giovedì 16 aprile 2009


Good news dal Canada.
Un paese spesso dipinto come pigro e sonnolento, ma che in ambito rock da sempre ci regala grandi soddisfazioni: negli ultimi tempi Arcade Fire e Goodspeed You Black Emperor, oppure il recentissimo ottimo debutto dei Bruce Peninsula (e pensare che quei piccoli bastardi di South Park volevano dichiarargli guerra per colpa di Bryan Adams…)
A pochi giorni di distanza dall’uscita del nuovo album di Neil “Cavallo Pazzo” Young – recensito qui su PiacenzaSera da Tony Face – ecco anche il “Live in London” di Leonard Cohen, registrato durante la trionfale serata dello scorso 17 luglio all’Arena O2.
Si trattava del suo ritorno sulle scene, dopo un'assenza durata quindici anni, e incredibilmente ritroviamo un Cohen in splendida forma – cosa davvero sorprendente, dal momento che egli ha qualcosa come 74 anni.
Il grande cantautore canadese, elegantissimo nel suo doppiopetto gessato con cappello di feltro, non si risparmia affatto e dispensa al suo pubblico oltre due ore e mezzo di musica di classe sopraffina (al modico prezzo di Euro 19,99, quando si dice cosa si deve fare per risollevare il mercato discografico…)

Nel ripercorrere più di 40 anni di carriera, lo aiutano nell’impresa una band assai collaudata – spiccano Dino Soldo ai fiati/armonica e Javier Mas a banjo/mandolino – e uno strepitoso coro di voci femminili.
Come spesso accade, la scaletta non ci può soddisfare al 100%: a nostro giudizio mancano all’appello pezzi irrinunciabili quali, ad esempio, “Avalanche” (di cui è nota anche una cover di Nick Cave), “Chelsea Hotel No. 2” dedicata al suo fugace incontro amoroso con Janis Joplin nell’albergo più rock di New York City, “The Partisan”, “Seems So Long Ago, Nancy” (tra le tante del nostro tradotte in italiano da Fabrizio De Andrè, suo grande estimatore) e “Famous Blue Raincoat”.

Tuttavia, non mancano sia i classici come “Suzanne”, “Sister Of Mercy” ,“So Long, Marianne” e “Hey That’s No Way To Say Goodbye” (resa celebre dallo spot della BMW), dall’album di debutto del 1967, oppure “Bird On The Wire” e “Hallelujah” (memorabile la versione di Jeff Buckley e poi anche saccheggiata dallo X-Factor inglese), sia il meglio della produzione più recente: qui la parte del leone la fa l’album “I’m Your Man” (’88) dal quale vengono estrapolati ben 6 brani, tra i quali “First We Take Manhattan” (ricordo una notevole cover dei R.E.M.) e “Tower Of Song”.
Nessun brano invece dall’ultimo album di studio, non irresistibile, “Dear Heather” (2004).

In ogni caso, nella sequenza dei brani nulla è lasciato al caso: per il finale ecco “Closing Time” (è tempo di chiudere) e il bis – prima di salutare con un canto preso in prestito dal Vecchio Testamento – è “I Tried To Leave You”, un bellissimo standard blues durante il quale Cohen presenta al pubblico – uno alla volta - tutti i musicisti che lo accompagnano, proprio come si faceva una volta.
Gran signore, Cohen.

domenica 5 aprile 2009

QUASI COME KEROUAC, 07

(July, 25th - TERZA PARTE)

Alle cinque della sera - involontario (e ante litteram) omaggio al blog di Jr, una lettura immancabile - dopo aver attraversato il Dead Horse Ranch State Park (letteralmente "Parco Nazionale del Ranch del Cavallo Morto", qui con il naming vanno giù pesante...) raggiungiamo la 271, e di qui la Highway 17 che imbocchiamo in direzione Flagstaff.
La strada, ancora una volta, corre diritta fino all'orizzonte.

Improvvisamente, sulla carreggiata opposta alla nostra, si materializza un piccolo uccello dalle piume variopinte e dalla cresta in stile punk. Non ci sono dubbi: è un roadrunner. Avete capito bene, proprio quel fottuto animaletto che da sempre si prende gioco del nostro idolo Willy. Vorremmo vendicarci di lui, ovvero vendicare tutte le angherie che è costretto a subire il simpatico coyote, e dunque ci piacerebbe stendere sull'asfalto luccicante quel piccolo bastardo di un pennuto, che invece zampettando si allontana nella brughiera arsa al sole.
Se almeno avessimo con noi la valigetta dell'ACME...

Arriviamo al Montezuma Castle, in località Valle Verde, nel tardo pomeriggio.
Il suo nome deriva dal fatto che quando gli Spagnoli, che battevano la zona in cerca delle mitiche città d'oro, videro queste abitazioni rupestri - che le antiche popolazioni Sinagua costruirono nelle grotte naturali che si aprivano nella parete rocciosa, probabilmente per motivi legati al clima - furono tanto impressionati che pensarono si trattasse del castello che gli Aztechi avevano costruito per il loro imperatore durante la ritirata.
Di fatto Montezuma non arrivò mai tanto a nord, ma il nome piacque e rimase.
Dal sito http://www.usaontheroad.net apprendiamo inoltre che a Montezuma Castle si sviluppò un complesso di venti stanze che ospitò una comunità di circa trentacinque persone per oltre tre secoli.
Intorno al 1400 la popolazione improvvisamente scomparve, e il motivo rimane ancor oggi un mistero.

E poi siamo di nuovo in viaggio.
Lasciamo la Highway 17 per la strada locale 179, che porta anch'essa a Flagstaff.
Good Idea.
Sedona è un piccolo centro turistico immerso in uno straordinario scenario di catene rocciose, molto simili alle nostre Dolomiti.
Al tramonto, la vecchia Camry si snoda leggera tra le rocce che si tingono di rosso vermiglio. Non a caso questo posto lo chiamano Red Rock Country.
E' uno spettacolo da lasciare senza fiato.
Avvistiamo un lupo spelacchiato ai bordi della strada. Per un istante, i nostri sguardi si incrociano attraverso il parabrezza ricoperto di polvere rossa. Sembra impaurito, e si dilegua tra i cespugli di ginestra.
Quando il sole è ormai basso all'orizzonte, la strada inizia a scendere e si insinua nel lussureggiante Oak Creek Canyon, dove un'improvvisa vena d'acqua garantisce la sopravvivenza di alcuni chilometri di boschi di querce.
Adesso che è sceso il buio, possiamo solo godere del fruscìo del vento che sferza le chiome maestose degli alberi e anche del rumore allegro del ruscello che scorre qualche metro sotto di noi, alla nostra destra.
Inseriamo nel lettore un vecchio disco di Muddy Waters: vedi il caso, il suo nome d'arte ("acque fangose") deriva da un soprannome datogli dalla nonna per via della sua abitudine di sguazzare nel fango in riva al Mississippi.
Il suo blues scarno e persino sporco ci accompagna lungo l'ultimo tratto di strada, stasera.
E io ho la pelle d'oca.

A Flagstaff divoriamo alcuni tranci di pizza di Little Caesar seduti su un marciapiede di una via deserta. Io provo quello con salame a ananas, un classico da queste parti: è la mia componente masochista che ogni tanto esce allo scoperto.
Tira una piacevole brezza notturna, per cui ci fermiamo fino a tardi, sempre lì seduti sulle fredde lastre di pietra, discutendo di politica e di religione.
Infine alloggiamo nel solito, triste e squallido, motel.
Le docce non funzionano, i fiotti di acqua gelida scendono a singhiozzo, e neppure le porte si aprono, per entrare nella nostra stanza dobbiamo fare leva con tutto il nostro peso e rischiamo di sfondare tutto.
Ma la stanchezza è tanta, per cui non c'è da andare troppo per il sottile.
E poi noi siamo gente che si arrangia, cazzo.

lunedì 30 marzo 2009


Invaders Must Die, il nuovo album dei Prodigy, ha debuttato all’inizio di marzo direttamente in cima alla classifica U.K. con quasi 100.000 copie vendute nella prima settimana, e conta di collaborazioni importanti, prima tra tutte quella dell’ex-batterista dei Nirvana Dave Grohl.
Il ritorno degli alfieri della scena acid house londinese – cinque anni dopo lo scialbo Always Outnumbered Never Outgunned - fa discutere alquanto sul web, alla stregua di ciò che successe poche settimane fa con No Line On The Horizon degli U2.

Non mancano gli entusiasti, con le loro coloritissime espressioni alla Irvine Welsh:
“Quest’album spacca i culi!”
“Il prodigio è tornato per rompervi i timpani e farvi muovere quei fottuti culi”
“Questo ultimo lavoro è secondo solo al primo disco. I suoni sono nuovi di pacca e in più hanno una presa sul pubblico devastante!”
“Già dall'inizio mettono in fila sei brani da infarto, ma tutti i pezzi sono delle bombe al tritolo con la linea di bassi potenti e profondi. Verso il finale si inizia ad avvertire un pò di ripetitività, ma il disco è compattissimo e gli ex re dei rave sono tornati alla grande!”
“E’ un disco duro, incazzato, intransigente. E apocalittico. L’album è un blocco granitico, un implacabile schiacciasassi con minime variazioni sul tema”

Ma nemmeno le stroncature, altrettanto divertenti:
“Una scossa sismica? a me sembra più il fruscio del contante che esce dal Bancomat”
“Una blanda, molto blanda imitazione di The Fat Of The Land (il capolavoro del trio, ndr), suona stanco, di già sentito, senza palle, roba vecchia, noia...”
“I Prodigy sono proprio finiti. Nessun guizzo, pezzi anonimi, chiassosi e caciaroni. Dave Grohl qui dentro è una macchietta senza nessun valore”
“Il disco è un accozzaglia di demenza”

E c’è anche chi, perplesso, non sa che pesci pigliare:
“Sinceramente non mi è sembrato nulla d'eccezionale”
“Comincia a sentirsi un pò di vecchiume”
“I Prodigy non impressionano più, ma graffiano ancora”

Noi di PiacenzaSera questa volta non ci schieriamo.
Invaders Must Die è, infatti, una sequenza tiratissima di dieci tracce di buona dance elettronica, dense di beat trascinanti e accelerazioni groove, e soprattutto di bassi ultra-potenti, una manna dal cielo per chi non vede l’ora di sballare nel clubbing più duro.
Tuttavia, trattasi spesso di suoni già sentiti, in particolare nella seconda metà del disco, dove prevale una monotona stanchezza.
Insomma, nulla di nuovo sotto il sole.
In definitiva, l’album sembra possa considerarsi un’abile operazione di ripescaggio di quel sound che ha reso celebre la band negli anni Novanta.

