati ragazzi in rosso”. Tornando in Italia, bella la testimonianza di oSKAr (Oscar Giammarinaro), leader della storica band Statuto, ultrà granata, in cui racconta il suo incontro con l’allora capitano del Torino Giorgio Ferrini: enorme, forte e fiero, (…) sempre pronto a difendere tutti i suoi compagni. “Quando diventai capitano dei pulcini dissi al mio allenatore: ma io dovrei fare come Ferrini? Come Ferrini non c’è nessuno, mi rispose con un’aria lui quasi sconsolata”.
Queste e altre chicche ci racconteranno Tony Face e Alberto Galletti in persona, mercoledì 27 novembre (ore 21), ospiti del Caffè letterario Melville di San Nicolò. 




giovedì 21 novembre 2013

Ora, che nessuno dica che twitter è solo una colossale perdita di tempo.
O che rende stupidi, come dice Jonathan Franzen, dimenticandosi di distinguere chi usa i social network in modo utile e intelligente da chi posta su youtube dei video in cui mescola le Mentos alla Diet Pepsi (cit.)
Insomma, tante cose non vanno nel mondo moderno, sempre per citare l'immenso autore de "Le Correzioni", ma perchè prendersela così tanto con l'unico social decente.
Guardate cosa ci ho trovato stamattina, per esempio.
E' o non è un capolavoro?
Realismo sovietico 100%.
Mutandoni agghiaccianti, e anche il vetromattone non è male, con quelle righe orizzontali e verticali incrociate.
Sono sicuro che anche Franzen apprezzerebbe.


martedì 19 novembre 2013

HO UN LIBRO IN TESTA

Guardatevi attorno: c'è un esordiente particolare.

Fra le notizie belle di questa settimana che entra c’è che giovedì 21 arriverà nelle librerie L’odore della plastica bruciata, libro d’esordio di Giovanni Battista Menzani. Lo pubblica LiberAria e si tratta di tredici storie dove forte è l’immaginario espresso, un immaginario bizzarro e allo stesso tempo sottile, che si pone sotto un segno: quello per cui il mondo in cui viviamo è esattamente come ci appare, ma al contempo è anche diverso, perché nasconde nei suoi anfratti qualcuno che ne paga i conti in maniera inaspettata.
Mi spiego. Nel primo racconto troviamo un outlet come ce ne sono tanti, con i suoi negozi che fingono di essere piccoli edifici, con la sua folla festante e quant’altro. Solo che, a differenza degli outlet che conosciamo, questo ospita anche dipendenti che travestiti da muli non solo fanno manutenzione, ma portano anche le merci sul dorso dai negozi fino alle macchine parcheggiate.
Nel quarto racconto ci troviamo a gironzolare tra le baracche abitate da aspiranti-comparse nei maggiori programmi televisivi: se ne stanno lì a oziare, bevono e litigano tutto il giorno, aspettando «la chiamata» per fare il pubblico in un quiz a premi, ma se va bene anche il finto ospite che racconta la sua finta storia struggente alla presentatrice di turno (un po’ finta anche lei) in studio. O ancora nel racconto seguente due agenti ispezionano l’appartamento di un vecchio – come già in passato – per verificare che abbia rispettato per bene il protocollo, che si sia attenuto a regole che a mano a mano emergono. E così via. Si tratta cioè tredici storie in cui i singoli sono sovrastati da un qualche sistema che li ha integrati – spesso al livello più basso – e li utilizza per far funzionare le cose a vantaggio degli altri. Li sfrutta? Li umilia? Può anche essere, sì, ma non è questo il punto. Se ne serve, ecco. Ed è tutto normale.
Quello che voglio dire è che Giovanni Battista Menzani, col suo libro bello e sbarazzino, sembra quasi aver portato all’eccesso il nostro mondo (o aver visto, dentro il nostro mondo, qualcosa che a tutti noi sfugge) ed essersi dedicato a raccontarlo con estrema precisione, oltre che con dignitosa vicinanza. I suoi personaggi non sono né patetici né macchiettistici, semplicemente sono perché così devono essere. Mi fa venire in mente uno scrittore statunitense tradotto credo con nessun successo da minimum fax una decina di anni fa, Steven Sherrill, e il suo romanzo Il Minotauro esce a fumarsi una sigaretta, storia di M., il Minotauro appunto, che lavora come cuoco in una bisteccheria e sogna di aprire un chiosco di hot dog per starsene tranquillo con la ragazza che ama. Che sia un Minotauro non fa specie a nessuno, e basta.
Giovanni è l’ideatore di quell’impresa che è il Dizionario Biografico Fantastico dei Piacentini Illustri (PiacenzaSera, 2012), di cui ho avuto la fortuna di essere cocuratore. Che dirvi? Le sue idee sono così, un po’ bislacche, ma molto sensate. Ne parleremo insieme mercoledì 20, ore 19, alla libreria Fahrenheit 451 di Piacenza (sta in via Legnano, a cento metri dal Duomo). Alla fine, tra l’altro, mi sa che si beve. Se riuscite a passare fa piacere, o se no L’odore della plastica bruciata lo trovate un po’ ovunque il giorno dopo.