Ma forse è meglio non andare troppo per il sottile.
A chiudere il disco ci pensa Stand up, citazione di Come together dei Primal Scream:
“In piedi adesso! E’ l’ora di ballare!”

domenica 29 marzo 2009

mercoledì 25 marzo 2009

L'apocalisse è alle porte


I primi segnali, adesso che ci penso, avevano fatto la loro comparsa nello scorso fine settimana.
Prima un fagiano spiaccicato sull'asfalto, nei pressi del Parco della Galleana. Le sue belle piume variopinte, nonostante tutto, brillavano attraverso il parabrezza.
Poi un cane che mi attraversa la strada all'improvviso.
Segnali inequivocabili, ai quali tuttavia non ho dato il giusto peso.
Che peso vuoi dare a un cane che ti attraversa improvvisamente la strada?

Ora invece ho capito tutto: gli animali si stanno preparando a un suicidio collettivo.
Non si spiegherebbe altrimenti.

Evidentemente, loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.

Ieri sera, sulla strada del ritorno a casa, ne ho finalmente la certezza.
Sul lungo rettilineo di Croara, mentre procedo a velocità tutto sommato moderata, proprio nel mezzo della carreggiata mi ritrovo un riccio.
E' immobile.
Si appallottola su se' stesso ed estrae i suoi aculei appuntiti.
Cazzo vuoi fare, con quei tuoi patetici aculei, a un treno di Michelin 215/75 R15-100in piena corsa?
Eppure l'idiota mette fuori il muso e rimane lì a fissarmi - con aria di sfida, posso leggergli negli occhi tutto il suo odio nei miei confronti, odio maturato da tutti i disastri dei quali si è resa responsabile la razza umana - mentre lo sfilo di pochi centimetri con la mia ruota anteriore sinistra.
Nello stesso istante, mi sorpassa una Mini Cooper - un esemplare del modello nuovo, quello che sembra la vecchia Mini reduce da una cura massiccia di steroidi e anabolizzanti che neanche Del Piero - e al momento non so dirvi se anch'essa riesce a evitarlo con la sua anteriore destra: se così è andata, quel fottuto riccio si è ritrovato proprio in mezzo alle due auto in corsa.
Roba da infarto.

Ma non finisce qui.
Nei pressi della chiesa di Statto, due gatti dal pelo rossiccio e raffazzonato mi osservano da lontano, ma non si spostano dalla mia corsia, così mi vedo costretto a scartare di alto e invadere la corsia opposta.
Fortuna che a quest'ora non c'è in giro un cazzo di nessuno.
E poi ci si mettono anche gli uccelli, Cristo santo.
A pochi metri dal bivio di Fiorano, dopo la mezza curva a gomito che precede l'ingresso al ponte di mattoni, scorgo un passerotto sull'asfalto reso lucido dalla luce al neon dei lampioni al margine della strada.
Cazzo ci fa, lì, lo sa solo il Signore.
Probabilmente è ferito, è ferito a un'ala e non riesce più a volare.
Arresto la marcia e tamburello nervosamente le dita grassocce sul volante, mentre aspetto che il piccoletto si allontani, con quei suoi timidi passettini, quel tanto da potermi consentire di procedere verso casa.
Fai pure con comodo, cazzo, non ho mica fretta.

Forse è vero, loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.

La cosa peggiore sono gli animali. A un certo punto, a luglio, sono scappati tutti, nessuno escluso. Uno non ci fa nemmeno caso, fino a quando non scompaiono. A un certo punto, il silenzio. Non ci sono uccelli che cantano. Non ci sono scoiattoli che fanno acrobazie sui rami o che scorrazzano per la soffitta. Perfino i grilli: scomparsi. Cani, gatti, criceti: spariti. Il gatto di mia madre, Pois, se n'è andato chissà dove molto tempo fa. Lei ha pianto per giorni interi. Gli animali che non potevano andarsene sono molti nelle gabbie. Il mio pesce rosso, a pancia in su nella vaschetta. Sono tutti morti, gli animali scomparsi? O se ne sono andati tutti in un altro posto, con un esodo di massa nel cuore della notte? Un gregge, un branco, una mandria, un'orda. In fila per due lungo la strada? Verso qualche posto sicuro? Non lo sapremo mai.
- Sono i topi che abbandonano la nave che affonda, - dice mio padre. - Loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.


"I giorni del cane"
Judy Budnitz

martedì 24 marzo 2009

sabato 21 marzo 2009


La prima idea per la recensione di questa settimana per PiacenzaSera è stata quella della nuova, terza fatica dei Telefon Tel Aviv, non foss'altro per rendere omaggio alla prematura scomparsa di Charles Cooper, uno dei due componenti del combo americano.
Ma l'ascolto di "Immolate Yourself "(2009) - il titolo è tutto un programma - si è rivelato nei fatti piuttosto deludente.
Eppure si parte con la marcia giusta, con l'incedere incombente di The Birds che si conclude in un crescendo turbinoso di suoni ed emozioni, e arriva altrettanto bene, con gradevoli pezzi di pop elettronico (You're the worst thing in the world e la title-track). In mezzo, tuttavia, pochi spunti degni di questo nome: un suono freddo e algido ma, in definitiva, tanta noia. A tratti, i T.T.A. appaiono persino una fotocopia sbiadita dei Nine Inch Nails, ma dei Nine Inch Nails senza palle, un pò come una pinta di birra analcolica...

Così ho deciso di ripiegare sul terzo dei Mountains, "Choral" (2009), il migliore della serie per la stampa specializzata, addirittura Disco del mese per Onda Rock.
Si tratta anche in questo caso di un duo, questa volta proveniente da Chicago, Illinois: Brendon Anderegg e Koen Holtkamp sono amici sin dai tempi della middle school.
La loro è poesia sonora di impianto ambient e minimalista, strettamente imparentata con la discreet music di Brian Eno. In questi anni, i critici si sono sbizzarriti alla ricerca di un genere entro cui catalogarli: drones, elettroacustica pastorale, field recording, soundscape, chi più ne ha più ne metta.
L'album è suddiviso in sei composizioni strumentali, di grande suggestione.
Choral è un'ouverture assai ostica, un'unica lunga nota che si dilata per quasi dieci minuti. Map Table è invece un delicato acquerello per chitarra acustica alla John Fahey. Anche la terza traccia - Telescope, a nostro giudizio l'apice compositivo della raccolta - parte acustica ma presto viene sommersa da un muro ipnotico di suoni immagnifici, ossessionatamente intensi e ripetitivi fino alle estreme conseguenze, fino al collasso nervoso.
Add Infinity ci regala uno straordinario momento di serenità e di armonia, ma subito irrompe Melodica, dove - a dispetto del nome - non vi è traccia alcuna di melodia: qui sono strumenti tradizionali come campanelle, fisarmoniche e cornamuse a giocare un ruolo di primo piano, e improvvisamente tornano alla mente le atmosfere cosmiche del krautrock di Popul Vuh, Amon Duul e Cluster.
Il disco si chiude con un piccolo gioiello, ancora acusitico. Sheets Two, quasi un invito finale alla meditazione, nella vana ricerca di una pace interiore.

mercoledì 18 marzo 2009

Bar Sport


Piu' o meno nello stesso momento in cui a Manchester l'arrogante Mou stava (forse) per sganciare un tifoso dei Red Devils, all'Olimpico è andata in onda l'altra sera una scena che restituire dignità e magia al tormentato mondo pallonaro.
Al termine di una gara quasi epica, centoventi minuti di sofferenza, il pubblico dell'Olimpico è tutto in piedi ad applaudire la sua squadra ridotta in pezzi al centro del campo. Quasi tutti hanno i crampi. Qualcuno non riesce più a muoversi.
Lentamente, i giallorossi si dirigono verso il bordo del campo per salutare i propri tifosi, per una volta fantastici.
Il capitano si copre il volto con la maglia: piange.
Perdonatemi un pò di retorica, non ho mai fatto mistero della mia simpatia nei confronti del capitano: non sarà un fuoriclasse, sarà un burino rozzo e ignorante, ma a me sta simpatico, mi sembra sincero.
Si toglie la maglia e la lancia verso la curva. Adesso è a torso nudo e allora si copre le lacrime con il giubbotto che gli porge un addetto della società.
A questo punto io resto davanti alla tv quasi incantato, forse persino emozionato: che importa aver vinto o perso, se il calcio degli scandali e delle veline riesce ancora ad emozionarti?
(Non ho pianto, no, quello no, quello mi succede solo al cinema: mi è successo di recente quando il wrestler fallito e buono impersonato da un grande Rourke cerca di ristabilire un contatto con la figlia abbandonata da bambina.)

E' bello che il pallone sappia ancora regalare sogni ed emozioni.
Come quando eravamo bambini.
Mi ricordo le mie prime partite alla Galleana. Alla domenica andavamo a mangiare sempre dagli zii, sul Facsal, e poi dopo pranzo io e mio fratello ci incamminavamo con lo zio Enzo verso lo stadio.
Erano i tempi di Skoglund e Mendoza, era un Piacenza scadente e pasticcione.
Lo stadio era ancora come una volta, la tribuna era la tribuna e la gradinata era la gradinata, cazzo, quel catafalco metallico non era ancora planato dal cielo come un oggetto non identificato. Noi si andava sempre in gradinata: e quando pioveva aprivamo l'ombrello, altro che storie.
E poi le tante domeniche pomeriggio passate al campetto dell'oratorio con la radiolina in mano. A quei tempi davano "Tutto il calcio minuto per minuto". Tutti stretti a capannello attorno a quello che aveva la radio, in religioso silenzio, ad ascoltare la voce rauca di Ciotti: scusa Ameri, intervengo da San Siro...
Cazzo, mi ricordo quando il Telamone scagliò per terra la sua radio dopo - mi sembra di ricordare così - un gol del Verona a Torino (era il Verona scudettato di Bagnoli dalla Boviusa, quello con Briegel ed Elkjer, e Garella in porta): i transistor andarono in mille pezzi, e fummo costretti ad andare al bar per sentire il resto delle gare.
(Il Telamone era uno degli strani personaggi - prima o poi dovrò decidermi a raccontarne qui sul blog - che gravitavano nella nostra zona, quella dei giardini della stazione. Fece una brutta fine, quel poveretto: overdose d'eroina, se non ricordo male.)