(Gabriele Dadati)

 http://www.hounlibrointesta.it/2013/11/18/giovanni-battista-menzani-l-odore-della-plastica-bruciata/

CARTOLINE DALLA FINE DEL MONDO, 01


mercoledì 13 novembre 2013

ORDINE E FLUTTUAZIONE DI DFW

Nel vedere e nel provare qualcosa che somigli a ciò che Barry Dingle prova mentre fissa a bocca aperta da dietro gli occhiali e da dietro la vetrina del negozio il vetro che riflette oscuramente dell’autobus impantanato, lo studioso del fenomeno Barry Dingle deve provarsi a immaginare l’inimmaginabile ricchezza, portata, promessa dei bollettini comunitari di fronti ai quali Myrnaloy si pone come selezionatrice e sentinella, una bacheca di svolazzanti annunci estrosi, sfregi all’Establishment, presentazioni – richieste di attenzione da parte di gruppi di sostegno delle lesbiche cifotiche, bar maoisti, lotti di orti biologici in affitto, dentisti che deprecano mercurio e alluminio, partiti politici dall’orientamento oscuro con nomi più lunghi delle liste dei candidati, insegnanti di sitar, telefoni amici per anoressici, diffusori orientali e mediorientali della coscienza spirituale, telefoni amici per bulimici, medici che curano con cristalli e grano, troupe di ballerini interpretativi di tip tap, massaggiatori olistici, agopuntori, agopuntori chiropati, mimi marxisti che hanno ricavato una pantomima dal Kapital, dattilografe, medium, specialisti in nutrizionismo, compagnie teatrali che rappresentano solo Brecht, riviste letterarie della Pioneer Valley con diffusione a due cifre, e avanti di questo passo – un aggeggio enorme, piatto, tempestato di graffette e puntine da disegno, con una speciale tenda del “Collective Copy” a proteggerlo dalle apatiche vicissitudini delle condizioni atmosferiche del New England. La bacheca è il ganglo avanguardista della zona, una calamita che con forza centripeta attira dal centro città gli ioni diffranti della vasta notte organizzativa di Northampton, che ogni mattina rampolla rinnovate, rutilanti rivendicazioni di esistenza e efficacia, curate, ordinate, setacciate nel tardo pomeriggio da Myrnaloy Trask che, al momento, riflessa nello scudo grigiastro del vetro dell’autobus, col vento di giugno a tracciarle serpenti tra i capelli, un dito dall’unghia mangiucchiata su uno scintillante volantino di leggittimità e valore discutibili, sta lì a decidere se quelle parole abbiano il diritto di esistere (…)

da "Ordine e fluttazione a Northampton", DAVID FOSTER WALLACE ("Questa è l'acqua", Einaudi, 2009)

ACTOR'S CUT OF "FUCK MONOLOGUE" FROM "25TH HOUR"

http://www.youtube.com/v/yXMt4pKRwwY?autohide=1&version=3&attribution_tag=yseXjpzNS8nxAFwsjarEEw&autohide=1&feature=share&showinfo=1&autoplay=1

La venticinquesima ora, SPIKE LEE, 2002.

domenica 10 novembre 2013

INCIPIT, 01 (COSE A CUI STO LAVORANDO ADESSO)

Una piramide rastremata verso l'alto, a tronco di cono, in mezzo all'oceano. Cosi' mi ero sempre immaginato il Purgatorio: una piramide con le balze successive intagliate nella montagna, simili a gradinate, come riprodotto sui libri e sulle enciclopedie. 
Stronzate.
E' solo una immensa e monotona pianura non coltivata, una distesa di erbacce e di terra e di polvere immersa nella nebbia. 
Il nulla come orizzonte.