Al Bar Sport ci si andava a vedere Novantesimo Minuto.
Era una sorta di rito collettivo. Non si poteva mancare.
Ognuno aveva la sua postazione preassegnata. Guai a noi ragazzini se rubavamo una sedia in buona posizione sotto lo schermo, a noi toccava guardare tutta la trasmissione in piedi, in seconda o terza fila.
Il grande cerimoniere era il Pera, un energumeno alto due metri con una profonda cicatrice sulla guancia e un sorriso da bambino. Portava sempre gli zoccoli da infermiere, anche in inverno.
Ci faceva cantare in coro la sigla d'apertura. Dirigeva il pubblico eterogeneo del bar, gesticolando come un direttore d'orchestra in preda a una crisi epilettica:

PARAPPAPPAPPAP-PAP-PA'!

Poi lui stesso copriva la voce di Paolo Valenti:
AMICI SPORTIVI, BUONASERA!
E noi giù tutti a ridere.
Tutte le domeniche ripeteva imperterrito la stessa scena, ma, come per magia, a noi faceva sempre ridere.
E intanto la suspence cresceva: inutile dire che allora era l'unico modo per vedere i gol.
Partivano uno dopo l'altro, senza inutili interruzioni o commenti di patetici opinionisti, i ridicoli servizi degli inviati sfigati: Tonino Carino da Ascoli, Franco Strippoli da Bari, con quel suo agghiacciante riportino, Giorgio Bubba da Genova, Marcello Giannini da Firenze, Rolando Nutini da Pisa. Non azzeccavano un congiuntivo, e poi quell'inflessione dialettale...
E il Pera giù con gli insulti. In questo, va detto, ha anticipato di diversi anni persina la Gialappa's...
E volavano anche le saracche. Di vario tipo, anche assai variopinte: emergevano dalle risate e dalle urla, finchè uno dei fratelli che gestivano il bar, due scapoloni che leccavano la paletta dei gelati quando dovevano passare dal cioccolato alla vaniglia, non si incazzavano di brutto e minaccivano di buttarci fuori. (Gran posto, il Bar Sport: non c'era la mitica Luisona di Stefano Benni (radiocittafujiko.it/home/node/5553), ma mancava poco...)

Adesso - lo so, è scontato ripeterlo, ma è così - c'è decisamente meno poesia.
Tuttavia ancora i bambini sanno emozionarsi, col pallone.
Proprio l'altra sera il Danda mi ha raccontato che suo figlio, nascosto nella sua cameretta, ha avuto una mezza crisi isterica quando ha trovato la figurina di Marco Di Vaio: è il capocannoniere del campionato, mica cazzi.
Quasi tutte le sere si guarda un pezzo di partita, qualsiasi cosa passi su Sky, anche campionati esteri: dopo il primo tempo è costretto ad andare a letto, perchè il giorno dopo si deve alzare presto per andare a scuola.
Allora chiede a suo padre di lasciargli un foglietto sul tavolo della colazione, con su scritto risultato finale e marcatori.
Un mito.

sabato 14 marzo 2009


Strani personaggi, quelli del Collettivo.
Che non sono del tutto a posto lo si capisce già dai nomi d’arte che hanno scelto: Avey Tare, Panda Bear, Deakin e Geologist.
David Portner, Noah Lennox, Josh Dibb e Brian Weitz costituiscono infatti l’ossatura di questo bizzarro ensemble, ossatura attorno alla quale ruotano via via numerosi altri musicisti, tanto che la lineup può persino variare da un brano all’altro.
I quattro si sono conosciuti in un college di Baltimora (Maryland), ma la loro carriera artistica è legata in modo indissolubile alla scena alternativa-sperimentale di New York.
Per la copertina del loro nuovo album, Merriweather Post Pavillion, essi hanno utilizzato un’ illusione ottica dall’effetto quasi ipnotico - opera dello psicologo giapponese Akiyoshi Kitaoka - in grado di cogliere l’atmosfera lisergica e onirica della loro musica.
Il folk bucolico e un po’ freak degli esordi (qualcuno lo etichettò come pre-war folk) lascia quì spazio a nuovi scenari elettronici, tutt’altro che convenzionali, che si esplicitano in un autentico magma sonoro, ovvero un flusso continuo e ininterrotto di melodie acide e trip stranianti, la cui base ritmica è spesso costituita da rumorismi primitivi e da tappeti di percussioni tribali.
Per la critica, il pop psichedelico e surreale degli Animal Collective – proprio in questi giorni in Italia per un tour di sole tre date - trova le sue radici nel Magical Mistery Tour dei Beatles (ascoltate Also Frightened, ad esempio) e nel noisy rock di My Bloody Valentine e Jesus and Mary Chain (Guys Eyes e Lion In A Coma), oltre a essere debitore dei Beach Boys di Pet Sounds per i cori e le intricate sovrapposizioni canore (la bellissima Daily Routine).
A nostro giudizio, però, il riferimento più azzeccato è quello dei Mercury Rev di See You On The Other Side e Deserter’s Song (l’iniziale In The Flowers, soprattutto, e la liquida No More Runnin).
Il 2009 si era aperto nel segno dell’inquetudine esistenziale di Antony, The Crying Light è l’album della sua consacrazione definitiva.
Questa gemma splendente è, probabilmente, il secondo capolavoro di questo scorcio di nuovo anno.

(Grazie a Hernan Crespo per la segnalazione)

domenica 8 marzo 2009

QUASI COME KEROUAC, 06

(1994, July 25th - SECONDA PARTE)

La visita di Taliesin West si è appena conclusa sotto un sole che spacca le pietre. Mi appresto a scendere per un sentiero polveroso, verso il sobborgo di Scottsdale: è lì che ho un appuntamento con Big e Paulette. Puntuale, la Toyota Camry mi carica nei pressi della fermata del bus.
Mi lascio cadere esausto sul sedile posteriore.
Non ho nemmeno la forza di parlare. Poco male, sarà una giornata lunga e avrò tutto il tempo per raccontare.
(Non è ancora mezzogiorno.)

Abbandoniamo Phoenix e imbocchiamo la Highway 17 in direzione nord, per Flagstaff.
Dopo poche centinaia di metri, decidiamo di lasciare l'autostrada e di optare per un itinerario alternativo con la Statale 89 in direzione nord-ovest. Consultando la mappa, Paulette si è accorto che così facendo attraverseremmo la Prescott National Forest e di lì raggiungeremmo la ghost-town ottocentesca di Jerome.
Ma la segnaletica è inesistente, cazzo, e presto ci ritroviamo sperduti su una strada che attraversa il deserto. La percorriamo per almeno trenta miglia e raggiungiamo Paolo Verde, sobborgo a sud di Phoenix: esattamente nella direzione opposta a quella che andiamo cercando.
Merda.

Dove cazzo siamo?, chiede Big.
Non lo so. Non si capisce un cazzo su questa mappa di merda, faccio io.
Porco ***, fa Big.

(Questo dialogo - uno dei nostri più tipici dialoghi, va detto - viene riportato al fine di caratterizzare e tratteggiare meglio i personaggi del racconto. E' un passaggio inevitabile, direi la lesson one di una qualsiasi scuola di scrittura, che sia o meno creativa.)

Dopo un paio di inutili e goffi tentativi di ritrovare la via maestra, riusciamo infine a riprendere la marcia verso Flagstaff.
Un paio di hamburger in uno squallido fastfood con una sgualcita tappezzeria color crema è tutto quello che troviamo da mettere sotto i denti.
Siamo a Wickenurg, Peeples Walley. Una località dimenticata dal Signore e da tutti gli uomini di buon senso.
La temperatura non accenna a diminuire: il termometro della Camry indica 40,5°. Soffia, insopportabile, un'aria calda e secca.
Scesi dall'auto, dobbiamo fare presto se non vogliamo che le suole delle scarpe si sciolgano sull'asfalto bollente.

La frescura dei boschi di abeti e cedri della Prescott National Forest è come un manna dal cielo.
Ora viaggiamo all'ombra delle conifere secolari, con i finestrini finalmente abbassati, di aria condizionata non ne potevamo proprio più.

Poco oltre, Prescott è l'America profonda, se questa espressione può avere un senso.
Prescott è anche il fallimento dell'urbanistica, anzi, l'assenza totale di qualsivoglia proposta di pianificazione urbana. Ci muoviamo perplessi, come in un videogame, in un'enorme e orrendo marasma di seconde case, motel con davanti immensi parcheggi, drugstore, insegne pubblicitarie, officine meccaniche, case mobili abbandonate in spiazzi improvvisati di terra polverosa.
Ci lasciamo questo triste spettacolo alle spalle senza rimpianti, e raggiungiamo in breve tempo Jerome, la città fantasma. Non è difficile intuire, purtroppo, che essa non è che la ricostruzione, chissà quanto mai fedele, di un tipico villaggio dell'epoca della mitica corsa all'oro.
Una sorta di Grazzano Visconti del West, insomma.
Passeggiamo un pò svogliati nella Main Street, sulla quale si affacciano tutti gli edifici, interamente costruiti in legno. Ci sono il saloon, l'ufficio dello sceriffo con le celle della gattabuia, persino una segheria ancora in funzione, dove un vecchio con una camicia scozzese e una folta barba rossiccia finge di lavorare alla pialla meccanica. Tutto intorno, altre comparse recitano distrattamente il loro copione.
E noi recitiamo il ruolo dei turisti ingenui e creduloni, cazzo ci costa.
La location è comunque interessante per un paio di scatti - il vecchio falegname con la barba, un gruppo di pavoni dalla coda coloratissima, i vecchi furgoncini abbandonati ai margini del deserto - con la Yashika, scatti che vanno centellinati con parsimonia e che non si possono sprecare alla cazzo. In questi tempi, si lavora ancora con le diapositive: nessuna nostaglia, spesso litigavo coi caricatori che immancabilmente si incastravano nel proiettore, che poi le mettevo dentro sempre sottosopra, con le persone a testa in giù, cazzo, per non parlare di quando mi cadevano per terra e si infilavano dappertutto, sotto il letto, il tavolo, ecc... Siamo molto prima dell'avvento della tecnologia digitale, infatti. Dunque, è necessario soppesare bene emozioni e valutare con precisione la qualità della ripresa, prima di pigiare il tasto che apre il diaframma.
Le cose si complicano ancor più se si pensa che la vecchia reflex Yashika è una comproprietà secca, come segue:
* Country Joe, comproprietario per la quota di 1/2;
* Paulette, comproprietario per la quota di 1/2.

sabato 7 marzo 2009


All’alba dei cinquant’anni (li compirà il prossimo 22 maggio), Steven Patrick Morrissey sembra non sentire il peso degli anni e continua imperterrito a proporre ai suoi numerosi estimatori musica di ottimo livello.
Oggi Moz è un uomo maturo, tutt’altro che bolso, che non rinnega nulla di ciò che ha fatto in passato e che guarda avanti con ottimismo (“Why change now?/"It hasn't!"/Now this might surprise you, but/I find I'm OK by myself.”), anche se qua e là riaffiorano i tormenti esistenziali e le incomprensioni amorose (“In the absence of your love/And in the absence of human touch/I have decided/I'm throwing my arms around, around Paris/Because only stone and steel accept my love”) che furono alla base dei fasti dell’epopea Smiths.
Al primo impatto, “Years Of Refusal” – nono album della sua carriera solista - colpisce l’ascoltatore per la sua produzione compatta e monocorde, decisamente rock, merito (o colpa?) del compianto Jerry Finn (Green Day, Bad Religion), scomparso a soli 38 anni a causa di un’emorragia cerebrale dopo aver terminato proprio questo lavoro.
Un ruvido wall of sound di chitarre elettriche copre in alcuni casi – è il caso del singolo “All You Need Is Me”, oppure della tiratissima “I’m Ok By Myself” in chiusura - la voce calda e suadente da crooner del nostro, e questo suscita perplessità.
Alla lunga, però, l’album finisce per farsi apprezzare per la sua energia e per la sua inconsueta freschezza.
L’inizio è addirittura arrembante, con le ottime “Something Is Squeezing My Skull” e “Mama Lay Softly On The Riverbed”, ma c’è spazio anche per superbe e malincoliche ballads come “I’m Throwing My Arms Around Paris” (con la delicata tromba di Mark Isham) e "You Were Good In Your Time", oltre addirittura per un paio di arrangiamenti in sapore Tex-Mex: “When I Last Spoke To Carol” e “One Day Goodbye Will Be Farewell”.
Insomma, Morrissey è ancora capace di scrivere grandi pezzi pop.
La meravigliosa “That’s How People Grow Up” – l’altro singolo, uscito come il primo già lo scorso anno – non avrebbe certo sfigurato in capolavori come “The Queen Is Dead” e “The World Won’t Listen”.
Alla faccia di tutti coloro che pensavano che il merito fosse tutto di Johnny Marr.

martedì 3 marzo 2009

La montagna e il topolino


Acquistai la mia copia di War nel lontano 1983, dopo aver letto una bella recensione su Steroplay, una rivista di alta fedeltà che mio fratello era solito acquistare; nello stesso periodo fumava la pipa, ascoltava canti gregoriani e aveva una folta barba tipo Cutolo.
Molto prima di Pride, di Dj Television e del successo planetario.
Se Larry Sock giustamente rivendica di aver scoperto Landsdale in tempi non sospetti, Country Joe può fare altrettanto con la band di Dublino, senza timore di smentite.
Ricordo ancora le facce degli amici quando misi il vinile sul piatto dello stereo dell'oratorio, che il Ludo ci aveva acquistato in un impeto di generosità che merita, a distanza di anni, la nostra riconoscenza. Che disco eccezionale. Che potenza, e che freschezza. All'epoca impazzava l'elettronica, Depeche Mode, Human League, cose così.
Ho amato gli U2. All'esame di maturità scelsi il tema su Leopardi, e riuscìi a costruire un confronto tra il pessimismo cosmico e le liriche di Bono e compagni. Come feci, lo sa il Signore. Fatto sta che presi 9. Ha ragione la Gelmini, cazzo, è tutto da rifare.

Penso dunque di avere le carte in regola per dire la mia sul nuovo, attesissimo, album, che al primo ascolto non mi aveva affatto impressionato.
Le troppe dichiarazioni altisonanti ("il migliore album degli U2", secondo Bono: esilarante) e i proclami enfatici prima dell'uscita del disco probabilmente non gli hanno giovato: sembra proprio la storia della montagna che partorisce il topolino...
Dopo aver scambiato qualche opinione con Big e DJ Looka, che la pensano diversamente, ho deciso di mandarlo in loop continuo durante il mio recente viaggio verso le Dolomiti.
Queste le mie impressioni aggiornate: che parta la discussione, fratelli!

NO LINE ON THE HORIZON: 8
"I know a girl...", non era lo stesso incipit di Party girl?
Non è certo Where the streets have no name, ma la title-track è forte di un notevole intreccio sonoro, un titolo suggestivo e un Bono in gran forma. Un voto in meno per l'eccesso di cori e coretti - tipo ouououou, ecc... - ovvero un'erba gramigna che infesta tutto il disco.

MAGNIFICENT: 8
Gran pezzo alla U2, a parte quello strano intro col sinth.
Mica bisogna vergognarsi, di fare pezzi alla U2...
Sembra che sarà scelto come secondo singolo: andrà alla grande.

MOMENT OF SURRENDER: 4
Inutilmente lungo - sfiora i dieci minuti, arrivare alla fine è davvero un'impresa - questo gospel stanco, monotono e monocorde manca del pathos e dell'emotività vibrante dei tempi di I still haven't found....

UNKNOWN CALLER: 9
Qui si sente la lunga militanza di Eno nei Talking Heads. Probabilmente, è la mia preferita. Grande The Edge, nel finale.

I'LL GO CRAZY...: 3
Assolutamente imbarazzante la povertà creativa e la mancanza di originalità di questo brano. Anche il testo è di quelli da dimenticare.

GET ON YOUR BOOTS: 5
Stroncatissimo dalla critica, sulle prime non avevo trovato il singolo così male, o almeno mi sembrava meglio di Vertigo. I ripetuti ascolti mi hanno fatto cambiare idea, e di buono rimane solo quell'atmosfera psichedelica del "Let me in the sun" ripetuto verso la fine.

STAND UP COMEDY: 6
Qualcuno ha scomodato addirittura i Led Zeppelin (!). Il possente riff funkeggiante su cui poggia tutto il pezzo è accattivante, ma è qualcosa di già sentito: Gang of Four?

FEZ-BEING BORN: 7
Doveva essere la traccia più sperimentale. Non lo è poi così tanto, a dire il vero, ma funziona bene.

WHITE AS SNOW: 6
Questa ballad lenta scorre via in modo piacevole ma, ammettiamolo, è piuttosto anonima, e non fa che accrescere la nostalgia per i tempi di Running to stand still ed Exit.

BREATHE: 5
L'incipit quasi heavy promette assai, ma con il passare del tempo il brano - robusto rock di maniera - si incarta e non riesce più a decollare.

CEDARS OF LEBANON: 7
Il parlato alla Lou Reed è suggestivo. Chiude bene l'album, niente da dire.

sabato 28 febbraio 2009


Sono da sempre un convinto sostenitore delle cover.
Qualcuno le snobba e le considera materiale di serie B, mentre a a mio giudizio in qualche caso possono aggiungere valore artistico all’originale, se non addirittura superarlo e diventare esse stesse un classico: si pensi, ad esempio, alla All allong the watchtower di Hendrix, alla Gloria di Patti Smith, alla Sweet Jane dei Cowboy Junkies e alla Hallelujah di Jeff Buckley.
La recente uscita di “Heroes”, terzo album di cover realizzato dalla fondazione War Child, attiva nella beneficenza e in campagne per i bambini vittime della guerra, è una ghiotta occasione per ascoltare una quindicina di artisti della nuova generazione reinterpretare i brani dei loro maestri.
Con risultati altalenanti.
Tra gli esperimenti più riusciti, gli Elbow che se la cavano egregiamente con l’immensa Running to stand still (leggi: quando gli U2 erano veramente grandi), gli Hot Chip che rileggono Transmission in chiave elettro-dance (e sembrano i Kraftwerk), gli Scissor Sisters che si divertono con il glam-rock britannico seventies di Do The Strand dei Roxy Music, Rufus Wainwright alle prese con un pezzo dall’ormai mitico album fantasma dei Beach Boys e lo strano binomio Lily Allen-Mick Jones (ex-Clash) per una versione languida e rilassata di Straight to hell.
Oneste, e poco piu’, le interpretazioni di Beck, che opta in apertura un blues superclassico del Dylan di “Blonde on Blonde”, degli Hold Steady (Atlantic City, da “Nebraska”), degli Yeah Yeah Yeah (con la scelta naturale dei Ramones) e dei Franz Ferdinand che si misurano dal vivo con i Blondie.
Tra i più deboli, una fiacca Victoria da parte dei Kooks (ma qui dovevano misurarsi non solo con il brano dei Kinks ma anche con la notevole versione dei Fall di Mark E. Smith), una Heroes maltrattata in chiave metal dai solitamente ottimi Tv on the Radio, oltre a una versione di Search and Destroys ad opera di Peaches, per la quale Iggy Pop potrebbe chiedere persino i danni…

QUASI COME KEROUAC, 05

(1994, July 25th - PRIMA PARTE)

Non è ancora l'alba, e a Phoenix c'è un caldo da vomitare.
Alle sei e mezza siamo già in marcia. Ai margini della città, un reticolo ortogonale senza fine di strade larghe e insignificanti, piccole case in legno colorato disseminate quà e là, in modo del tutto casuale. Vecchi pick-up arrugginiscono al sole.
Attraversiamo un parco botanico - qui si possono trovare tutte e 30 le speci di cactus esistenti al mondo - ma non è esattamente un parco, come noi lo intendiamo. E' una distesa infinita di sabbia, e poi di sabbia.
Siamo diretti verso Scottsdale, sobborgo alla moda caratteristico per le sue eleganti case vittoriane.
Le vetrofanie dei pub e delle pasticcerie indicano le dieci come orario d'apertura. Sono le sei e trenta, e lo stomaco è vuoto.
Troviamo un posto aperto nei pressi di una pompa di benzina. E' triste, ma non c'è alternativa.

Big e Paulette hanno deciso: mi accompagnano a Taliesin West ma non entrano, mi lasciano lì e poi mi vengono a riprendere nel pomeriggio. Se ne rimangono a fare shopping a Scottsdale, loro. Gli frega poco di Frank Lloyd Wright. Vanno a fare incetta di T-shirt da una tipa sciroccata che una volta aveva undici gatti, e ora ne sono rimasti solo due.