mercoledì 6 novembre 2013

ARCHITETTURA MODERNA, 01


STEREO BLUES VOL. I: PUNK COLLECTION

L’EP “Stereo Blues Vol. 1: Punk collection” è il primo episodio di quattro omaggi che Lilith e i suoi Sinnersaints vogliono tributare alle radici del proprio sound, un viaggio trasversale e obliquo attraverso la musica rock e non solo; quattro omaggi che verranno successivamente raccolti in un imperdibile metalbox a tiratura limitata.
I brani selezionati per questo Volume One sono tutti datati alla fine dei Settanta. Un periodo fecondo e irripetibile, quando il punk – sporco, nichilista, trasgressivo – fece irruzione in un contesto caratterizzato da una forte crisi economica e dal riflusso di quella rivoluzione dei Sixties, ormai morta e sepolta. Gli anni in cui Lilith (al secolo: Rita Oberti), a soli quindici anni, contribuì a creare la leggenda dei Not Moving.
Un percorso personale, prima di tutto: ma anche un tributo a una generazione.
“Sailin’ On” è un classico dei Bad Brains, gruppo di Washington tra i pionieri dell’hardcore: la versione di Lilith è assai più lenta, un notevole blues indolente a là Nick Cave. 
“i’m stranded” è il singolo di debutto degli australiani Saints, che nel ’76 anticiparono un po’ tutti, persino i Sex Pistols. Qui sembra suonata dagli Husker Du o dai R.E.M. di “Murmur”.
“See no evil” è la prima traccia da “Marquee Moon”, disco d’esordio dei Television di Tom Verlaine e pietra miliare del rock. E’ la più fedele all’originale. Poco male, in questo lotto è la nostra preferita.
Infine, non potevano mancare i Clash. La scelta a prima vista parrebbe inusuale, ma il brano “The sound of sinners” (dall’album triplo “Sandinista”, 1980) è – oltre che una satira irriverente sulla religione cattolica – anche, probabilmente, l’origine del nome dei “santi peccatori”. Cover di grande classe, tra il rockabilly e il vecchio west, impreziosita dai cori gospel di Carla Gatti, Beppe Cassi e Lorenzo “Puccio” De Benedetti. In coda, un omaggio alla blank generation.
L’interpretazione di Rita è impeccabile. La sua voce dura e allo stesso tempo suadente è accompagnata da un’ormai affiatata band composta da Tony Face Bacciocchi alla batteria e Massimo Vercesi alla chitarra; attualmente il gruppo è completato da Christian Josè Cobos (Cj HellectricBass) al basso.
Curiosissimi di ascoltare il seguito.

lunedì 4 novembre 2013

ARCADE FIRE, "Reflektor" (2013)

"Reflektor” non e' il disco dance degli Arcade Fire.
E’ vero, c'e molta elettronica, ci sono le basi, ma anche molto di più. Assurdo paragonare la band di Montreal ai Daft Punk, come hanno fatto alcuni. Più interessanti i parallelismi con album come “Station to station” (un Bowie all’apice del successo sterzò verso una dance wave spiazzando tutti) e “Achtung Baby” (la svolta berlinese degli U2 all’apice del successo).
Anche in “Reflektor”, quarto e doppio album della band più amata del circuito alternativo, c'e voglia di cambiare. C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi (ricordate “The Funeral”?), forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari – il mito di Orfeo, Camus – e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.

Apre il Disco 1 il singolo omonimo, con il quale la band indica la nuova strada che già “The suburbs”, tre anni fa, aveva anticipato con brani da revival anni ’80 come “Empty room” e “Sprawl II” e i barocchismi di “Rococo”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto.
La seconda traccia, “We exist”, pulsa su uno spettacolare groove. “Normal person” è un blues-rock di classe, mentre “Here comes the nighttime” è un quasi-reggae davvero irresistibile (e questa volta sì, il paragone regge: questo pezzo potrebbe togliere a “Get Lucky” il titolo di tormentone dell'anno) nei suoi continui cambi di ritmo. Questi tre brani rappresentano la soundtrack di un divertente video – autore: Roman Coppola – girato in un anonimo locale della provincia canadese (il Salsatheque) gestito da ispanici che adorano i Mumford & Sons e vorrebbero Bublè: con un cameo di Bono e di Ben Stiller. Come a dire, pronti a entrare nell'olimpo dei grandi. 
Oltre a questi, c’è il punk di “Joan of Arc” con un un gran giro di basso - il basso e' spesso in primo piano, in tutto l'album. “The bassline on Joan of Arc is fucking epic”, commentano gli stessi Arcade Fire - e il pop raffinato
Il Disco 2 è forse leggermente inferiore. Qui in primo piano ci sono le ballate elettroniche “Porno” e “Awful sound” (“I know you can see / Things that we can’t see / But when I say I love you / Your silence covers me / Oh, Eurydice, It’s an awful sound, e subito dopo When you fly away / Will you hit the ground? / It’s an awful sound”), l’electro-funk di “It’s never over” e la classica “Afterlife” (insieme a “You already know” il brano che segna la maggior continuità col passato). Chiude una psichedelica “Supercymmetry”, oltre undici minuti di suoni e riverberi.
Il disco dell’anno?

lunedì 28 ottobre 2013

QUANDO LOU REED SUONO' A PIACENZA (SEMBRA INCREDIBILE, MA E' VERO)

E’ un peccato doverlo dire adesso che Lou Reed ci ha purtroppo lasciati, ma la sua storica esibizione piacentina – avvenuta il 28 febbraio 2006 al Palabanca, davanti a quasi duemila persone - non era stata, per usare un eufemismo, una delle sue migliori performance. Il sessantaquattrenne artista newyorkese si era presentato con il consueto total black: giacca di pelle nera, tshirt nera, pantaloni di pelle, nera, anfibi, occhiali, neri. Era da subito parso in precarie condizioni psicofisiche, al solito taciturno, direi anche piuttosto scazzato: insomma non ne aveva molta voglia. Durante gli assoli di chitarra – lunghi, troppo lunghi, sembrava Neil Young in acido, anche se su quel terreno il canadese è imbattibile – a volte barcollava, gli capitava di inciampare nei cavi. Fissava il vuoto.
L’attesa al Palabanca era di quelle uniche e irripetibili.
Intanto: Lou Reed a Piacenza. Dici poco. Per una volta non ti sembrava di essere alla periferia dell’impero, ai margini di tutto quello che conta.
La setlist aveva - come sempre accede in queste occasioni - suscitato perplessità e delusioni, composta com’era da pezzi recenti, tratti da “Animal Serenade” (2004), “The Raven” (2003) ed “Ecstasy” (2000), oltre che da pezzi minori riarrangiati in versione noise, e da almeno due pezzi inediti. Era ovvio che non ci si poteva aspettare ne’ un greatist hits ne’ tantomeno un amarcord dei Velvet Underground, però le concessioni alla nostalgia furono davvero poche, pochissime: tra esse il bis con “Sweet Jane”, in piedi davanti al palco senza transenna, un grande classico che l’eroe maledetto del rock (oggi tutti i media titolano così…) probabilmente eseguiva solamente per riappropriarsene, dopo lo scippo (splendido) dei Cowboys Junkies. Quindi: niente “Transformer”, niente “Berlin”. Ma nemmeno nessun brano da grandi dischi come “Magic and loss” e “New York”. Altrettanto ovviamente, i fan duri e puri sui forum si fecero beffa di quei poveretti che si aspettavano “Perfect Day” o “Walk on the wild side”…
Ma l’atmosfera era stata comunque vibrante, la platea da subito si era svuotata (in teoria posti a sedere numerati) per andarsi a sedere per terra sotto il palco (e intanto quelli della tribuna erano scesi in platea). C'era stata anche la surreale entrata di un maestro di Tai Chi, il cui kata era stato accompagnato dalla musica.
E tornando a casa, avvolti nella nebbia che trasudava da una distesa di magazzini per la logistica e di piazzali di asfalto per le manovre degli articolati, tra trattorie a menu fisso e prostitute coi collant e la mini, ci era sembrato di aver vissuto - in ogni caso - una indimenticabile serata di rock’n roll.

mercoledì 23 ottobre 2013

PEARL JAM, "Lightning bolt" (2013)

Sembra ieri, che abbiamo iniziato, e invece questo “Lightning Bolt” è il terzo album dei Pearl Jam – su dieci in totale, in studio – che recensiamo in questa rubrica su PiacenzaSera. Avevamo cominciato un po’ in sordina, tanto per fare, e poi invece ci si divertiva ed eccoci qua.

E già due anni fa, parlando del live, avevamo commentato che non capivamo quelli che ogni volta storcevano il naso. Scrivevamo, davvero non li capiamo, quelli: i Pearl Jam sanno fare bene i Pearl Jam, cos’altro dovrebbero fare?
E anche questa volta fanno i Pearl Jam.
Ci sono i consueti pezzacci adrenalinici ed elementari, con in testa “Getaway”/“Mind your manners”, il primo singolo, che tuttavia non scaldano come un tempo, nel mezzo le ballate elettriche “Sirens” (scelta come secondo singolo) e “Shallowed whole”, buone per i live ma forse troppo telefonate, tipo Foo Fighters, oppure il blues rock vecchio stile di “Let the records play” e , in coda, l’acustica intimista di “Yellow moon” e “Future days”, un po’ ruffiane.
Tutto come da copione, a parte una copertina orrenda.
O forse no.
I brani più interessanti a un ascolto prolungato sono quelli più atipici: l’elettrica “My father’s son”, per via di quel ritornello in sospensione, una “Sleeping by myself” che - già parte delle “Ukulele songs”, qui riarrangiata in maniera impeccabile - sembra fare il verso a Weller e una “Pendulum” che viaggia in territori quasi lisergici, scritta a sei mani da Vedder, Jeff Ament e Stone Gossard.
Il solito disco onesto dei Pearl Jam.