Taliesin West è uno dei capolavori del grande maestro dell'architettura moderna americana. Opera emblematica per comprendere lo spirito pionieristico del suo autore, è nata negli anni Trenta nel bel mezzo del deserto come rifugio-scuola per il periodo invernale, dove decine di giovani apprendevano le concezioni dell'architetto di Chicago e vivevano come in una sorta di comunità cooperativistica.
La visita guidata si svolge sotto un sole che picchia in modo terrificante. Intorno a me, un gruppo di giapponesi si riparano sotto ombrellini coloratissimi. E io che li ho sempre presi per il culo... in questo momento pagherei qualche decina di dollari per un fottuto arnese come quello. Trovo riparo dietro a una trave enorme di calcestruzzo, che così inclinata sembra emergere direttamente dal suolo. Da lì, non riesco a sentire bene le parole della guida, un anziano dalla pelle bruciata dal sole e con un grande cappello da cowboy in testa. Parla un inglese masticato, e per di più molto velocemente. Non ci capisco un betao cazzo. Devo avvicinarmi, porca troia. Sono di nuovo lì, a spaccarmi la testa sotto il sole a picco. Penso che potrei trascinare una di quelle minute vecchine giapponesi dietro un cactus e poi sgozzarla per portarle via il suo, ma temo che la cosa non passerebbe del tutto inosservata.
Il vecchio cowboy dice che è domenica, e che quindi dobbiamo perdonargli tutti gli strafalcioni che dice.
E poi non è nemmeno un architetto, aggiunge.
Ci racconta dell'uso poetico dei materiali - le pietre, il legno, il cemento, gli intonaci di colori caldi e terrosi: rosso, giallo, marrone - del rapporto instaurato con il territorio, dell'insuperabile gestione della luce, del continuo susseguirsi di dislivelli, terrazzamenti e scalinate, nel tentativo di non voler violentare il suolo, ma anzi esaltarne l'irregolarità.
Un'improvvisa frescura ci accoglie nelle sale interne.
Ed è un solievo enorme.
Qui, adagiato su una delle sue celebri sedie di legno, riesco davvero a d apprezzare la sacralità del luogo domo mi trovo.
Taliesin West ospita attualmente la Frank Lloyd Wright Foundation, l'istituzione creata da Wright stesso per custodire tutte le sue opere, e appesa alle pareti si può ammirare una straordinaria raccolta di scritti e disegni, molti dei quali tuttora inediti, e alcuni lavori dei suoi allievi migliori.

Leggo ad alta voce:

"THE REALITY OF BUILDINGS DOES NOT CONSIST IN ROOF AND WALLS, BUT IN THE SPACE WITHIN TO BE LIVED IN"

*Immagine da:
http://www.architechgallery.com/arch_images/architech_images/pedro_guerrero/guerrero_taliesin.jpg

sabato 21 febbraio 2009


Se voi che state leggendo queste poche righe ancora non conoscete di “Astral weeks”, l’acclamato album d’esordio (1968) di Van Morrison, forse è meglio se abbandonate la lettura e pensate a procurarvene al più presto una copia: esso può essere considerato una delle più mirabili fusioni di sempre tra folk – quello tradizionale dell’isola natìa – jazz e blues .
Se invece già conoscete il capolavoro dello scorbutico cantante di Belfast, unaninemente considerato una pietra miliare della storia del pop-rock, allora potete continuare a leggere di questa nuova versione live, registrata durante due serate all’Hollywood Bowl di Los Angeles il 7 e 8 novembre scorsi per celebrarne la ricorrenza dei 40 anni.
Il significato dell’operazione è tutto in queste sue parole: “Queste canzoni sono senza tempo e sono fresche ora come allora, anzi, forse ora più di allora”.
Privo in pratica di sovraincisioni e remissaggi - Van “The Man” da sempre è assai restìo al lavoro di studio – “Astralweeks: Live at Hollywood Bowl” trasferisce tutta la spontaneità dei due concerti, con i brani dilatati all’infinito, i sofisticati barocchismi orchestrali e con quelle frasi ripetute in modo quasi ossessivo, come in un mantra estatico, da un Morrison che sembra quasi inciampare nelle parole: la struttura così atipica dei brani, senza strofa ne’ ritornello, lo agevola assai in quest’opera di rivisitazione free.
Nella scaletta trovano spazio gli otto brani originali, anche se non nell’ordine consueto (su tutte “Madame George”, “Sweet thing” - chi ricorda la splendida versione degli Waterboys? - e “The way young lovers do”), oltre a un paio di bonus tracks recuperate dal suo immenso repertorio, ovvero “Common One” e “Listen To The Lion” (che è anche il nome della sua nuova etichetta indipendente).
Il grande successo dell’operazione ha spinto l’Uomo a programmare una serie di bis: per chi si trovasse nei paraggi, il 27 e il 28 febbraio sarà al Madison Squeare Garden di New York. Fossi in voi, non lo perderei…

martedì 17 febbraio 2009

Letame

(Attenzione: contiene liriche esplicite)

Il pallido sole è appena sbucato nella valle e nulla può, per ora, contro la brina che durante la notte ha avvolto le colline dall'erba ingiallita.
Il termometro segna ancora sotto zero.
Devo ricredermi: domenica mi ero illuso che la primavera sarebbe presto arrivata.
Invece c'è il gelo.
Il fiume scorre tranquillo. C'è una quiete impressionante, dopo le ondate di piena delle ultime settimane. Gli argini questa volta hanno tenuto, non c'è stata nessuna tracimazione - non dobbiamo usare il termine "esondazione", ci ha detto il maestrone l'altra sera - ed è già una notizia.
Altre notizie incombono.
Il radiogiornale snocciola, impietoso, i dati delle elezioni sarde.
Si è perso, sai che novità.
In questo paese di merda.

Lo speaker potrebbe evitare di infierire, ripetendo, con quella sua voce stridula da tacchino, tutti quei numeri e quelle percentuali, con precisione maniacale. Cazzo, potrebbe capire il mio, il nostro momento di difficoltà, quel figlio di puttana. Potrebbe sorvolare, che so, fare solo un cenno fugace e rimandare tutti gli ascoltatori interessati a un ulteriore approfondimento successivo, cosicchè tutti gli altri possano cambiare stazione o addirittura spegnere la radio.
E invece no.
Quel bastardo, insensibile e forse addirittura sadico, manda in onda persino un commento di Gasparri.
Segnati il nome di questo bastardo, penso io.
Uno dice: ma ormai si perde sempre, non fa più nemmeno male. Un pò è vero: prevale da tempo immemorabile un'apatica e lucida rassegnazione. Tuttavia, è pur sempre vero quello che diceva il Principe di Niviano (qualcuno lo ricorderà, era uno dei tipici avventori dell'osteria del Doriano, alla Pieve, dove si poteva avere un gin tonic per millecinquecento lire): "la prima volta fa male, ma la seconda è anche peggio, perchè si rompono le croste". (Il Principe, mezzo poeta e mezzo filosofo, era un intellettuale un pò da battaglia, lo avrete capito...
E il Doriano, lo chiamavamo così perchè la panca di legno appena fuori dal locale era dipinta a strisce azzurre, bianche, rosse e blu.
Nessuno gli ha mai chiesto perchè. E magari lui teneva alla Juve...)

Non puoi ascoltare Gasparri, Country Joe.
A tutto c'è un limite, cazzo.
Devi reagire.

E allora metto in atto la mia vibrante protesta: spengo la radio.
Metto un cd a caso: "Dry your eyes", un rap malinconico e ossessivo di The Streets.
Sembra perfetto.
Con il passare dei minuti, la vasta pianura pare riprendere conoscenza.
Contemplo il succedersi ripetitivo dei campi. La loro aratura rasenta la perfezione, infinite linee parallele che si perdono all'orizzonte.
In mezzo ai campi ci sono alcuni trattori giganteschi, sembrano animali preistorici, con quelle loro stupide ruote dalle dimensioni assurde. Forse sono creature mitologiche. Quei fottuti moloch sono là che spandono liquami nerastri dappertutto, con ovvie ricadute sulla qualità dell'aria.
Ruoto la manopola che ne regola l'ingresso nell'abitacolo e mi giro verso Agnese, che nel frattempo se ne resta lì seduta sul suo seggiolino e si gira tra le mani un pupazzo a forma di topo color fucsia.
Se ne sbatte, lei, di Soru.
- Che odore!, - le faccio.
- Non sono stata io, - risponde lesta lei, avendo già capito di cosa la sto per accusare.
- E allora chi è stato?
- Tu!
- Non sono stato io. E' l'odore del letame.
- Cos'è?
- La cacca della mucca. I contadini la stanno buttando sui campi.
Agnese scrolla la testa, con il suo sorriso più bello stampato sul viso, lo posso vedere attraverso lo specchietto retrovisore. Cerco il suo sguardo, e mi accorgo che non mi crede. Nulla di cui stupirsi. Normalmente lei non crede a quello che dico. Non c'è da biasimarla. Mi diverto troppo a prenderla in giro, raccontandole le cose più assurde, e più sono assurde più le giuro che è vero. Quasi sempre cose raccapriccianti, di spirito pecoreccio.
L'altro giorno si stava frugando nel naso, e allora le ho detto: - Se trovi qualche caccola, dammela, per favore. Faccio la collezione. Le metto via tutte, in un cassetto su in soffitta. Ho ancora quelle di quando ero bambino...

- Sul serio, Agnese. Prendono la cacca delle mucche e la distribuiscono sui campi, per renderli più fertili. Così ci crescono verdure più grandi e più buone.
- Che schifo!
- Può sembrare che faccia schifo, ma è così. Con la cacca delle mucche ci fanno dei pomodori giganti!
- Non è vero.
- Sì che è vero. Puoi chiederlo alla mamma.
Agnese guarda fuori dal finestrino, pensierosa, in direzione dei campi coltivati.
Dopo qualche attimo di silenzio, sentenzia:
- Se ci pensi, papà, le verdure crescono nella terra. Non crescono nella cacca delle mucche.

sabato 14 febbraio 2009

Anno nuovo, vita nuova.
Come ogni volta, nei primi giorni del nuovo anno Country Joe ha messo in fila la sua wishlist 2009, ovvero il consueto e patetico elenco di buoni propositi per il futuro.
A metà febbraio, quell'elenco è ancora lettera morta.
Più o meno.
I suoi racconti sono ancorà lì, in mezzo al guado, in attesa della giusta ispirazione.
Per non parlare dei suoi irrealistici obiettivi circa un salto di qualità a livelli di benessere fisico e spirituale: tutti i programmi di attività sportiva sono saltati per colpa di una forte influenza+bronchite che lo ha tenuto furoi uso per tutto il mese di gennaio.

L'unica cosa che, per ora, gli è riuscita è stato riordinare la libreria.
Erano anni che lui e Sandy disponevano i libri per casa editrice e/o genere letterario. Questo sistema, che agli inizi garantiva un effetto visivo innegabilmente gradevole (ad esempio, tutti gli Einaudi in fila con il loro dorso azzurro polverino...), stava per crollare dinnanzi alla sempre maggiore quantità di libri che Country Joe è solito acquistare, spesso in modo dissennato, preferendo i tascabili, anche di seconda mano.
Per dirla breve, sempre più spesso gli capitava di mescolare generi ed editori, con il risultato che ormai non si trovava più nulla.
L'unico modo per rimettere ordine, aveva riflettuto, era sistemarli per autore, rigorosamente in ordine alfabetico.
Questa decisione gli sarebbe costata molta fatica.
Aveva sempre poco apprezzato le librerie (ad esempio Fernet) che dispongono in questo modo i libri, e aveva sempre trovato più piacevole avere subito sotto mano, che so, l'ultime uscite di mnimum fx o di e/o. D'altra parte, lui mica li vendeva i libri, cazzo.
E allora così aveva proceduto.
Gli ci erano volute solo un paio d'ore, e il risultato non era poi il diavolo. Quell'apparente disordine era, in realtà, un caleidoscopio di colori e di forme diverse.
Ed erano nati degli abbinamenti divertenti:

PAUL AUSTER - JAMES G. BALLARD
JEFFREY EUGENIDES - MICHAEL FABER
CHUCK PALAHNIUK - VALERIA PARRELLA

e poi l'incontro di due grandi:
CORMAC McCARTHY - IAN McEWAN

KENNEDY TOOLE si era piazzato tra gli immortali KAFKA e KEROUAC
SAMARAGO anche: SALINGER e SARTRE

e che trio made in USA:
EASTON ELLIS- EGGERS- ELLROY

Riportando tutti a casa, il Cesco, coi suoi monologhi editi dal Vicolo del Pavone, si era sistemato tra FENOGLIO e SCOTT FITZGERALD.
E il debutto di Lorenzo, quel "La Commedia è finita" che Country Joe conosce bene, si andrà tra poche ore a piazzare tra CALVINO e CAMILLERI.
Poco più in là, CANETTI
Niente male, dai.

venerdì 13 febbraio 2009

Quel gran pezzo del Bulagna

Mi arriva un sms dal Bobo:
"Ti sono vicino in questo difficile momento per il popolo rossoblu"
Allora è vero, è morto Giacomone Bulgarelli, gran signore.
Mi viene in mente che proprio qualche giorno fa un altro amico - sempre milanista e sempre poco furbo - mi ha inviato uno stralcio dall'ultima fatica (ma non ne sarei così sicuro, scrive libri su libri che è peggio di Vespa, ormai) di Edmondo Berselli: "Quel gran pezzo dell'Emilia", una vera e propria dichiarazione d'amore per la sua (e nostra) regione di nascita.
Eccolo:


mercoledì 11 febbraio 2009

E’ uscito alla fine del mese scorso il primo best dei Marlene Kuntz (http://www.marlenekuntz.com/), da almeno un decennio uno dei gruppi più importanti della scena rock del nostro paese.
La collezione ripercorre la carriera della band piemontese, dagli inizi fortemente influenzati dai Sonic Youth di “Daydream Nation” e dalla scena noisy (“Festa mesta” e la struggente ballata “Nuotando nell’aria” sono estratti dal primo album “Catartica” del ’94 per il Consorzio dei Produttori Indipendenti) sino ai lavori più recenti dalle sonorità più complesse e raffinate, nei quali il rumorismo sperimentale si sposa con gradevoli melodie pop (“Musa” - con Paolo Conte al pianoforte - e “Uno” dall’album omonimo del 2007), passando per la celebre “La canzone che scrivo per te”, nella quale il magrissimo frontman Cristiano Godano duetta con Skin.
Nella raccolta c’è spazio anche per le cover, non proprio prevedibili: “La libertà” di Giorgio Gaber e addirittura “Non gioco più” di Mina, già presente in un EP del 2004.
Alcune assenze non passano inosservate ai fan della prima ora: “Sonica”, ovvero uno dei loro primi cavalli di battaglia live, “Lieve”, bellissimo brano portato al successo dai C.S.I. che lo inserirono nel loro unplugged “In quiete”, e “A fior di pelle”, probabilmente il loro singolo di maggior successo.
Due soli gli inediti: il brano “Il pregiudizio” e, soprattutto, una strepitosa cover di “Impressioni di settembre” della P.F.M., il cui video è da alcune settimane in programmazione nell’heavy rotation di MTV. Davvero sorprendente la versione che il gruppo di Cuneo riesce a dare di uno dei capolavori della gloriosa stagione del rock progressivo italiano dei primi anni ’70, alla cui scrittura collaborò Mogol.

sabato 7 febbraio 2009

vìta
['vi-ta]
s.f.

1 sf
stato di attività naturale di un organismo, il quale può spontaneamente conservarsi, accrescersi e riprodursi.

(N.B.: "spontaneamente riprodursi"...)

2 sf
il vivere particolare di ciascun individuo, caratterizzato dal modo e dalla durata

3 sf
essere vivente, specialmente uomo

4 sf
l'insieme dei fatti più importanti della vita di qualcuno

5 sf
salute, vitalità

6 sf
nel corpo umano, la parte incavata sopra i fianchi, intorno a cui si pone la cintura

da:
dizionario-italiano.it/lingua-italiana-privacy.php

venerdì 6 febbraio 2009

Questi invece li ha disegnati il Gio durante un lungo viaggio in auto verso la Magna Grecia, parecchie estati fa, quaranta gradi all'ombra, quarantaquattro addirittura tra i vicoli di cemento armato della Gibellina di Burri...
Rivisti adesso, non sono affatto male.
Nel mio caso, poi, la somiglianza è davvero impressionante.
Ma il vero colpo da fuoriclasse è la didascalia dell'autoritratto:
"Con la luce alla mia destra e alla vostra sinistra"
Essenzialità allo stato puro.
(e anche le ombre sono ok...)



martedì 3 febbraio 2009

Agnese è al mare con i suoi nonni ormai da più di una settimana, e la nostaglia cresce...
L'antidoto migliore sono i suoi disegni.

Questo sono io:


Questi siamo noi quattro:

lunedì 2 febbraio 2009


Se esiste un artista che in tempi recenti è riuscito nel difficile intento di mettere d’accordo la critica e il pubblico – un pubblico eterogeneo, come quello che affollava lo scorso autunno il Teatro degli Arcimboldi per un’anteprima esclusiva del disco, con il solo Antony accompagnato dall'Orchestra Milano Classica diretta da Jim Holmes – questo artista è senza dubbio Antony & the Johnsons (http://antonyandthejohnsons.com).
Uscito il 19 gennaio, “The crying light”, dedicato al ballerino Kazuo Ohno, è l’album della sua definitiva consacrazione.
D’origine inglese, per lungo tempo Antony ha ricoperto il ruolo di icona underground della scena newyorkese. Scoperto al volgere del secolo da David Tibet dei Current 93 e poi apprezzato da Lou Reed, che lo volle con sé nel progetto “The Raven”, da allora Antony ha iniziato un’irresistibile ascesa che lo ha portato a ottenere il consenso unanime della stampa specializzata e una sempre maggiore attenzione da parte del panorama mainstream, vincendo addirittura un Mercury Music Prize per il miglior album del 2005 (“I am a bird now”).
Dopo i fasti estivi con la dance degli Hercules And Love Affair (soprattutto “Blind” ha impazzato nelle discoteche e nelle spiagge di tutto il mondo) e la sontuosa collaborazione con Bjork (“Volta”), Antony ritorna con un’opera che abbandona arrangiamenti pop e melodie facili per recuperare una dimensione prettamente cantautoriale.
Il disco contiene dieci meravigliose e delicatissime ballate pianistiche - tra le quali spiccano “One dove”, “Another world” e “Epilepsy is dancing” - nelle quali ancora una volta emergono la sua intensa classe, la sua profonda spitualità, la sua inquietante drammaticità, e infine il suo splendido timbro vocale, quasi da baritono, per il quale è difficile trovare riferimenti o paragoni.
Per Diamanda Galas, “ogni emozione nel pianeta è in quella sua voce meravigliosa”.
Antony and the Johnsons saranno in tour in Italia con le seguenti date: il 28 marzo ad Ancona (Teatro delle Muse - tel: 0039 071 203045), il 29 all’Auditorium il Parco della Musica di Renzo Piano (www.listicket.it), il 31 marzo a Prato al Teatro Politeama (tel: 0039 0574 603758), mentre l’ultima data milanese del 1 aprile (Sala Verdi Conservatorio) è già sold out.

lunedì 26 gennaio 2009

"Sentìi fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest'ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane".

In attesa che anche Piacenza ricordi Fabrizio De Andrè dedicandogli una strada – il sindaco Roberto Reggi si è detto d’accordo con noi su questa ipotesi – diverse sono state le celebrazioni, in tutto il paese, indette in occasione del decimo anniversario della morte del più grande dei nostri cantautori.
Genova, la sua amatissima città, gli dedica fino al 3 maggio un’interessante mostra (http://www.palazzoducale.genova.it/deandre/index.htm) - curata da Vittorio Bo, Guido Harari, Pepi Morgia, Studio Azzurro e dall’onnipresente Vincenzo Mollica – purtroppo relegata negli spazi un po’ angusti dello scantinato del prestigioso Palazzo Ducale: il piano nobile ospita infatti una retrospettiva sull’artista italo-argentino Lucio Fontana, ed è possibile acquistare un biglietto cumulativo e visitare le due mostre con soli dieci euro.

La mostra cerca – per usare le parole di Studio Azzurro - di ricomporre i frammenti di un pensiero complesso, di rimappare un territorio creativo senza cedere a una facile celebrazione.
Il percorso espositivo – il cui allestimento e grafica sono stati stati realizzati dallo studio di architettura Sp10 - si snoda principalmente attraverso grandi pannelli traslucidi, sui quali vengono retroproiettate immagini, interviste e video d’annata (nella maggior parte dei casi non si tratta, tuttavia, di materiale inedito), e attraverso tavoli interattivi che consentono ai visitatori di scegliere i dischi o le canzoni delle quali vogliono conoscere la genesi, il testo, l’analisi critica e i commenti dello stesso De Andrè o dei suoi più stretti collaboratori (esiste persino la possibilità di creare un proprio personale tarocco ispirato alla sua musica).
A questo proposito, si sconsiglia vivamente di visitare la mostra di domenica, quando l’affollamento e la grande confusione finiscono inevitabilmente per disturbare la corretta percezione dei suoni e delle immagini.