La luce accecante di Siviglia


GOLDFRAPP, "Tales of us" (2013) e FUCK BUTTONS, "Slow focus" (2013)

Nativa del Middlesex – per i bibliofili, non è qui ambientato il romanzo di Jeffrey Eugenides, ma in Turchia, Canada e USA – Alison Goldfrapp è la splendida voce dell’omonimo duo, da sempre avvicinato dalla critica alla scena di Bristol a causa delle sue collaborazioni con Tricky e Portishead negli anni Novanta (oltre che per le evidenti affinità stilistiche).
Dopo un lungo silenzio, il duo inglese ritorna con “Tales of us”, che più che una collezione di brani musicali sembra essere una vera e propria raccolta di racconti. Le dieci tracce sono infatti dedicate ad altrettanti personaggi, così come avveniva nella pietra miliare dei Cocteau Twins, “Treasure”. 
Tra i ritratti più indimenticabili, i singoli “Drew” e “Annabel” (“When you dream you only dream your Annabel/All the secrets there inside you Annabel”), delicati e onirici, e la superba “Thea”, adorata e idolatrata da tutti, vera o falsa che sia. Poi troviamo una star hollywoodiana inseguita da un killer (“Laurel”), un soldato che ha perso l'amante (“Clay”).
Musica da camera, impreziosita dal violino dell’italiano Davide Rossi.
Bellissima.
A Bristol fanno stanza anche i Fuck Buttons, autori di straordinarie cavalcate elettroniche. 
I loro fottuti bottoni ci regalano epici strumentali tra la psichedelica e il krautrock, con echi dreamy e di danze tribali. Colonna sonora di un futuro alle porte.

domenica 13 ottobre 2013

SAMUELE BERSANI, "Nuvola numero nove"

E’ uno dei più bravi – il più bravo? - cantautori italiani, oggi, e questo lo abbiamo già detto.
Anche il pubblico sembra averlo capito: il suo “Nuvola numero nove” - dall’inglese “Cloud 9”, ovvero “Settimo Cielo” come il titolo di uno dei dieci pezzi - è stato per alcuni giorni al primo posto nella classifica dei download su iTunes.
Ciò nonostante, è comunque difficile, dopo più di venti anni di carriera (l’esordio, “C’hanno preso tutto”, è del 1992) e otto lp, riuscire a non deludere le aspettative.
Bersani ci riesce, e lo fa con un disco bello e leggero, dall’aria quasi scanzonata, anche ispirato alle dinamiche della sua sfera privata, ma non privo della solita lucida e spietata satira sul nostro paese, “stivale ridotto a pantofola”. Come in “DAMS”, dove ironizza sulla ribellione forzata di uno studente, oppure in “Chiamami Napoleone”, dove l’impietoso confronto tra l’attualità scontata e banale e il glorioso pasaato della cultura italiana (e non) ha come vittima i Modà: “Non c’è più niente qui da musicare, a parte un disco dei Modà”.
L’album è stato registrato nello studio utilizzato anche da Lucio Dalla, suo antico mentore a cui è stato dedicato. Rispetto al passato anche recente, i testi – sempre di alto, altissimo livello:  – appaiono meno complessi e cervellotici, più diretti, e il consueto uso/abuso delle metafore è più  limitato.
Interessanti gli arrangiamenti, più stratificati e meno pop, grazie anche ad alcune collaborazioni con artisti e band emergenti.
Tra i brani migliori, il singolo “En e Xanax”, ballata forse autobiografica sull’incontro con una ragazza anch’essa succube degli ansiolitici (“In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore/e su di me puoi contare per una rivoluzione”), la raffinata “Ultima chance” e le notevoli “Desiree” (“Desirée torna in sé dopo un sogno/svegliandosi tra gli scoiattoli di una città/su una panchina aspetta l’autobus /e si strofina le mani dal freddo che fa/è una mattina in cui le nuvole battono i taxi in velocità/e le altalene si credono libere di dondolare per propria volontà”) e “Il re muore” (“Rimango a farmi tenerezza/perché è cambiato il giorno/ma non tutto l’odio che vedo qui intorno/Ma quale ironia, servono soldi/muscoli e strada da fare per dimenticare”).