Ne scaturisce, così, una narrazione multimediale, un vero e prorpio “ipertesto”, composto da suggestioni visive e sonore, che racconta in maniera intima, sobria e tutt’altro che spettacolare, le varie fasi della vicenda aritistica e umana di Fabrizio De Andrè.
Racconta degli inizi, piuttosto stentati (“La musica? Mi sedusse un po’ alla volta, come una troia prudente”), ovvero di quando Fabrizio era costretto a lavorare come contabile nell’azienda del ricco padre per sbarcare il lunario, di come si potè licenziare solo in seguito ai proventi dei diritti d’autore derivati dalla cover che Mina fece de La canzone di Marinella, nel gennaio del 1968: si pensi che la sua prima canzone (La ballata del Miche) è del 1960, mentre il suo primo 45 giri (Nuvole barocche/E fu la notte) è dell’anno successivo.
Racconta dei grandi amori musicali di De Andrè: in primo luogo gli chansonnier maledetti d’Oltralpe (Brel e Brassens), e poi Tenco, Dylan e Cohen; in particolare, del cantautore canadese egli tradurrà tre bellissimi pezzi: Suzanne, Nancy e Joan Of Arc.
Racconta del terribile periodo di prigionia in Sardegna, sul finire degli anni Settanta, delle sue paure da palcoscenico - superate grazie all’aiuto di Dori Ghezzi, sua compagna per oltre 25 anni - o dei tumulti post-Sessantotto con il suo primo concept album (Storia di un impiegato, 1973), della sua adesione al pensiero anarchico, del suo amore per Genova, per i suoi vicoli e i suoi bordelli frequentati da perdenti e tiratardi, da quegli ultimi e da quegli esclusi che popoleranno il suo cosmo musicale (“Ho tentato un affresco sulla miseria dell’uomo che è un invito alla pietà, alla fraternità”).
Racconta, inoltre, aneddoti di vario tipo.
Ad esempio, su quali fossero le canzoni che Fabrizio considerava le più belle tra quelle da lui scritte: Amico fragile (“è un pezzo della mia vita: ho raccontato un artista che sa di essere utile agli altri, eppure fallisce il suo compito quando la gente non si rende più conto di avere bisogno degli artisti”) e Il testamento di Tito (“da un’idea di come potrebbbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha”) . Quest’ultima si è classificata terza in un sondaggio di Corriere.it, per il quale il brano più votato è invece risultato La canzone dell'amore perduto, e al secondo posto La guerra di Piero. Ma in questo caso, incredibilmente, Amico fragile non era nelle nomination, al pari di altri pezzi cult – almeno per il sottoscritto - come Giugno 73, Jamin-A, Il suonatore Jones e Rimini (ma la scelta delle 15 papabili era assai difficile, bisogna ammetterlo).

Numerosi sono poi i contributi in video degli amici e soprattutto dei collaboratori di Fabrizio, che era, su questo non esiste alcun dubbio, assai bravo nello sceglierli (una volta disse, con grande umiltà e anche lucidità, che amava cambiarli per non correre il rischio di ridursi a cantare sempre la stessa canzone). In alcuni casi a scoprirli. Non ci sono stati infatti solo la P.F.M., Francesco De Gregori e Ivano Fossati (Anime salve, 1996), ma anche un giovanissimo Nicola Piovani (futuro premio Oscar) per le musiche di Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), il disco ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, oppure lo sconosciuto cantautore veneto Massimo Bubola (Rimini, 1978 - L’indiano, 1981). Persino Mauro Pagani, il co-responsabile di quell’autentico e inarrivabile capolavoro che rimane Creuza de Ma(1984) - David Byrne, leader dei Talking Heads, arrivò a inserirlo nei cinque dischi più importanati del decennio - non era certo una star da classifica o da show del sabato pomeriggio televisivo.

Sulle pareti, nere come il carbone, sono infine trascritti gli spartiti e i testi originali di Fabrizio De Andrè.
In qualche caso si tratta di bozze, di semplici tracce di lavoro, di spunti iniziali.
O anche di correzioni, di ripensamenti e di riscritture continue, come nel caso de La domenica delle salme, una delle sue composizioni più apocalittiche e anche più sofferte (per la quale girò il suo unico videoclip, se di videoclip si può parlare, firmato da Gabriele Salvatores), o di Via della povertà, che tradusse in collaborazione con De Gregori dalla mitica Desolation row di Bob Dylan (in alcuni appunti compare persino il titolo provvisorio Via della dittatura) o infine di Smisurata preghiera, una geniale combinazione di parole e di frasi prese in prestito dalla saga di Maqroll il Gabbiere, ovvero da un trittico di romanzi dello scrittore colombiano Alvaro Mutis, che De Andrè ebbe la fortuna di conoscere negli anni Novanta (ne esiste una versione in spagnolo che fu inserita nella colonna sonora del film Ilona viene con la pioggia).

In ogni caso, si rimane estasiati e addirittura sconcertati dalla bellezza senza tempo di alcuni versi.
Per citare a caso:
“Hanno preso il nostro cuore/sotto una coperta scura”.
“Qual è la direzione/nessuno me lo imparò”.
“Mille anni al mondo mille ancora/che bell’inganno sei anima mia”.
“Ora alzatevi spose bambine/ ch’è venuto il tempo di andare”.
“Evaporato in una nuvola rossa/in una delle molte feritoie della notte”.

domenica 18 gennaio 2009

Ritorno al Penice, 02


Avevamo appena preso possesso delle nostre squallide camere, ancora non avevamo iniziato a svuotare le nostre valigie, che il mitico Chio**** ne aveva già combinata una delle sue.
La prima di una lunga serie, qui in settimana bianca, quella lunga serie che lo proietterà di diritto nell'Olimpo dei migliori compagni di classe di sempre.
La temperatura era sotto zero, e sulle balconate in tavole di legno erano appese gigantesche stallattiti di ghiaccio: alcune erano lunghe quasi mezzo metro.
- Non toccate le stalattiti!, aveva appena finito di dire la maestra, - potreste farvi male!, che ecco venirle incontro dal piano di sopra un altro nostro compagno, In***, in lacrime, con una mano tutta sanguinante. Chio**** gli aveva letteralmente aperto la mano durante un duello di fioretto con due stalattiti particolarmente appuntite.
Era il numero uno, Chio****.
Fu uno dei primi esempi, un esempio quasi ante litteram, di bullismo nella scuola pubblica, anche se in questo caso stiamo parlando un bullismo divertente, pecoreccio, tutto sommato innocuo (a parte la mano sanguinante di In***, si intende). Figlio di un poliziotto emigrato a Piacenza da chissà quale città del sud, abitava in quelle case popolari anni Trenta che ci sono all'inizio del Facsal.
Per tutte le elementari, fu il nostro indiscusso leader.
Tanto per dirne una, era lui il nostro capitano al torneo di Sant'Anna (negli annali rimane un suo clamoroso rigore sprecato, scivolando su una pozzanghera durante la fase di rincorsa, proprio nel match decisivo contro la squadra di Gigi la Puzza).
Nemmeno il fatto che a scuola fosse una mezza sega, e anzi una vera e propria sega - all'esame di quinta aveva portato il Veneto: la commissione, con davanti un'enorme cartina geografica, gli chiese di indicare la posizione del Veneto, e lui partì dalla Sicilia, poi la Puglia, ecc... per poi arrivare al Veneto dopo un'interminabile e comico giro d'Italia - poteva intaccare il suo innegabile e inarrivabile carisma. Anzi, ne accresceva l'aura di compagno maledetto.

La prima lezione di sci gli causò i primi problemi seri. Perse uno sci a metà pomeriggio, durante una delle sue ultime goffe discese, e per recuperarlo - all'epoca, stiamo parlando di metà anni '70, gli sci non montavano quei piccoli freni a lato degli attacchi - decise di buttarsi giù per una pista ripida con uno sci solo. Si smarrì nel bosco, tanto che fu necessario andarlo a riprendere con un gatto delle nevi, e rientrò in albergo quando tutti noi stavamo già cenando.

Un'altra sera mandò nel panico la maestra. Era già mezzanotte, ormai, e come di consueto lei aveva fatto una ricognizione di tutte le stanze per sincerarsi che fosse tutto a posto, e che non mancasse nessuno, ma Chio**** non c'era. I suoi compagni di stanza, quella sera, non l'evevano visto proprio. Fummo svegliati tutti, e a tutti ci venne chiesto dov'era Chio****, ma nessuno lo sapeva. La maestra era disperata.
Chio**** era scappato.
Magari stava cercando di tornare a casa, nel gelo di una notte d'inverno, solo e sperduto nella notte.
Sconvolta, la maestra decise allora di andare a chiamare la polizia, o i carabinieri di Bobbio, qualcuno insomma, e intanto probabile che pensava: ma chi me lo fa fare di portare in settimana bianca queste piccole teste di cazzo?
Scese nella hall dell'albergo per chiedere un telefono. Mentre apettava qualcuno del personale, gettò un rapido sguardo nella saletta del bar. Che mi venga un colpo se quello seduto al tavolo con i maestri di sci non è lui, pensò, se quel piccolo bastardo che canta a squarciagola mentre gioca a carte e beve delle birre al tavolo dei maestri di sci, non è lui, non è Chio****.
Quandò entrò nella saletta per andare a prenderlo per un'orecchio e trascinarlo nella sua stanza, Chio**** non fece una piega, come se trovarsi lì fosse del tutto normale, anzi si lagnò un poco per il fatto che stava vincendo dei soldi.
Poteva fargli finire almeno la mano, cazzo.

Ma il suo capolavoro fu certamente quello della gara di pupazzi di neve.
Maschi contro femmine.
Chi costruiva il pupazzo di neve più bello vinceva.
Occorre qui rammentare che, in seconda elementare, a queste gare ci si teneva da Dio. Dovevamo farglela vedere, a quelle sgualdrinelle. Noi maschi stavamo dunque lavorando alacremente e il nostro pupazzo prendeva forma. Ma le femmine non demordevano, anche grazie all'aiuto - poco sportivo, a nostro modo di vedere - della maestra stessa. Allora ci fu una pausa di riflessione.
- Dobbiamo costruirlo ancora più grande, - disse qualcuno.
- Serve ancora della neve, - disse qualcun'altro.
- Ci penso io!, - proclamò solennemente Chio****.
Il nostro carismatico leader si stava avvicinando al pupazzo con un bidone della spazzatura tra le mani. Ovviamente, era appena nevicato, per cui la sommità del bidone era ricoperta da uno strato di neve fresca.
Tutto si svolse così rapidamente, non ci fu il tempo per fermarlo.
Ricordo perfettamente quella scena, è come se si svolgesse di nuovo qui davanti a me, al rallenty.
Lui che si trascina dietro, con grande fatica, il bidone metallico.
Lui che si accosta al pupazzo di neve, incurante dei richiami di alcuni di noi che già presagivano il peggio.
Lui che raccoglie le sue forze e che solleva il bidone, con il viso reso paonazzo dallo sforzo.
Lui che rovescia il contenuto del bidone stesso - un sottile strato di neve fresca, e poi: cartacce, lattine di birra, pacchetti di patatine, kleenex accartocciati, bucce di arance, rifiuti domestici di vario tipo - sul pupazzo di neve della squadra dei maschi.

Inutile stare qui a raccontarvi chi ha vinto la gara.

sabato 10 gennaio 2009

Ritorno al Penice, 01

E' il giorno di Santo Stefano, e dobbiamo farci trovare già pronti sulle piste, alle dieci in punto. Non è facile svegliare Agnese, convincerla a vestirsi in fretta con la calzamaglia rossa e la tuta imbottita, talmente gonfia da farla sembrare un pagliaccio del circo, impedirle la consueta razione mattiniera di cartoni e, con il biberon - al biberon non ci rinuncia, per nessuna ragione al mondo - ancora pieno a metà, farla salire in macchina per dirigerci verso le vette innevate del Penice. Mentre fuori, quasi, è ancora buio.
E' la sua prima lezione di sci.
Per questo riesco nella difficile impresa, Agnese è molto motivata, da quando ha visto sfrecciare Anna e Bianca qualche domenica prima si è messa in testa che anche lei deve andarci, sugli sci.
L'appuntamento è fissato al bar Travo verso le nove meno un quarto, ma di Anguilla e degli altri amici non c'è traccia. Verso le nove, ormai spazientito, decido di cominciare ad avviarmi. Chiamo gli altri, io intanto vado, dico, ci vediamo là.

Tragico errore tattico.

Fino a Bobbio, tutto bene. E' sui primi tornanti della strada che conduce al passo che sorgono i primi problemi. La temperatura scende rapidamente sotto zero, e cominciano a scendere i fiocchi di neve, leggerissimi, che fluttuano nell'aria come fossero piume di un uccello. La strada in pochi istanti si imbianca.
Procedo a velocità assai ridotta. Non ho le gomme da neve e, malgrado si tratti di pneumatici quasi nuovi, sento l'auto sbandare pericolosamente. Quando ormai mi sembra di aver scampato il pericolo, la Multipla davanti a noi - la fottuta Multipla davanti a noi - improvvisamente si inchioda e non riesce più a ripartire.
Merda.
Fottuta Multipla del cazzo.

Ovviamente, non riesco a scartarla di lato, sarebbe stata una manovra un pò azzardata considerata la mia tenuta di strada alquanto approssimativa, e così sono costretto a fermarmi anch'io. Faccio per ripartire ma niente, le gomme slittano sulla neve e la macchina scivola inesorabilmente all'indietro. Caccio due madonne, ma solo due perchè in fin dei conti è sempre Santo Stefano, e scendo dalla Scenìc per recuperare le catene dal baule. Non muoverti di qui, dico ad Agnese, che mi osserva divertita dal finestrino. Sotto un'abbondante nevicata, sdraiato sul piumino disposto sulla strada innevata, cerco di montarle come riesco: trattasi infatti di oggetti diabolici, se trovo chi le ha inventate me lo inculo, lo giuro.
Una decina di minuti dopo sfreccia Anguilla a tutta velocità, non potevo fermarmi, mi dirà più tardi, altrimenti non sarei più ripartito nemmeno io.
Sto per finire il mio patetico lavoretto che si ferma un fuoristrada grigio in mio soccorso.
Scende un ragazzo che mi avvicina e mi fa: hai bisogno di aiuto?
Mentre mi osserva negli ultimi dettagli, scrolla la testa e mi fa: perchè monti le catene di dietro?
Non vanno davanti?

Ovvero: ho montato le catene sulle ruote posteriori, sulla mia Scenìc, che notoriamente ha la trazione anteriore, come quasi la totalità delle auto in commercio.

Questo per dirvi che razza di stronzo sono.

Allora smonto le catene con freddezza inusuale, con gesti quasi automatici. Anzi per la verità ne smonto solo una, la rimonto in tutta fretta sulla ruota anteriore sinistra, e poi controllo l'orologio: cazzo, sono quasi le dieci. E' tardissimo. Perderemo la lezione. Così decido di imbarcarmi sugli ultimi tornanti con una catena davanti e una catena dietro, dimenticando persino la scatola che le conteneva sul ciglio della strada. Miracolosamente - qualcuno deve avermi sentito, prima - arriviamo al passo, con la Scenìc che sculetta visibilmente a ogni curva, non prima di aver perso una delle due catene in prossimità dell'ultima curva a gomito.
Quando scendo dall'auto, una volta arrivati, trovo gli amici ad aspettarmi con la faccia incredula.
Devo avere veramente un brutto aspetto, con la giacca a vento sporca di fango e le mani che quasi sanguinano per il gelo, se decidono di non infierire e di partire alla ricerca di catena e scatola e di tutto ciò che ho disseminato sulla strada, novello Pollicino.
(Per la cronaca: anche l'altra catena è stata montata da schifo e si è incastrata dietro al cerchione in lega, tanto che è stato necessario smontare addirittura la gomma per recuperarla...)

Mi rimane poco tempo, e quindi porto Agnese - che non ha mai smesso di dire: che bravo Papà, siamo arrivati fino in cima; bravo un cazzo, avrei voluto dirle - giù al noleggio, le allaccio gli scarponi, le faccio regolare gli attacchi e poi l'accompagno sulle piste. Lei sembra un soldatino. Nemmeno un lamento, che so: ho i piedi gelati, oppure ho gli scarponi troppo stretti, roba così.
Eppure c'è un freddo pungente.
Deve aver capito che non è giornata.

Poi torno sul piazzale ghiacciato, dove ad aspettarmi ci sono gli amici che nel frattempo mi hanno sistemato la Scenìc. Mi guardano con le loro facce da cazzoni. Anguilla mi fa: io non dico niente. Ridacchia sommessamente, il bastardo. E' chiaro che non vede l'ora di sputtanarmi a destra e manca. Insiste: il mio silenzio si può comprare. Tutto si può comprare, a questo mondo.
Allora entriamo nel rifugio e offro a tutti un punch caldo.
Non basterà, tra poche ore lo saprà tutto il paese.
Mentre sono al bancone mi avvicina un tipo anziano e mi dice, passavo di lì e ti ho visto montare le catene di dietro, ma come si fa, Cristo, a montare le catene di dietro?
Gli rispondo: prima di tutto sono un coglione.
E poi, non penso mai a quello che faccio.
E lui, pensieroso: la tua sincerità è da apprezzare.
Sorrido, e faccio il gesto di brindare verso la sua direzione.

Poi scendo di nuovo sulla pista, per ammirare il coraggio di quella piccola incosciente che già si vuole buttare giù sulla discesa.
Dopo un pò che la osservo, mentre risale con la manovia, lei se ne accorge e mi saluta con la manina guantata.
Mi emoziono, non posso farci niente.
Guardo nel cielo la neve che scende e poi rido, cos'altro devo fare.

mercoledì 7 gennaio 2009

Olio di gomito

Al ritorno è tutto come prima: sale grosso, pala e olio di gomito.
Come dire, il nuovo anno parte alla grande...
C'è voluta più di un'ora, ieri pomeriggio, per issare quel vecchio bestione dell'America sullo stradello di casa, dieci tonnellate di fottuta vetroresina. Fortuna che mi ha aiutato il Gio.
E giovedì scorso era andata anche a peggio, con la batteria a terra e il gasolio che si era ghiacciato nel serbatoio. Siamo riusciti a partire solo dopo l'intervento provvidenziale del Carlino, che sant'uomo. Carlino è l'elettrauto di Rivergaro.
Bisognerebbe fargli un monumento nella piazza pubblica al Carlino, giù a Rivergaro. Mi ha detto: se succede ancora, controlli il filtro del carburante, lo sa dov'è, vero? Gli ho detto: non solo non so dov'è, non so nemmeno cosa sia. Se ne è andato solo dopo essersi sincerato che non avrei toccato nulla senza il suo permesso. Mi ha prestato persino una batteria di scorta e i cavi per il collegamento, perchè i miei - non si offenda, mi ha detto il Carlino - erano veramente dei cavi grammi.
E ho dovuto insistere per pagarlo.
Cazzo aspettano a farglielo davvero, quel monumento?

Stamattina, c'è da rifare tutto daccapo.
Saranno almeno quaranta-cinquanta centimetri, alla faccia di PiacenzaSera che si ostina a dire che è peggio in pianura che in collina... (scherzo, amici)
E quindi: sale grosso, pala e olio di gomito.

E' tutto così spettacolare, così magico, con la neve.
Oggi, mentre mangiavamo, un piccolo pettirosso è venuto a spigolare le briciole di pane secco che Sandra aveva disseminato sotto il portico.
Bisogna sapersi ancora commuovere, ogni tanto.

Peccato non ci sia il vecchio Oscar, lui la neve se la gode di brutto.
Ancora non sono riuscito a recuperarlo, le strade sono impraticabili.
Quest'anno sono stato costretto a portarlo in una di quelle tristi pensioni per cani, un bel posto, per carità, uno chalet in legno tra le colline imbiancate sopra Tollara. Non si è sistemato male, ha la sua gabbia - ampia e confortevole, recita il depliant - e una cuccia riscaldata con stufetta elettrica. E un grande campo per sgranchirsi le gambe almeno tre-quattro volte al giorno, così mi hanno giurato. Ci sono anche un cucciolo di samoyedo e un vecchio spinone.
Lasciarlo lì mi ha messo malinconia, sul serio, ma anche lui se le va a cercare, quel vecchio bastardo, ha combinato guai ovunque, e adesso non lo vuole più nessuno: una volta litiga con il cane del vicino e gli fa uno sbrego di venti centimetri sul muso, l'altra riduce in polpette un gatto randagio, l'altra ancora abbaia tutta la notte disturbando il vicinato.
E' meglio se metti la testa a posto, caro il mio bastardo, così non si può andare aventi.